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Il tramonto della luna

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10/01/2018

Tratto da:
Giacomo Leopardi, Poesie e prose, Volume primo: Poesie, Meridiani Mondadori, 1987

Guida alla lettura

Questa stupenda lirica fu scritta da Giacomo Leopardi nel 1836, pochi mesi prima di morire: e, con “La ginestra”, è considerata dai critici una sorta di testamento spirituale. Quattro sono i quadri che la compongono. Il primo ritrae il tramonto della luna; il secondo paragona questo tramonto al venir meno della giovinezza; il terzo lamenta la triste realtà della vecchiaia, più terribile della morte stessa; il quarto confronta il destino delle colline e delle pianure, che dopo il tramonto della luna rivedranno presto la luce del sole, con quello dell’uomo, che dopo gli anni della giovinezza affronta una lunga notte che termina solo con la morte.
Dal punto stilistico, ci troviamo di fronte a una delle canzoni più belle di Leopardi, con numerose rime e rime al mezzo (ossia a metà verso) che conferiscono al discorso poetico una meravigliosa musicalità. La lunga descrizione del tramonto si struttura in immagini di grande eleganza, nelle quali il cromatismo lunare viene reso con straordinaria efficacia («campagne inargentate ed acque», «mille vaghi aspetti», «ombre lontane», «onde tranquille»). L’istante preciso del tramonto, poi, è un puro incanto di suoni: «Si scolora il mondo; / Spariscon l’ombre, ed una / Oscurità la valle e il monte imbruna». Il secondo termine del paragone – il venir meno della giovinezza – riprende tutto il lessico leopardiano del rimpianto del tempo perduto: « In fuga / Van l’ombre e le sembianze / Dei dilettosi inganni; e vengon meno / Le lontane speranze». Sino allo sgomento con cui l’uomo, incapace di trovare un senso alla vita, riconosce la terra estranea a sé, e se stesso estraneo alla terra.
Il terzo quadro si innerva di amara ironia: troppo felice deve essere sembrata la nostra sorte ai celesti, perché la giovinezza dovesse durare per sempre! E così gli immortali hanno creato la vecchiezza, più turpe della morte stessa (è evidente l’eco della lirica greca antica, e di Mimnermo in particolare). Il quarto quadro, infine, rinnova la freschezza musicale dei primi versi e dal punto di vista retorico, raffrontando la vita umana e le «collinette e piagge» che vanno incontro a una sorte ben diversa, riprende il parallelismo contenuto nel finale del “Passero solitario”, ove si confrontava il destino della bestiola, paga della propria solitudine, e quello del poeta, tardivamente pentito della propria vita schiva e solitaria.
Ancora una volta Leopardi ci dona una riflessione esemplare sul dolore di vivere e sul senso di assurdo che tanto spesso avvolge l’esistenza umana: in forme squisite canta il passato che non torna, le speranze effimere della gioventù, l’amaro termine della vita mortale. Ma in qualche modo la bellezza assoluta di questi versi riscatta e sublima la sofferenza che li ha generati, e ci offre un momento di conforto alla nostra stessa fatica, all’angoscia che talora stringe il nostro cuore.
Quale in notte solinga,
Sovra campagne inargentate ed acque,
Là ‘ve zefiro aleggia,
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingon l’ombre lontane
Infra l’onde tranquille
E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confin del cielo,
Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell’infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l’ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L’estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,
Saluta il carrettier dalla sua via;

Tal si dilegua, e tale
Lascia l’età mortale
La giovinezza. In fuga
Van l’ombre e le sembianze
Dei dilettosi inganni; e vengon meno
Le lontane speranze,
Ove s’appoggia la mortal natura.
Abbandonata, oscura
Resta la vita. In lei porgendo il guardo,
Cerca il confuso viatore invano
Del cammin lungo che avanzar si sente
Meta o ragione; e vede
Che a se l’umana sede,
Esso a lei veramente è fatto estrano.

Troppo felice e lieta
Nostra misera sorte
Parve lassù, se il giovanile stato,
Dove ogni ben di mille pene è frutto,
Durasse tutto della vita il corso.
Troppo mite decreto
Quel che sentenzia ogni animale a morte,
S’anco mezza la via
Lor non si desse in pria
Della terribil morte assai più dura.
D’intelletti immortali
Degno trovato, estremo
Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni
La vecchiezza, ove fosse
Incolume il desio, la speme estinta,
Secche le fonti del piacer, le pene
Maggiori sempre, e non più dato il bene.

Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all’occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall’altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparì, non si colora
D’altra luce giammai, nè d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
Che l’altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.

