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Il faticoso cammino verso la compassione: Lc 10,25-37

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16/09/2009

Tratto da:
Luciano Manicardi, Il volto del sofferente, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI), 2004, p. 14-20

Guida alla lettura

La solidarietà è un reale, responsabile «farsi prossimo all’altro nella sua sofferenza» e affonda le radici nella compassione, ossia nella capacità di con-soffrire con l’altro: solo così esce dal dominio sterile del “sapere” moraleggiante per esprimersi sul concreto terreno del “fare” morale. E’ questo il senso della parabola del buon samaritano, con la quale Gesù – rispondendo alla domanda di un dottore della legge su chi sia il nostro prossimo – ci invita a farci noi stessi prossimo degli altri, lasciando che la compassione dilaghi poco per volta nel nostro agire quotidiano.
Il comportamento del samaritano illustra con limpidezza il cammino interiore cui tutti, credenti e laici, siamo chiamati: alla vista dello sconosciuto caduto vittima dei briganti, gli fa spazio nel proprio cuore, accoglie la sua sofferenza sino a un vero e proprio sconvolgimento interiore – “viscerale”, arriva a dire il testo greco – e approda a una decisione etica che lo spingerà a fare tutto ciò che è in suo potere per salvargli la vita. La compassione esce così dall’alveo comodo dell’emotività superficiale e momentanea, e si fa scelta operativa, assunzione di responsabilità, solidarietà visibile e fattiva.
Stiamo attenti però, avverte con lucidità Luciano Manicardi, a non identificarci troppo facilmente con il protagonista buono della parabola: nel nostro cuore abitano anche i sentimenti e le paure del sacerdote e del levita, che di fronte al moribondo tirano diritto, cosicché «i tre personaggi sono tre momenti dell’unico movimento faticoso verso un atteggiamento di vera solidarietà», e «disegnano un unico percorso e un’unica storia, quella della compassione che fatica a farsi strada in noi, nel nostro cuore». Non ci può essere autentica solidarietà se prima non affrontiamo e assumiamo le resistenze che in noi stessi si oppongono ad essa: un atto di maturazione umana che, a sua volta, ci chiede di incontrare la nostra stessa sofferenza, e averne compassione (“amerai il prossimo tuo come te stesso”).
E’ importante osservare come il verbo greco che all’inizio dell’episodio esprime il comandamento dell’amore (agapáō) indichi nel Nuovo Testamento l’amore infinito di Dio ma sia anche, in questo contesto, significativamente coniugato al futuro (agapéseis, amerai): ciò indica che siamo sì chiamati a seguire l’esempio di Cristo, sola e autentica narrazione del Padre invisibile (cf. Gv 1,18), ma che questa sequela non può mai essere perfetta, piena, completa, ma va ogni giorno rinnovata nell’impegno e nell’umiltà. La consapevolezza dei nostri limiti umani ci pone al riparo dalla duplice tentazione dello scoraggiamento, anticamera dell’inerzia, e dell’orgoglio, preludio alla durezza di cuore.
Un’ultima annotazione, in parte anticipata in apertura. Nei Vangeli, Gesù non si limita mai a rispondere alle nostre domande, ma ci invita sempre a un radicale cambiamento di prospettiva. Ciò si verifica, con particolare forza, anche in questo caso. Il dottore della legge aveva chiesto: chi è il “prossimo” che devo amare? Ma Gesù, invertendo i termini della questione, risponde: sei tu, come il samaritano, che devi farti prossimo agli altri, a chiunque altro sia solo e sofferente, e abbia bisogno di te.
In questo senso, la parabola ci invita a guardare al dolore del mondo con grande creatività e libertà interiore, e con la certezza che la sola regola etica del nostro agire dovrebbe essere l’amore generoso e disinteressato. Dice a questo proposito il filosofo Paul Ricoeur: «A me pare che ascoltare la parabole di Gesù significhi lasciare aperta l’immaginazione alle nuove possibilità dischiuse grazie a questi brevi racconti. Se guardiamo alle parabole come a una parola che si rivolge più alla nostra immaginazione che alla nostra volontà, non saremo tentati di ridurle a consigli didattici, ad allegorie moraleggianti. Lasceremo che la loro forza poetica sbocci in noi... dove per “poetico” qui si intende qualcosa di più che la poesia come genere letterario. Poetico qui significa creativo. E’ al cuore della nostra immaginazione che lasciamo che l’evento [simboleggiato dalla parabola] avvenga, prima che possiamo convertire il nostro cuore e rafforzare la nostra volontà» (P. Ricoeur, La logica di Gesù, Edizioni Qiqajon, 2009, p. 51-52).
