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Gesù, il malato e la famiglia. Meditazione su Mc 9,14-27

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17/09/2008

Luciano Manicardi
Monaco di Bose

Testo della conferenza tenuta a Torino, il 9 febbraio 2008, al convegno diocesano su “La famiglia nella realtà della malattia”, in occasione della XVI Giornata Mondiale del Malato

Il brano del Vangelo di Marco

14 E giunti presso i discepoli, li videro circondati da molta folla e da scribi che discutevano con loro. 15 Tutta la folla, al vederlo, fu presa da meraviglia e corse a salutarlo. 16 Ed egli li interrogò: “Di che cosa discutete con loro?”. 17 Gli rispose uno della folla: “Maestro, ho portato da te mio figlio, posseduto da uno spirito muto. 18 Quando lo afferra, lo getta al suolo ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”. 19 Egli allora in risposta, disse loro: “O generazione incredula! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me”. 20 E glielo portarono. Alla vista di Gesù lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava spumando. 21 Gesù interrogò il padre: “Da quanto tempo gli accade questo?”. Ed egli rispose: “Dall'infanzia; 22 anzi, spesso lo ha buttato persino nel fuoco e nell'acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. 23 Gesù gli disse: “Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede”. 24 Il padre del fanciullo rispose ad alta voce: “Credo, aiutami nella mia incredulità”. 25 Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito immondo dicendo: “Spirito muto e sordo, io te l'ordino, esci da lui e non vi rientrare più”. 26 E gridando e scuotendolo fortemente, se ne uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: “È morto”. 27 Ma Gesù, presolo per mano, lo sollevò ed egli si alzò in piedi.
Un genitore porta a Gesù il proprio figlio malato (Mc 9,17). La malattia di una persona ha sempre ripercussioni sul suo ambito familiare. E quando la malattia è particolarmente grave e quando colpisce un figlio, e un figlio piccolo, che non capisce che cosa gli succede, non sa nominare il suo male, non comprende perché papà e mamma non gli facciano passare il male, il dolore e l’angoscia dei genitori aumentano esponenzialmente, e giungono anche alla disperazione. Gesù non ha solo curato e guarito persone malate, ma si è confrontato anche con l’angoscia dei familiari che dalla malattia di un loro congiunto hanno visto sconvolto l’ordine delle loro giornate e il quadro dei loro affetti e sono precipitati in un abisso di impotenza e dolore. La malattia di un familiare, soprattutto se cronica e pesante, produce a sua volta sofferenza, malessere, disagio, e perfino altre malattie nell’ambito familiare. Oltre, a volte, allo sfinimento psichico o anche all’impossibilità fisica di accudire un malato non autosufficiente.
Il padre di questo ragazzo dice a Gesù: “Aiutaci e abbi compassione di noi” (Mc 9,22). Dove il “noi” si riferisce all’intero nucleo familiare turbato dalla malattia del giovane che comportava un’incapacità di comunicazione con lui (è infatti “posseduto da uno spirito muto”: Mc 9,17; anzi questo spirito è apostrofato da Gesù come “spirito muto e sordo”: Mc 9,25) e il senso di una lacerante impotenza di fronte alle manifestazioni epilettiche in cui il ragazzo era in balia di forze oscure che lo violentavano mettendo anche a rischio la sua vita. L’angoscia e la disperazione del padre emergono nel racconto delle manifestazioni della malattia: “Spesso lo ha buttato persino nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo” (Mc 9,22). Il racconto del povero padre rivive la paura vissuta nei momenti in cui il figlio ha rischiato di annegare o di venire gravemente ustionato. E Gesù incontra dunque anche questa forma dell’infinita gamma del dolore umano: il dolore del padre e della madre di fronte al figlio sofferente. Un dolore che a volte diviene colpevolizzazione. Davanti all’uomo cieco dalla nascita, i discepoli di Gesù chiedono: “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?” (Gv 9,1). E Gesù deve combattere anche contro le credenze popolari, le superstizioni, i luoghi comuni e le scorciatoie creati dalla cultura e dalla religione per spiegare l’inspiegabile inventando un colpevole, invece di stare accanto a colui che è solo una vittima.
