Guida alla lettura
Il ragionamento di Bloom si articola in un limpido parallelo. Da un lato lo scrittore comprende il dolore inestinguibile di chi non si rassegna alla perdita, purché questo non sia il «dolore isterico» di chi si ribella inutilmente alla natura del mondo, ma una «pena calma e profonda». Dall’altro, non bisogna perpetuare sacrificalmente il dolore, magari per il timore – quasi sempre inconscio – che non soffrire più sia segno di un amore non abbastanza forte ed esclusivo. Il dolore, pur continuando a segnare la nostra anima, può a poco a poco trasformarsi in altro: un amore ancora più profondo e fedele, la consapevolezza del comune destino e, per chi crede, l’attesa di ritrovare un giorno le creature perdute in questa vita.
Quando Cristo, negli ultimi istanti di lucidità sulla croce, invita Maria e Giovanni ad accogliersi reciprocamente («Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”», Giovanni 19, 26-27), esprime proprio questa apertura al futuro, esorta a non ripiegarsi in un rimpianto infinito e potenzialmente sterile, prospetta un orizzonte verso cui camminare, una speranza d’amore in cui credere ancora.
Le parole di Bloom ci fanno anche capire che ognuno vive il dolore a proprio modo, e che non c’è un modo in assoluto migliore di un altro. La mancata percezione di questa verità può portare a situazioni di grave e ulteriore sofferenza: quante volte, per esempio, un uomo e una donna che hanno perso un figlio finiscono per lasciarsi perché non riescono a sintonizzarsi rispetto al vissuto del lutto, e si accusano reciprocamente di soffrire troppo, o di soffrire troppo poco. In casi come questi la morte distrugge davvero la vita, ed è allora che dobbiamo fare appello a tutta la nostra capacità d’amore perché le forze del nulla non prevalgano sul nostro futuro.
D’altra parte, non bisogna neanche rinnovare artificialmente in sé il dolore, il sentimento drammatico della morte d’un proprio caro, come se il suo attenuarsi provasse che non lo si era amato abbastanza. Il dolore deve trasformarsi in altro: nell’inestinguibile amore, nella consapevolezza che anch’io percorro la stessa via, che dovrò anch’io morire, e allora che gioia sarà ritrovarsi! E’ così che nel dolore si accende una luce…
Biografia
Lui stesso racconterà: «Ho incontrato Cristo in un momento in cui ne avevo bisogno per vivere, e nel quale tuttavia non lo stavo affatto cercando. Non fui io a trovare lui: fu lui a trovare me. Ero un ragazzino, allora... Fino a quel momento la mia vita era stata difficile, ma ora stava diventando finalmente più serena. Il problema era che, negli anni difficili, avevo trovato naturale combattere; ma ora che l’orizzonte sembrava schiarirsi, non riuscivo ad accettare quel benessere senza scopo».
Nel 1939, prima di partire per il fronte come medico dell’esercito francese, Andrei prende segretamente i voti monastici nella Chiesa Ortodossa Russa. Farà professione solenne e riceverà il nome di Anthony nel 1943. Durante l’occupazione nazista della Francia, lavora come chirurgo e prende parte alla Resistenza.
Nel 1948 viene ordinato presbitero e inviato in Inghilterra: sarà nominato Vicario nel 1950, Vescovo nel 1957 e, nel 1962, Arcivescovo della Chiesa Ortodossa Russa di Gran Bretagna e Irlanda. L’anno successivo è nominato Esarca per l’Europa occidentale del Patriarcato Ortodosso di Mosca, e nel 1966 è innalzato al rango di Metropolita.
Nel 1974 lascia l’impegnativo incarico di Esarca per dedicarsi esclusivamente alla cura pastorale dei fedeli, il cui numero cresce in quegli anni molto rapidamente. Muore a Londra nel 2003.
E’ ricordato come una figura ecclesiale fra le più autorevoli del nostro tempo, padre spirituale di raro discernimento e autore di testi sulla preghiera e sulla vita cristiana apprezzati in Oriente e in Occidente da cristiani di tutte le confessioni.