La parabola del buon samaritano contiene l’insegnamento che la sofferenza dell’altro è appello alla compassione, e che la con-sofferenza è essenziale alla solidarietà. È importante cogliere la parabola in continuità con il breve dialogo tra il dottore della legge e Gesù: si vedrà così che la parabola è la narrazione con cui Gesù insegna la vera solidarietà al dottore della legge che gli pone la domanda simbolo della non-responsabilità e della non-solidarietà: «Chi è il mio prossimo?» In particolare Gesù invita il dottore della legge a passare dal sapere al fare: egli risponde bene, in modo ortodosso (orthôs: v. 28), ma sembra non arrivare a fare il legame tra sapere e fare, tra conoscenza delle Scritture e sofferenza dell’uomo, tra corpo delle Scritture e corpo dell’uomo ferito... Non arriva ad amare realmente e dunque a compiere la Scrittura. Capiamo così l’ammonimento ripetuto due volte: «Fa’ questo e vivrai» (Lc 10,28); «Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (Lc 10,37).
Il racconto di questa parabola ha dunque valenza di rivelazione anche per il dottore della legge e sconvolge una credenza diffusa all’epoca: la domanda «Chi è il mio prossimo?» aveva come frequente risposta la successione in ordine di importanza «il sacerdote, il levita, il figlio d’Israele», mentre il samaritano era annoverato tra coloro che meritavano l’odio e il rigetto. Nella parabola vi è rovesciamento di situazioni: quelli che bisognava amare in quanto prossimo (il sacerdote e il levita) si rivelano essere quelli che non amano, non esercitano alcuna solidarietà, non fanno la misericordia (v. 37), mentre colui che si poteva e doveva odiare (il samaritano) è colui che concretamente esercita la solidarietà, perché è preso da compassione. Di certo qui Gesù insegna che la solidarietà è un reale farsi prossimo all’altro nella sua sofferenza. La solidarietà come arte della vicinanza, della presenza all’altro nel suo bisogno.
Il sacerdote e il levita vedono l’uomo ferito, quasi morto, ma passano dall’altra parte della strada: perché? Perché questo rifiuto della solidarietà? Forse per non contrarre impurità con un quasi cadavere, ma certamente vi è qualcosa di più radicale e che anche noi sperimentiamo: l’uomo malato, ferito o morente, può farci paura. E allora noi capiamo che per entrare nella vera compassione che sfocia poi nella solidarietà di colui che fa tutto ciò che è possibile per l’uomo moribondo, non basta vedere l’uomo ferito, ma occorre anche vedere le proprie resistenze alla compassione, vedere la propria vulnerabilità, riconoscere che compassione e solidarietà suscitano in noi anche rifiuto e ripugnanza... Io credo che per leggere onestamente questa parabola dovremmo non tanto identificarci nel protagonista buono, il samaritano, ma comprendere che di noi fanno parte anche il sacerdote e il levita, e che i tre personaggi sono tre momenti dell’unico movimento faticoso verso un atteggiamento di vera compassione e solidarietà.
Anche noi, per arrivare alla vera solidarietà, siamo chiamati a riconoscere le opposizioni che in noi ci sono alla solidarietà e alla compassione. Anche noi, per incontrare il sofferente, dobbiamo incontrare la nostra sofferenza, la sofferenza che è in noi, il sofferente che noi siamo, e averne compassione...
Non basta vedere il sofferente: occorre fargli spazio in noi, far sì che la sua sofferenza avvenga un po’ in noi. La compassione è la radice della solidarietà perché essa dice: «Tu non sei solo perché la tua sofferenza è, in parte, la mia». Possiamo dire che la compassione è il «sottrarre il dolore alla sua solitudine» (cf. E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 128-144). Davvero dunque i tre personaggi della parabola disegnano un unico percorso e un’unica storia, quella della compassione che fatica a farsi strada in noi, nel nostro cuore. Occorre saper vedere la propria paura, la mia paura che mi impedisce di cogliere la sua, di lui che è impotente e in balia del primo che si avvicina e gli può dare il colpo di grazia. Forse la mia paura di fronte all’altro sofferente è la paura dell’isolamento in cui giace il ferito: se io accetto di incontrare in me questa solitudine spaventosa, forse potrò farmi vicino all’altro e diventare presenza nella sua solitudine. Scrive Emmanuel Lévinas:
«Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l’appello all’altro, l’invocazione all’altro... Non è la molteplicità umana che crea la socialità, ma è questa relazione strana che inizia nel dolore, nel mio dolore in cui faccio appello all’altro, e nel suo dolore che mi turba, nel dolore dell’altro che non mi è indifferente... Soffrire non ha senso... ma la sofferenza per ridurre la sofferenza dell’altro è la sola giustificazione della sofferenza, è la mia più grande dignità... La compassione, cioè, etimologicamente, soffrire con l’altro, ha un senso etico. È la cosa che ha più senso nell’ordine del mondo, nell’ordine normale dell’essere» (E. Lévinas, Une éthique de la souffrance, in Souffrances. Corps et âme, épreuves partagées, Éd. Autrement, Paris 1994, pp. 133-135).
