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Il malato e il tempo

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28/04/2010

Tratto da:
Xavier Thévenot, Avanza su acque profonde!, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI), 2001, p. 133-137

Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

In questo brano Xavier Thévenot, sacerdote e teologo colpito dal morbo di Parkinson, parla senza reticenze della sua malattia, analizzandone in particolare l’effetto dirompente sulla percezione soggettiva del tempo e sulla capacità della persona di guardare al futuro come «luogo possibile della creazione di una storia aperta alla novità». Precarietà, senso di fragilità, angoscia profonda obbligano il malato, dopo una prima fase di autentica pietrificazione, «a imparare a desiderare in modo nuovo», assumendo nel proprio orizzonte esistenziale la perdita delle forze, il dolore fisico ed emotivo, la progressiva emarginazione dall’ambiente professionale. Si tratta di saper «mollare la presa», accettando con umiltà che in una vita autenticamente umana c’è sempre «una dialettica di controllo e di mancanza di controllo». Un’umiltà che emerge anche dall’insolita formula narrativa del brano, in cui Thévenot ritorna su cose scritte tre anni prima, e che ora – a lungo dimenticate – gli paiono «consigli che vengono da un amico», ma molto difficili da mettere in pratica.
Questo realismo etico, in un uomo di fede, si arricchisce poi di un elemento interiore: la consapevolezza che la debolezza umana può trovare aiuto e sostegno nella potenza di Dio, così come l’abbassamento di Cristo trovò il proprio compimento nella resurrezione dai morti. «Dio – osserva lucidamente Thévenot – è un Dio della storia, e di una storia che non ha nulla di meraviglioso perché è un miscuglio di idolatria e di azione di grazie, di massacri e di atti di solidarietà con il povero, di schiavitù e di liberazione»: dunque è un Dio che può pronunciare una parola di vita anche per ciascuno di noi, e proprio quando ogni speranza umana sembra frustrata e avvilita dall’evidenza del male.
In questi giorni sto prendendo coscienza dell’aggravarsi della mia malattia. Il morale ne risente. Faccio fatica ad assumere in modo accettabile il tempo che passa. A volte mi si presenta alla mente il futuro molto duro che mi attende, ed è l’angoscia. Altre volte mi assale la nostalgia del tempo in cui ero in buona salute, e allora insorge la tentazione dello scoraggiamento. Mi è difficile restare ancorato nel presente. Perciò mi è venuta l’idea di andare a rileggere ciò che ho scritto tre anni fa sul modo in cui il malato vive il rapporto con il tempo. Mi troverò ancora d’accordo con quelle affermazioni, oppure il tempo avrà fatto emergere una nuova visione? Ecco come mi esprimevo allora.

