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La quiete dopo la tempesta

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13/12/2017

Tratto da:
Giacomo Leopardi, Poesie e prose, Volume primo: Poesie, Meridiani Mondadori, 1987

Guida alla lettura

Composta a Recanati nel 1829, “La quiete dopo la tempesta” affronta il problema della natura della felicità, giungendo alla conclusione che i rari momenti di piacere concessi all’umanità sono soltanto il risultato della cessazione del dolore, del timore e della pena. E che la vera quiete non può essere raggiunta che con la morte, il solo evento in grado di risanare ogni sofferenza.
Il canto inizia con un ampio quadro di vita campestre ritratta nei momenti che seguono una tempesta: gli animali fanno festa, il cielo si rasserena, ogni cuore si rallegra e tutti tornano alle abituali attività. Sono questi, osserva Leopardi, i momenti in cui la vita è più gradita, ma nei quali ci rendiamo anche conto, con sgomento, che il piacere è «figlio d’affanno», una «gioia vana frutto del passato timore». Dunque la felicità può esistere solo per qualche fuggevole istante e solo per contrasto con il male appena vissuto o paventato: «Uscir di pena è diletto fra noi». E questo, osserva Leopardi nello Zibaldone, «non solo perch’essi mali danno risalto ai beni, e perché più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perché senza essi mali, i beni non sarebbero neppure beni a poco andare, venendo a noia, e non potendo la sensazione del piacere durar lungo tempo». Pessimismo e teoria della noia come essenza della vita umana si intrecciano dunque in versi di altissima poesia. Sino all’amara e ironica conclusione: già abbastanza fortunata e contenta, l’umanità, se può avere sollievo dal dolore, e addirittura beata quando la morte la libera per sempre dalla fatica di vivere. Un’ironia che si sostanzia negli appellativi “O natura cortese” e “Umana prole cara agli eterni!”, che secondo una collaudata tecnica retorica negano quanto sembrano affermare.
Dal punto di vista metrico, “La quiete dopo la tempesta” è una tipica canzone libera leopardiana, ossia una canzone di derivazione petrarchesca in cui vengono meno le tradizionali regolarità: le stanze (o strofe) sono composte da un numero diseguale di versi, la successione di endecasillabi e settenari non segue uno schema preciso, le rime sono trattate con la massima libertà, e spesso assenti.
Lo stile è fluido e molto musicale, soprattutto nella prima parte. Nella seconda, emerge con limpidezza la forza speculativa di Leopardi e, al contempo, la sua ineguagliata capacità di tradurre il pensiero in versi di grande eleganza ed essenzialità.
Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L’artigiano a mirar l’umido cielo,
Con l’opra in man, cantando,
Fassi in su l’uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
Della novella piova;
E l’erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand’è, com’or, la vita?
Quando con tanto amore
L’uomo a’ suoi studi intende?
O torna all’opre? o cosa nova imprende?
Quando de’ mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d’affanno;
Gioia vana, ch’è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.

O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
E’ diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D’alcun dolor: beata
se te d’ogni dolor morte risana.

Biografia

Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798 da famiglia aristocratica. Il padre è un uomo colto, ma incapace di comprendere la grandezza del figlio. La madre è rigida, poco affettuosa. La fanciullezza trascorre però serena: nel canto “Le ricordanze”, il poeta ormai adulto ricorderà che nelle vaste sale del palazzo paterno rimbombavano «i sollazzi e le festose mie voci».
Negli anni dell’adolescenza Giacomo studia il latino, il greco e l’ebraico, avviando quella vita di studio intenso che più tardi chiamerà “matto e disperatissimo”. Inizia a comporre versi, traduce autori classici (Virgilio, Orazio, Mosco, Frontone), scrive lavori eruditi, fra cui una “Storia dell’astronomia”. Ma la salute inizia a risentirne: mostra i primi sintomi di depressione e i primi problemi alla colonna vertebrale. Il fratello Carlo scriverà di averlo visto più volte, svegliandosi nel pieno della notte, «in ginocchio avanti il tavolino per potere scrivere fino all’ultimo momento col lume che si spegneva».
Fra il 1816 e il 1817 vive la cosiddetta “conversione letteraria”, ossia il passaggio dall’erudizione alla poesia (“lettere belle”), e inizia a maturare quell’amore per la gloria artistica che, anche nei momenti più tristi della sua vita, gli sarà di qualche conforto. Nel 1817 si innamora della cugina Geltrude Cassi, di passaggio a Recanati: per lei scrive un appassionato “Diario d’amore” e l’elegia “Il primo amore”. L’anno successivo muore Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi: dieci anni dopo il poeta la canterà, in uno dei suoi canti più intensi, con il nome di Silvia.
Nel 1819 lo stato sempre più precario della salute, la freddezza dell’ambiente familiare, l’intolleranza per il “borgo selvaggio” di Recanati lo spingono ad abbandonare la fede religiosa e ad abbracciare una concezione materialistica della vita: è la “conversione filosofica”, che fa di lui un precursore dell’esistenzialismo. A luglio tenta invano di fuggire da casa, dopo aver scritto al padre una lettera traboccante di amarezza e di ambizione: «Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi». Forse a settembre, compone “L’infinito”, il primo degli idilli, cui seguiranno – negli anni immediatamente successivi – “La sera del dí di festa”, “Alla luna” e “La vita solitaria”.
Nel 1822 si trasferisce a Roma, ma non ne prova alcun piacere: la vita letteraria locale lo delude profondamente. Nel 1823 torna a Recanati, e l’anno successivo scrive le “Operette morali”. Fra il 1825 e il 1828 visita Milano, Bologna (ove si innamora della contessa Teresa Carniani Malvezzi), Firenze, dove conosce Alessandro Manzoni, e Pisa. Qui, sollevato dalla dolcezza del clima, compone «versi veramente all’antica e con quel cuore d’una volta»: nascono “Il risorgimento” e “A Silvia”.
Tornato per l’ultima volta a Recanati, termina di comporre quelli che verranno ricordati come “canti pisano-recanatesi”: “Le ricordanze”, “Il passero solitario”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il sabato del villaggio” e “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Nel 1830 parte per Firenze, ove conosce e ama appassionatamente la nobildonna Fanny Targioni-Tozzetti, e si lega con fraterna amicizia ad Antonio Ranieri, esule politico napoletano. A Firenze compone una serie di canti ispirati all’amata, fra cui “Il pensiero dominante” e “Amore e morte”. Nel 1833 si sposta a Napoli con l’amico Ranieri, e prende dimora in una villa alla falde del Vesuvio: qui comporrà “La ginestra” e “Il tramonto della luna”.
Gli ultimi anni di vita sono segnati da sofferenze fisiche sempre più crudeli, in particolare a causa dell’asma. Muore il 14 giugno 1837. Le sue ceneri riposano presso la tomba di Virgilio nel Parco Vergiliano di Piedigrotta. E’ ricordato e amato come il maggior poeta dell’Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura di tutti i tempi.
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