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La meditazione e il trapasso di mia madre – Seconda parte

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14/12/2012

Le vostre lettere alla nostra redazione

Dopo qualche mese i miei genitori finalmente si separarono. Qualche mese prima della separazione, mia madre Cristina aveva ritrovato un suo ex fidanzatino, Fabio. Si erano conosciuti da ragazzini a scuola, e si erano messi assieme. In seguito, per varie vicissitudini, avevano perso i contatti l’uno dell’altra. Dopo circa quarant’anni la vita li aveva fatti ritrovare. Ma dopo qualche mese dalla separazione e dalla sua nuova vita con Fabio, Cristina seppe di avere un tumore al seno.
Fu un duro colpo per tutti. Per lei deve essere stato un momento difficilissimo. Si ritrovava a vivere da sola, in un piccolo appartamento a pochi chilometri dalla casa in cui aveva vissuto più di vent’anni della sua vita e cresciuto due figli. Il rapporto con mio padre era compromesso, e anche quello con mio fratello, che non voleva più sentirla. Si ritrovò quindi ad affrontare la malattia in una situazione nuova e con poche sicurezze.
Paradossalmente, nel periodo appena precedente alla separazione, come poi anche durante la malattia, avevo visto mia madre più serena di quanto non l’avessi mai vista prima. Forse l’incontro con Fabio e le nuove esperienze le avevano fatto ritornare la voglia di vivere. Con la malattia Cristina e Fabio si avvicinarono ulteriormente, e lei si trasferì da lui. Io ero felice per mia madre.
Anche per me quel periodo è stato ricco di sorprese, con nuovi occhi riuscivo a vedere mia madre, e allo stesso tempo Cristina con il suo percorso. Si sciolsero molte tensioni ed i rapporti cambiarono in modo significativo, sia con lei che con mio padre. Mi resi conto che in tutti quegli anni non avevo conosciuto mia madre, solo adesso cominciavo a farlo.
Cominciò la procedura medica, l’ospedale, i dottori, le visite, la chemio e il suo fisico iniziò a cambiare. I suoi capelli bellissimi non c’erano più e cominciavo a sentire la sua paura di morire. Mi affioravano alla mente le parole che avevano accompagnato la mia infanzia: «Sono stanca, non ce la faccio più», accompagnati da lacrime, fumo e alcol. Le liti con mio padre e le sue crisi depressive. Capii ancora una volta quanto le nostre dinamiche interiori influiscano negli eventi della nostra vita, sia nel determinarli sia nell’influenzare il modo in cui li viviamo.
Fu solo in quel periodo che riuscimmo a parlare dell’importanza della vita e del tempo che ci rimane. Ricordo molto bene la sera in cui parlammo della morte: con le lacrime agli occhi mi diceva di avere paura. E’ difficile per un figlio ritrovarsi nel ruolo di “guida” per i genitori in momenti così sensibili, tanto più che mia madre non aveva neanche cinquant’anni.
Le presi la mano e le parlai dal profondo del cuore della mia esperienza. Le dissi che quando ero andato a cercarla avevo trovato solo altra vita, che la morte non esisteva. Le dissi che il corpo è tenuto assieme da un qualcosa di più grande e profondo, la parte più intima di noi stessi. Le dissi che si sarebbe immersa nell’amore più puro che avrebbe potuto mai immaginare e avrebbe lasciato semplicemente il corpo, le sue parti materiali. Avrebbe trovato le persone care, la zia Dina, sua madre, e molti altri esseri che l’avrebbero aiutata nel suo nuovo livello di esistenza, nel suo nuovo percorso, per fare nuove scelte. E ci sarei stato anch’io. Trovai la forza per dirle che se sentiva di dover fare o dire qualcosa di importante, non doveva aspettare.
Ci abbracciammo. Un misto di amore, compassione, affetto e dolore per la consapevolezza che forse, presto, non avrei più potuto sentire il calore del suo corpo, che da bambino mi stringeva forte e mi accarezzava i capelli. Il suo odore, la sua presenza fisica, in tutti quei piccoli gesti quotidiani a cui non si dà mai abbastanza importanza.
L’ultimo abbraccio fu in un giorno di fine estate, almeno credo: la morfina l’aiutava a lenire il dolore che il corpo stremato dalla chemioterapia le procurava. Le operazioni non erano servite a molto, e il tumore aveva prodotto metastasi in altre parti vitali del corpo.
Non sapevo che il momento del trapasso sarebbe arrivato di lì a poco. Se l’avessi saputo non sarei mai partito per quel viaggio di lavoro. Dopo qualche giorno, dopo una giornata di lavoro in Basilicata, Fabio mi chiamò al telefono. Con voce seria e triste, mi disse che le condizioni di Cristina si erano aggravate e mi esortava a tornare a casa. Subito non afferrai la situazione, forse non volevo neanche pensarlo. Poi capii. Presi il primo treno disponibile. Viaggiai di notte sperando di arrivare in tempo per starle accanto e accompagnarla al momento del trapasso. Non dormii, meditai tutta la notte. Nella prima mattina i pensieri si fecero leggeri, e nella mente cominciai a vedermi all’ospedale, seduto accanto al suo letto.