Una delle facoltà più essenziali della persona è la capacità di fare progetti, di percepire il proprio futuro come luogo possibile della creazione di una storia aperta alla novità, pur restando coerente con le acquisizioni e le scelte del passato. Per chi è in buona salute, la temporalità appare come il quadro normale nel quale dispiegare una fecondità, che si spera in progressiva crescita. Ma ecco che la presa di coscienza della diagnosi di una malattia grave cade come un fulmine a ciel sereno, troncando in pochi istanti la spavalda sicurezza di un uomo, mettendo il suo futuro sotto il segno di un’enorme precarietà, introducendo un senso di grande fragilità. Il malato è come pietrificato, tramortito dalla rivelazione del suo male. Il presente si fa all’improvviso così brutale da occultare momentaneamente il passato e da annullare la capacità di aprire un nuovo futuro tramite il dispiegarsi del desiderio. È l’inizio di un modo radicalmente rinnovato di investire la temporalità. Il malato viene così indotto a comprendere meglio quello che la lingua suggerisce quando utilizza lo stesso termine per designare il tempo cronologico e quello atmosferico: non si conosce il valore del tempo (della temporalità), e dunque la consistenza della verità del proprio essere personale, finché non si sono attraversate certe intemperie della vita.
Dopo questa fase di disorientamento, il malato deve imparare da capo a desiderare, ma in modo nuovo. Si era illuso che all’uscita da un tale periodo tumultuoso avrebbe potuto di nuovo gestire il suo futuro come aveva fatto fino a quel momento, lasciandosi dietro come un brutto incubo i primi istanti di angoscia. Ma ben presto deve mollare la presa: non ha più le forze di un tempo; non può più contare in modo stabile su quelle efficienti reazioni del suo corpo che rappresentavano la sua sicurezza di base; talvolta viene preso negli ingranaggi degli esami medici e delle cure che assorbono tempo, molto tempo; lo colgono momenti di affaticamento, o di dolore, che lo obbligano a rimandare a più tardi attività nelle quali trovava la sua realizzazione. Ma quel che è peggio è che gli capita di mancare a un appuntamento proprio quando si conta sulla sua presenza; e avviene addirittura che, per questioni complesse, chi gli sta intorno non si rivolga più a lui... Insomma, il tempo non è più affidabile. Il malato lo controlla male, spesso sempre peggio. E l’uomo inteso come progetto – gran bella definizione dei filosofi! – che viene colpito nella sua stessa essenza.
Certamente, se il malato ha un minimo di saggezza, e a fortiori se ha frequentato qualche autore spirituale, sa bene che in una vita autenticamente umana c’è una dialettica di dono e di abbandono, di controllo e di mancanza di controllo. Ma tutto questo, che fino a quel momento conosceva in modo relativamente astratto, ecco che la malattia glielo insegna a livello esistenziale, nelle profondità stesse della sua carne. Sì, gli è necessario imparare a mollare la presa, a non avere più il controllo del tempo. Eppure si sorprende ancora a chiudersi nella nostalgia dei momenti felici di un passato pieno di salute, o al contrario a proiettarsi stupidamente in un avvenire radioso, mentre una reazione dolorosa del suo corpo giunge a ricordargli un minuto dopo quanto ciò sia vano. E persino quando la lezione della malattia comincia a portare frutto, questa necessità di mollare la presa egli la percepisce certo come una via necessaria, ma in realtà non ci crede ancora fino in fondo. Solo quando, più tardi, sperimenterà la vacuità dell’accanirsi a fingere di non essere malato, allora improvvisamente capirà. Pesante momento di crisi, di attraversamento del deserto, ma quanto mai fecondo, perché è un momento di accettazione della realtà, momento di umiltà nel quale finalmente si costruisce sul terreno (umiltà viene dalla parola latina “humus”, terreno) fragile ma autentico della personalità quale essa è veramente.
Allora si riaffacciano alla mente del malato cristiano tutta una serie di affermazioni bibliche, più o meno esplicite, che un tempo non erano per lui così eloquenti come ora. Dio è un Dio della storia, e di una storia che non ha nulla di meraviglioso, perché è un miscuglio di idolatria e di azione di grazie, di massacri e di atti di solidarietà con il povero, di schiavitù e di liberazione. Non solo, ma questa storia culmina nella kenosi (cf. Fil 2,6-11), cioè nella spoliazione radicale dell’uomo Gesù, che grida da una croce il suo senso di abbanndono. Ed è in questa storia piena di falle e di fragilità, nella quale i progetti di liberazione del Salvatore sembra si siano chiusi con un altisonante fallimento, che la potenza discreta della resurrezione si fa strada, trasformando la pietra rigettata dai costruttori in pietra angolare, rimodellando quella pietra incrinata che è Simone in una roccia solida sulla quale viene edificata la chiesa, facendo di Saulo, il persecutore sicuro di sé, un discepolo pieno di umiltà. Il malato, alternando la propria esperienza del dover mollare la presa a tale meditazione della Scrittura, comprende allora più chiaramente come l’unica vera fecondità sia quella che si in scrive nella logica della fecondità di Dio: una logica per cui la potenza non sopprime la debolezza, ma si dispiega in essa (cf. 2Cor 12,9). Ormai si sente pronto a dire in modo molto più verace: “Padre, io rimetto la mia vita tra le tue mani” . Esperienza fondamentale! Il suo legame di filiazione adottiva con Dio, che la malattia ha fatto entrare in profonda crisi, ne esce rafforzato perché purificato da certi attaccamenti idolatrici.
Tuttavia la negazione delle conseguenze della malattia si serve a volte di una finissima strategia: il malato ha appena compreso queste cose, e già si immagina di averle integrate una volta per tutte. Ma, così facendo, dimentica ancora una volta la complessità del tempo. Lui che credeva di esser stato radicalmente trasformato, dovrà accettare di battersi ancora molte volte contro la tentazione rinascente di non accettare la realtà. Dovrà esperire come per comprendere la logica della fecondità di Dio sia necessario un lungo e incessante lavoro, man mano che si dispiegano gli effetti dell’incidente occorso alla sua salute. A tal punto che il malato, se è lucido, non potrà mai scambiare se stesso per un eroe, per un grande saggio, o per un santo! Ma una constatazione del genere è già di per sé feconda, perché lo mette in comunione “dall’interno” con la comune condizione umana. La vera fecondità non è forse quella che nasce da un apprendistato autentico con chi ci sta accanto?

Rileggendole, queste affermazioni mi sembrano aver conservato tutta la loro pertinenza. E’ curioso come avessi dimenticato il loro contenuto preciso, tanto che ora le accolgo come consigli che vengono da un amico. Consigli che trovo molto difficili da mettere in pratica!

Biografia

Xavier Thévenot (1938-2004), sacerdote francese, è stato salesiano di Don Bosco e professore di teologia morale all’Istituto Cattolico di Parigi. Affetto per oltre 20 anni dal morbo di Parkinson, ha scritto pagine dense e sofferte sulla propria esperienza di malattia.
Thévenot amava definire la morale come «ciò a cui gli uomini si obbligano quando vogliono conferire un senso alla propria vita» e come «un insieme di regole e di valori che ci consentono di trovare a poco a poco, e liberamente, cammini di umanizzazione e di felicità».
Teologo di fama internazionale, capace di parlare della morale senza cadere nel moralismo, Thévenot ha contribuito a dimostrare come sia possibile riflettere sulla realtà e assumere decisioni responsabili anche quando il bene e il male sembrano essere inestricabilmente legati.
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