I vangeli presentano più volte situazioni di madri e padri in ricerca disperata e, al tempo stesso, piena di speranza, di guarigione di un loro figlio. Giairo si getta ai piedi di Gesù e lo prega con insistenza, l’insistenza che viene dalla disperazione: “La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva” (Mc 5,22-23); una donna greca, di origine siro-fenicia, prega Gesù di scacciare il demonio che possiede la figlia: anche la distanza culturale, etnica (lei è una pagana, mentre Gesù è un figlio d’Israele) e linguistica (questa donna parla greco: in che lingua comunicano lei e Gesù, che parlava aramaico?) non scoraggiano questa donna che ha una motivazione troppo impellente per desistere dalla sua ricerca (Mc 7,24-30). Soprattutto le madri, angustiate da una grave situazione di salute di un figlio, sono mosse come da una forza supplementare nell’incontro con Gesù e trovano in sé risorse di intelligenza, di tenacia, di ostinazione che riescono a vincere le opposizioni del gruppo dei discepoli e anche le resistenze di Gesù. È così per la donna cananea la cui figlia è in preda a terribili sofferenze (“Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio”: Mt 15,22) e che dopo una vera lotta con Gesù per ottenere la sua attenzione si sentirà dire da lui: “Donna, davvero grande è la tua fede. Ti sia fatto come desideri” (Mt 15,28). Perché la malattia di un familiare è anche una prova della fede. Quante famiglie conoscono il pellegrinaggio da un medico all’altro, da uno specialista all’altro, da un ospedale a una clinica, in patria e all’estero, per trovare una cura per il proprio figlio o il proprio congiunto! Quante famiglie conoscono il peso emotivo, lo sfinimento, la stanchezza che non ci si spiega come non abbia ancora fatto crollare, della ricerca di una medicina, di una cura. E quante famiglie conoscono il peso della cronicità, della malattia cronica, pesantissima nell’anziano, ma dolorosamente lancinante quando si tratta di un bambino malato fin dalla più tenera età. Gesù è sensibile a questi aspetti quotidiani della malattia vissuta in famiglia e chiede al padre del ragazzo: “Da quanto tempo gli accade questo?” (Mc 9,21). E il padre risponde: “Dall’infanzia” (Mc 9,21). E quante famiglie conoscono anche il peso economico che tutto questo ha, arrivando a gravare in maniera a volte insostenibile sui bilanci familiari. La donna che da ben dodici anni era affetta da emorragie “aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi peggiorando” (Mc 5,25-26). Anche il padre del ragazzo epilettico porta a Gesù la sua frustrazione per i limiti della medicina e per l’impotenza che altri, in questo caso i discepoli di Gesù, hanno mostrato nei confronti del figlio: “Non sono stati capaci” (Mc 9,18) di guarirlo. La stessa supplica del padre a Gesù: “Se tu puoi qualcosa, aiutaci” (Mc 9,22), echeggia la domanda che si rivolge a un medico dopo che tanti altri tentativi sono andati a vuoto e dopo che si è constatata l’estrema gravità del caso.
Ma nella risposta di Gesù al padre (“Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede”: Mc 9,23) abbiamo anche l’indicazione che la malattia di un familiare, in questo caso di un figlio, è una prova della fede, un momento critico che mette alla prova la fede di una persona, e che il cammino che si vive drammaticamente nella famiglia provata da una malattia è anche un cammino di approfondimento della fede.