A questo proposito mi piace ricordare una testimonianza contemporanea che esprime bene quanto stiamo dicendo. Scenario: un campo allestito da “Médecins sans frontières” al confine tra Thailandia e Cambogia. Due medici, Xavier Emmanuelli e Daniel Pavard, accolgono l’arrivo di un camion carico di persone ferite da colpi di mortaio. Il compito più urgente è di valutare il più in fretta possibile chi è curabile e chi no. In modo tecnico, professionale, senza troppi coinvolgimenti emozionali: e questo proprio per il bene di chi ha ancora qualche possibilità di sopravvivere. Di fronte a una giovane donna sventrata da un colpo di mortaio la diagnosi dei due medici è immediata e identica: non c’è nulla da fare. Ma mentre Xavier passa a un altro ferito, Daniel improvvisamente salta sulla piattaforma del camion, si pone dietro la donna ferita (che non aveva mai visto prima), la avvolge protettivo con le sue braccia lasciando che il viso di lei, traversato da sudori freddi, si appoggia sul suo petto, e comincia a parlarle delicatamente (senza che lei possa comprendere una sola parola) e a carezzarle i capelli. Morirà tra le braccia di uno sconosciuto, liberata non certo dalla morte né dai dolori, ma da quella paura che accompagna cosi spesso il morente: il terrore di morire solo, abbandonato. Questa la testimonianza di Xavier Emmanuelli (X. Emmanuelli, Prélude à la symphonie du nouveau monde, Odile Jakob, Paris 1998, pp. 99-123). E questa a me sembra la più plastica e drammatica espressione della compassione.
Nella relazione con il malato e con il sofferente in genere la compassione è attitudine essenziale. È l’attitudine ben espressa dal buon samaritano che, passando accanto all’uomo ferito, «lo vide e ne ebbe compassione (esplanchnísthe)» (Lc 10,33) [il verbo greco splanchnízomai, provo compassione, deriva dal sostantivo splánchna, viscere - NdR]. Da questo sconvolgimento interiore, da questo soffrire la sofferenza dell’altro, il samaritano è condotto a un comportamento etico in base al quale fa tutto ciò che è in suo potere per alleviare la situazione del bisognoso. Così la compassione non resta solamente un sentimento che si impone al cuore dell’uomo, ma diviene scelta, responsabilità, solidarietà. Essa è risposta al muto grido di aiuto che si leva dal viso dell’uomo sofferente, dagli occhi atterriti e più che mai nudi e inermi della persona soverchiata dal dolore, vicina alla morte. Nella Scrittura la compassione (radice r-ch-m) appare come fremito delle viscere, risonanza viscerale della sofferenza dell’altro, risonanza che diviene consonanza: la sofferenza dell’altro grida, e la compassione fa del mio corpo una cassa di accoglienza e di risonanza della sua sofferenza.
La compassione è il no radicale all’indifferenza di fronte al male del prossimo: in essa io partecipo e comunico, per quanto mi è possibile, alla sofferenza dell’altro uomo. L’impotenza del malato, del morente, ha la paradossale forza di risvegliare l’umanità dell’uomo che riconosce l’altro come un fratello proprio nel momento in cui non può essere strumento di alcun interesse. In questo senso la sofferenza per la sofferenza altrui è uno dei più alti segni della dignità umana. La compassione è una forma fondamentale dell’incontro con l’altro, un linguaggio umanissimo, perché linguaggio di tutto il corpo, che coinvolge i sensi, la gestualità, la parola, la presenza personale. Il gesto di compassione del medico ricordato sopra è costituito da una vicinanza fisica fatta di tenerezza e delicatezza (che trasmette calore al corpo sofferente), da parole pronunciate (che esprimono una comunicazione, danno senso e instaurano una vicinanza comunionale), da una presenza che rimane accanto (e non abbandona chi se ne va). E di fronte al malato per cui non c’è più nulla da fare dal punto di vista medico, che altro resta se non con-soffrire restandogli accanto, parlandogli, esprimendogli, nei modi che lui può ancora capire, che noi lo amiamo?
Sì, nella compassione vi è la rivelazione di qualcosa che è profondamente umano e autenticamente divino e questa rivelazione si sintetizza nell’amore. La solidarietà deve ricordarsi di tutto questo se vuole avere una radice nel cuore dell’uomo.

Il brano del Vangelo di Luca

Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: “Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. E Gesù: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”.
Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. Quegli rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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