Cominciai a dirle tutto quello che le avrei detto se fossi stato fisicamente con lei. Più rimanevo con lei, più le parole uscivano dolci e sempre più belle, amorevoli. Mi sentivo forte e pieno d’amore, un’atmosfera ideale per quel momento così speciale, in connessione con quell’affetto speciale che unisce i genitori con i figli. Consapevole che a prescindere dal ruolo, le anime sono eternamente unite in un susseguirsi di esperienze, sempre in evoluzione, con la continua illusione di perdersi e ritrovarsi.
Uscii dalla Meditazione e aprii gli occhi quando erano circa le 6 di mattina. Subito arrivò la chiamata di Fabio e la notizia che Cristina era trapassata. Le lacrime uscirono, e un misto di emozioni mi attraversò in pochi istanti: commozione e felicità miste al rammarico di non essere stato lì fisicamente ad accompagnarla e a salutarla, come le avevo promesso. Ma era stato perfetto così, c’era Fabio con lei. Magicamente soli, e il loro nuovo antico amore. E io, in fin dei conti, sapevo che c’ero e lei mi sentiva, adesso più che mai. Ero sereno, dovevo esserlo. Sapevo dov’era, e sapevo di dover essere felice per lei, anche se già mi mancava e mi era difficile immaginare di non sentire più la sua voce, vederla e poterla abbracciare.
Arrivai all’obitorio dove avevano portato il suo corpo, come da procedura. Chiesi di vedere ciò che di fisico rimaneva di mia madre. Pensai che il posto migliore per trapassare è a casa propria, accanto alle persone care, per lasciare il tempo all’essenza di sé di andarsene in un’atmosfera familiare, con le persone che ci vogliono bene, e non in una fredda cella frigorifera.
Chiesi di rimanere solo con lei. Presi una sedia, le posai una mano sul petto e una sulla fronte e sedetti in silenzio. La mente calma, immerso in una presenza amorevole. Assieme, io, lei e il suo corpo. La salutai così.
Arrivò il giorno del funerale. Nei mesi passati avevo visto i rapporti cambiare nuovamente, mio fratello si era riavvicinato a lei. Credo di non aver mai ammirato tanto mio padre, Claudio, come in quel periodo. La perdita e la malattia spesso ci fanno evolvere di anni-luce. Per amore di una persona, riusciamo a passare sopra il nostro ego e le sue stupide e spesso distruttive convinzioni, per lasciar spazio alla cosa più importante, a ciò che ci tiene tutti uniti. Alla cosa più importante di quel processo fragile ma ostinato chiamato vita. E’ dall’amore che nasce la comprensione, e quindi la pazienza; poi tutto si cala nel presente. E anche noi l’avevamo fatto grazie a lei.
Non avevo mai visto tante persone che conoscevo tutte assieme, parenti, amici, persone che nemmeno ricordavo o che avevo visto solo da bambino. Tutti si erano riuniti per salutare Cristina, mia mamma. Non era forse un miracolo? Ricordo gli abbracci, e gli occhi pieni di amore e sofferenza per la perdita, per le cose dette o che avrebbero voluto dirle, per i ricordi passati. In quel momento così speciale, sentivo tutti vicini a noi e a Cristina.
Mamma è una persona speciale e a suo modo ci aveva voluto un gran bene.
Non riuscivo ad essere triste, ero completamente immerso in quell’affetto e in quel senso di unione che ci aveva portati ad essere lì. Credo fossi il più felice in quel momento, assieme a Cristina, e forse lei lo era anche più di me. Finalmente era tornata a casa, e da quella prospettiva poteva letteralmente esplodere di gioia ed essere ovunque, nei nostri cuori e ovunque desiderasse.
Pensai che se esiste un senso della morte, della malattia e della sofferenza che spesso ci procuriamo, quel senso è di ricordarci cosa sia veramente importante nella vita.
Perché non vivere sempre così? Sentirci tutti uniti, dando il meglio di noi stessi in ogni momento, con tutto l’amore che siamo in grado di dare? Consapevoli che ogni momento è fragile e passeggero, che ogni incontro è un’occasione per cambiare tutto, per dare il meglio di noi. So che se c’è una cosa che rimpiangeremo con un sorriso, dopo il trapasso, è di non aver dato ancora più amore nella nostra esistenza, qualunque essa sia.
Come diceva Socrate, noi siamo la musica, non lo strumento!
Ringrazio con tutto il cuore i miei genitori e compagni di vita, Cristina e Claudio, oltre che mio fratello Marco, per avermi dato la meravigliosa opportunità di diventare ciò che sono. Ora più che mai comprendo la perfezione di ogni singola esperienza passata assieme. E provo una profonda compassione verso me stesso e la mia sempre limitata comprensione. A volte, immerso nelle varie dinamiche di famiglia e nelle situazioni della vita, non sono riuscito a vedere le opportunità, preferendo immergermi in uno stupido vittimismo di fronte alle situazioni difficili. Grazie, Cristina, per aver limitato la tua libertà ed esserti immersa in un’esperienza umana per amore, per dare a me l’opportunità di diventare un essere migliore. Ora tocca a me fare del mio meglio, a mio modo naturalmente.
Grazie anche ad Alessandra, un’amica ritrovata. Grazie per le sue cene a base di pastina all’olio, grazie per le chiacchierate con una persona che, nonostante lo fossi, non mi faceva sentire un bambino.
Con la speranza che questa mia esperienza, assieme ad altre, possa avvicinarci alla consapevolezza che ogni essere è parte della stessa famiglia.
M.B.
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