Momento importante nell’incontro di Gesù con questo padre è quello in cui Gesù chiede ragguagli al padre sulla malattia del figlio e il padre collabora con lui narrando forme e tempi della manifestazione del male nel figlio. Vi è un innesto biografico e familiare della malattia, e comunque sono i familiari coloro che sono a diretto contatto con il malato e dunque hanno una competenza preziosa: essi possono, con il loro racconto, fornire elementi e dettagli, moti e reazioni del malato che il terapeuta può interpretare e ricavarne così indicazioni utili per la cura.
Certo, il familiare del malato deve armarsi di pazienza. L’incontro di Gesù con il ragazzo malato e il padre è molto complesso e lungo: due volte il padre racconta le crisi del figlio (Mc 9,18.22), due volte Gesù dialoga con il padre (Mc 9,17-19 e 21-24), i suoi interventi terapeutici sono contro lo spirito impuro (Mc 9,25-26a) e poi per il ragazzo (Mc 9,26b-27). E dal quadro d’insieme emerge la condizione veramente penosa di questo ragazzo: sempre passivo (agitato, scosso, gettato a terra, condotto a Gesù da altri), non ha capacità di movimento autonomo e di iniziativa propria, è alienato, spossessato di sé, incapace di relazione perché sordo e muto, non padrone del proprio corpo, dunque con gravissimi problemi a posizionarsi nello spazio, ma colpito anche nella facoltà di comunicazione e parola. La bocca è colpita nelle sue due facoltà di nutrizione e parola: lo schiumare (Mc 9,18) indica difficoltà e irregolarità di deglutizione, mentre il digrignare i denti (Mc 9,18) rinvia all’incapacità di parola. Ci si può chiedere cosa resti di umano in questo ragazzo. L’azione terapeutica di Gesù condurrà il giovane a iniziare il recupero della voce e della parola (come appare dal grido che accompagna l’uscita dello spirito impuro dal giovane: Mc 9,26) e consisterà nel ridargli la stazione eretta (“presolo per mano, lo sollevò ed egli si alzò in piedi”: Mc 9,27). Quell’alzarsi in piedi è la prima vera azione di cui il giovane è soggetto.
Ma vorrei sottolineare le condizioni penose del giovane e il riflesso che questo deve avere nella psiche e negli affetti dei genitori che sul figlio proiettano attese facendolo depositario di investimenti profondi, affidandogli eredità e compiti, e a cui vogliono, come si dice, “dare un futuro”: ma quale futuro dare a un bambino impedito a crescere dalla malattia? Comprendiamo come il trauma indotto dalla malattia sia spesso più forte nei genitori che nel malato: esso può giungere a incrinare o a distruggere le relazioni di coppia, a minare il desiderio di vivere, a bloccare ogni forma di progetto. Senza contare il senso di impotenza del padre e della madre che vorrebbero e che avrebbero come compito la protezione del figlio e si vedono inabilitati a questo dalla devastante malattia del figlio. Mi sembra importante a questo proposito ricordare il gesto di Gesù che, giunto a casa di Giairo dopo che la figlia del capo sinagoga era morta, cacciati fuori dalla casa tutti coloro che facevano il lutto, “prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina” (Mc 5,40). E dopo averla risvegliata la restituisce ai genitori, la ridà viva ai genitori che possono rinascere essi stessi: la coppia genitoriale viene ricostituita. E, osserva Marco con tocco che rivela la squisita sensibilità umana e il realismo di Gesù, “disse di darle da mangiare” (Mc 5,43; cf. Lc 8,55). Come in una nuova nascita, i genitori sono reinvestiti del compito di nutrire, allevare, far crescere. L’amputazione rappresentata per i genitori dalla perdita di un figlio viene sanata. Analogamente, in Lc 9,42, nella redazione lucana dell’episodio del ragazzo epilettico, Gesù “risanò il ragazzo e lo consegnò a suo padre”. Gesù restituisce alla famiglia i malati che ha risanato. Avviene così anche per lo schizofrenico di Gerasa che, guarito da Gesù, si vede interdetto il suo desiderio di seguirlo e si sente dire: “Va’ a casa tua, dai tuoi” (Mc 5,19). La guarigione del malato diviene anche ricomposizione e guarigione della famiglia.