Parafrasi della lirica

Come nella solitudine della notte, sopra le campagne inargentate e i fiumi, laddove aleggia lo zefiro e le ombre lontane – fra le onde tranquille, e i rami, le siepi, le colline, le case – creano mille indefinite apparenze e forme irreali, la luna, giunta al confine del cielo, tramonta dietro l’Appennino o l’Alpe, o nell’infinito abbraccio del Tirreno, e il mondo perde il suo colore, spariscono le ombre, l’oscurità imbruna la valle e il monte (e il carrettiere la saluta cantando mestamente), così la giovinezza abbandona la vita e con lei scompaiono le parvenze ingannevoli delle illusioni, e le lontane speranze su cui si regge la natura umana. Abbandonata e oscura resta la vita. L’uomo, simile a un viandante che abbia smarrito la strada, non riesce a rendersi ragione del tempo che gli resta da vivere: e scopre che la terra gli è diventata estranea, e lui stesso è davvero diventato estraneo alla terra.
Troppo felice e lieta sembrò ai celesti la misera sorte dell’uomo, perché la giovinezza – ove ogni bene è pur frutto di di mille tormenti – dovesse durare tutta la vita. Troppo mite per lui la sentenza di morte perché non lo si dovesse condannare a una pena più dura della morte stessa: degna scoperta di intelletti immortali, gli eterni escogitarono la vecchiezza, il più grave di tutti i mali, nella quale restano intatti i desideri ma è perdura la speranza, asciutte le fonti del piacere, le pene sempre più grandi, e il bene tolto per sempre.
Voi, collinette e pianure, tramontato lo splendore che a occidente inargentava il cielo, non resterete a lungo prive di luce, perché dall’altra parte presto vedrete il cielo imbiancarsi nuovamente, e sopraggiungere l’alba; e il sole, seguendo ad essa, con le sue fiamme possenti, di torrenti di luce inonderà voi e il cielo. Ma la vita dell’uomo, tramontata la giovinezza, non si colora mai più di altra luce, né di altra aurora: spenta è sino alla fine. E gli dei, come termine alla notte che oscura tutte le altre età successive alla giovinezza, posero la sepoltura.

Biografia

Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798 da famiglia aristocratica. Il padre è un uomo colto, ma incapace di comprendere la grandezza del figlio. La madre è rigida, poco affettuosa. La fanciullezza trascorre però serena: nel canto “Le ricordanze”, il poeta ormai adulto ricorderà che nelle vaste sale del palazzo paterno rimbombavano «i sollazzi e le festose mie voci».
Negli anni dell’adolescenza Giacomo studia il latino, il greco e l’ebraico, avviando quella vita di studio intenso che più tardi chiamerà “matto e disperatissimo”. Inizia a comporre versi, traduce autori classici (Virgilio, Orazio, Mosco, Frontone), scrive lavori eruditi, fra cui una “Storia dell’astronomia”. Ma la salute inizia a risentirne: mostra i primi sintomi di depressione e i primi problemi alla colonna vertebrale. Il fratello Carlo scriverà di averlo visto più volte, svegliandosi nel pieno della notte, «in ginocchio avanti il tavolino per potere scrivere fino all’ultimo momento col lume che si spegneva».
Fra il 1816 e il 1817 vive la cosiddetta “conversione letteraria”, ossia il passaggio dall’erudizione alla poesia (“lettere belle”), e inizia a maturare quell’amore per la gloria artistica che, anche nei momenti più tristi della sua vita, gli sarà di qualche conforto. Nel 1817 si innamora della cugina Geltrude Cassi, di passaggio a Recanati: per lei scrive un appassionato “Diario d’amore” e l’elegia “Il primo amore”. L’anno successivo muore Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi: dieci anni dopo il poeta la canterà, in uno dei suoi canti più intensi, con il nome di Silvia.
Nel 1819 lo stato sempre più precario della salute, la freddezza dell’ambiente familiare, l’intolleranza per il “borgo selvaggio” di Recanati lo spingono ad abbandonare la fede religiosa e ad abbracciare una concezione materialistica della vita: è la “conversione filosofica”, che fa di lui un precursore dell’esistenzialismo. A luglio tenta invano di fuggire da casa, dopo aver scritto al padre una lettera traboccante di amarezza e di ambizione: «Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi». Forse a settembre, compone “L’infinito”, il primo degli idilli, cui seguiranno – negli anni immediatamente successivi – “La sera del dí di festa”, “Alla luna” e “La vita solitaria”.
Nel 1822 si trasferisce a Roma, ma non ne prova alcun piacere: la vita letteraria locale lo delude profondamente. Nel 1823 torna a Recanati, e l’anno successivo scrive le “Operette morali”. Fra il 1825 e il 1828 visita Milano, Bologna (ove si innamora della contessa Teresa Carniani Malvezzi), Firenze, dove conosce Alessandro Manzoni, e Pisa. Qui, sollevato dalla dolcezza del clima, compone «versi veramente all’antica e con quel cuore d’una volta»: nascono “Il risorgimento” e “A Silvia”.
Tornato per l’ultima volta a Recanati, termina di comporre quelli che verranno ricordati come “canti pisano-recanatesi”: “Le ricordanze”, “Il passero solitario”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il sabato del villaggio” e “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Nel 1830 parte per Firenze, ove conosce e ama appassionatamente la nobildonna Fanny Targioni-Tozzetti, e si lega con fraterna amicizia ad Antonio Ranieri, esule politico napoletano. A Firenze compone una serie di canti ispirati all’amata, fra cui “Il pensiero dominante” e “Amore e morte”. Nel 1833 si sposta a Napoli con l’amico Ranieri, e prende dimora in una villa alla falde del Vesuvio: qui comporrà “La ginestra” e “Il tramonto della luna”.
Gli ultimi anni di vita sono segnati da sofferenze fisiche sempre più crudeli, in particolare a causa dell’asma. Muore il 14 giugno 1837. Le sue ceneri riposano presso la tomba di Virgilio nel Parco Vergiliano di Piedigrotta. E’ ricordato e amato come il maggior poeta dell’Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura di tutti i tempi.
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