Quel giorno sono uscita dal suo studio con uno stato d’animo indefinito, in mano un nuovo elenco di farmaci da assumere e questo ordine categorico dell’attività fisica che – come pensavo in quel momento – avrei di sicuro trasgredito, preferendo la comodità e il tepore del mio letto. Eppure, fortunatamente, nei giorni successivi qualcosa è scattato dentro di me. La paura di non guarire più, il terrore di contribuire con la mia inattività a un peggioramento e, forse, il colore rosso corallo delle mie scarpette nuove da ginnastica, che mi appariva come un chiaro invito alla vitalità e alla positività, si sono mescolati come magici ingredienti: finché una mattina, una di quelle iniziate con i soliti bruciori, mi hanno spinta ad uscire, in barba al tempo incerto e alla paura di dover scappare in bagno dopo poche centinai di metri.
In effetti i fastidi vescicali continuavano ad accompagnarmi durante quelle prime passeggiate, ma ciò che notavo col passare del tempo era che il resto del mio corpo iniziava lentamente a risvegliarsi da una sorta di letargo; e con il corpo cominciava a risvegliarsi anche la mente, ormai da troppo tempo incagliata nei soliti pensieri neri. Ed ecco che è successo quello che non speravo succedesse più: ho cominciato gradualmente a stare meglio, giorno dopo giorno, passo dopo passo, vicolo dopo vicolo. Tutto in me ha cominciato a funzionare meglio. E infine è arrivato lo stupore, quello che si può provare solo dopo un lungo periodo di disorientamento. Quelle passeggiate fatte nel periodo più bello dell’anno, quello in cui l’aria profuma di gelsomini e robinie e il colore del cielo è di un azzurro cristallino e amico, mi avevano permesso di riscoprire tutto ciò che avevo intorno da tempo e che ormai da mesi non vedevo più: la bellezza di una città attraversata dolcemente da un fiume, gli uccelli che volano liberi nel cielo, i bambini che ridono spensierati, il vento che scompiglia i capelli, ma soprattutto loro, le alte cime degli alberi, quelle che, per farsi guardare, mi impongono di alzare bene la testa e lo sguardo e lasciarmi accecare per un istante dai raggi del sole che filtrano tra i rami.
A distanza di pochi mesi la mia passeggiata quotidiana si è già trasformata in una dipendenza, una di quelle che non possono che fare bene. Senza ombra di dubbio l’attività fisica deve essere accompagnata dalla giusta cura farmacologica, dalla capacità di ascoltare bene i segnali del proprio corpo e di non lasciarsi scoraggiare dalle ricadute che possono ripresentarsi. So che la mia cura non è ancora finita, che dovrò avere pazienza, ma so anche che la sofferenza mi sta insegnando ad avere una maggiore consapevolezza del mio corpo. Soprattutto so di essere stata fortunata ad incontrare un medico come la professoressa Graziottin, persona molto preparata e disposta all’ascolto, il cui viso si illumina di gioia quando le sue pazienti cominciano a guarire, e il cui sorriso vitale, costante e sicuro è capace di infondere fiducia e positività anche negli animi più scoraggiati e smarriti.
S.M.