Certo, circa il rapporto famiglia-malato, i vangeli presentano anche situazioni paradossali. L’uomo cieco dalla nascita e guarito da Gesù (Gv 9,1ss.) viene in sostanza rifiutato dai suoi genitori che, da un lato, non possono non riconoscere che quell’uomo vedente è il loro figlio che prima non ci vedeva, ma, dall’altro, per paura e per motivi di convenienza, sono reticenti a riconoscere apertamente di fronte alle autorità ciò che è avvenuto e se ne deresponsabilizzano, di fatto abbandonando il figlio (Gv 9,22-23: “Questo dissero i suoi genitori perché avevano paura dei giudei; infatti, i giudei avevano già stabilito che, se uno avesse riconosciuto Gesù come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età, chiedetelo a lui»”). Paradossalmente, sarebbero stati più contenti se il loro figlio fosse rimasto come era prima, cieco. Quella guarigione disturba assetti ormai assodati. Non troviamo in loro quella compassione che abita invece Gesù nel suo avvicinare malati e familiari (Mc 9,22: “Abbi compassione di noi”) e che mostra anche di fronte alla madre (già vedova) che accompagnava il funerale del figlio unico: “Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: «Non piangere!»” (Lc 7,13).
Di fronte alla cautela del padre che si rivolge a Gesù dicendogli: “Se tu puoi qualcosa, aiutaci”, Gesù ribatte con veemenza ricordando la potenza della fede: “Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23). Il genitore è così chiamato a fare del calvario dell’accompagnamento di un figlio malato l’occasione di un cammino di fede. E il padre compie questo cammino vedendo resa umile la sua fede: “Credo, vieni in aiuto alla mia mancanza di fede” (Mc 9,24). La prova della malattia del congiunto, del familiare amato e malato, diviene prova della fede: capace di rendere la fede umile, cosciente della sua forza, ma anche della sua fragilità. O meglio, il credente provato è cosciente della forza della fede e della fragilità del proprio credere. Egli sa che nella sua fede vi è sempre anche una non-fede.
E questa fede è esperienza pasquale, esperienza di morte e resurrezione. I versetti finali del nostro racconto dicono: “Il ragazzo divenne come morto (nekròs), così che molti dicevano: «È morto» (apéthanen). Ma Gesù, presa la sua mano, lo fece alzare (égheiren) ed egli si levò (anéste)” (Mc 9,26-27). Ritornano qui i quattro verbi del kerygma cristiano, dell’annuncio della morte e resurrezione di Gesù. A significare che il cammino di fede percorso dal padre di questo ragazzo malato è stato un cammino pasquale, un’esperienza di fede pasquale.
Infine, l’episodio della resurrezione della figlia di Giairo, mostra il coinvolgimento della comunità cristiana nel rapporto con la famiglia dove c’è un malato. Secondo Marco e Luca, Gesù lascia entrare nella stanza dove c’è la bambina ormai morta solo i genitori e, del gruppo dei Dodici, “Pietro, Giacomo e Giovanni” (Mc 5,37.40; Lc 8,51) che la lettera ai Galati chiamerà “le colonne” della comunità cristiana di Gerusalemme (Gal 2,9). La comunità cristiana è dunque presente a questa azione di Gesù ed è chiamata ad entrare nella casa della famiglia dove c’è un malato o un morto. Cioè, Gesù, mentre indica ai familiari di un malato l’accompagnamento del congiunto come cammino di umanizzazione e di fede, indica anche alla comunità cristiana un compito: mai lasciare sole le famiglie nelle loro dolorose esperienze di malattia. “Curate i malati” (Mt 10,8): il comando dato da Gesù ai suoi discepoli, comporta anche questo compito.

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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