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Fede e malattia: il senso delle guarigioni negli Atti degli Apostoli

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26/03/2014

Tratto da: Guy Vanhoomissen, Malattia e guarigione, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI) 2014, p. 101-105

Guida alla lettura

Questa riflessione di Guy Vanhoomissen, presbitero e gesuita, ci introduce nel mondo dei miracoli attestati dagli Atti degli Apostoli, il libro scritto dallo stesso autore del “Vangelo di Luca” sulle esperienze delle prime comunità di cristiani.
Il brano riecheggia considerazioni più volte sviluppate in questa rubrica, e che vale la pena ricapitolare. Primo: i miracoli sono innanzitutto segni di salvezza e scaturiscono direttamente dalla potenza di Cristo e dello Spirito Santo. Nessun protagonismo, quindi, in coloro che li compiono, e nessun culto della personalità eccezionale, a differenza di quanto tristemente avviene per i ciarlatani pseudo spirituali di tutte le epoche.
Secondo: a un livello squisitamente umano, le guarigioni esprimono il dovere che ogni comunità ha di «aver cura dei malati e pregare per essi». Un tale accompagnamento non è affatto ovvio, perché farsi prossimo di chi soffre costa fatica e sacrificio personale, come insegna la parabola del buon Samaritano (Lc 10,25-37).
Terzo: nulla nel racconto degli Atti indica che chiunque sia stato guarito da qualsiasi malattia. Espressioni come “salvare” e “sollevare” rivelano piuttosto che «il malato riceve un aiuto per attraversare la prova ed entrare nella vita che propone Cristo». Questo implica, innanzitutto, che la preghiera cristiana «tiene conto del desiderio di guarire, ma non esige i miracoli»; in secondo luogo, ciò che veramente è decisivo nell’esperienza di questi malati è che la fede in Dio dà loro la forza di attraversare la sofferenza senza lasciarsene travolgere, continuando ad amare e ad accettare di essere amati.
Quarto: nonostante i miracoli di Gesù e dei suoi primi discepoli, il dolore resta una tragica verità esistenziale con cui gli uomini e le donne di ogni tempo devono confrontarsi. Inoltre, il fatto che Dio, nella persona di Cristo, abbia voluto condividere la sofferenza umana, non ne fornisce alcuna spiegazione: la malattia e la morte restano un mistero. Tuttavia il credente, in virtù della resurrezione di colui che confessa Signore e Maestro (Gv 13,13), spera che queste spaventose realtà non abbiano l’ultima parola, e che l’amore dato e ricevuto possa salvare anche le nostre vite.
Quinto, “portare la croce di Cristo” (cfr. Mc 8,27-35) non significa minimalisticamente accettare le prove e le sofferenze della vita quotidiana, che a tutti – credenti e non credenti – sono riservate: significa invece smettere di considerare se stessi come misura di ogni cosa, facendo «rinunce precise e scelte precise» in vista dell’amore, e lasciando che Dio, e solo Dio, regni sulla propria vita.
Durante il suo ministero Gesù aveva associato gli apostoli al suo potere di scacciare gli spiriti impuri e guarire ogni malattia (cf. Mt 10,1 e passi paralleli). Dopo la sua morte e resurrezione, i discepoli ne continueranno la missione. Gli Atti degli Apostoli riportano tre racconti di guarigione legati all’attività di Pietro: lo storpio alla porta del tempio (cf. 3,1-10), il paralitico a Lidda (cf. 9,33-35) e una donna di nome Tabità a Giaffa (cf. 9,36-42). A Filippo si attribuiscono numerose guarigioni ed esorcismi in Samaria (cf. 8,7). Si menzionano anche delle guarigioni operate da Paolo: un infermo a Listra (cf. 14,8-10), l’esorcismo di una schiava a Filippi (cf. 16,16-18), un adolescente a Troade (cf. 20,9-12), il padre di Publio (cf. 28,8). Probabilmente si devono annoverare degli esorcismi e delle guarigioni tra i numerosi «prodigi e segni [che] avvenivano per opera degli apostoli» (2,43; cf. 5,12-16; 6,8).
Queste guarigioni sono compiute «nel nome (en tô onómati) di Gesù Cristo» (3,6; 4,7.10.12.30; 16,18), cioè con la stessa potenza che era in azione quando Gesù guariva. «La fede che viene da lui ha dato a quest’uomo la perfetta guarigione alla presenza di tutti voi» (3,16), dichiara Pietro alla folla dopo la guarigione dell’infermo alla porta del tempio. «Enea, Gesù Cristo ti guarisce» (9,34) dichiara al paralitico di Lidda, affermando in questo modo che è la potenza di guarigione del Signore risorto ad agire in lui. La vita e l’azione del Risorto sono così annunciati dappertutto: «E’ come se Luca avesse voluto mostrare che gli apostoli non facevano altro se non rendere attuali le promesse fatte da Cristo risorto. E’ questa, infatti, la sua tesi: l’apostolato è dotato delle stesse prerogative che furono di Cristo; prolunga in una certa maniera il ministero di Gesù al di là della resurrezione del Signore» (G. Crespy, Maladie et guérison dans le Nouveau Testament, in “Lumière et Vie”, 86, 1968, p. 49-50).
Tra i doni spirituali (i carismi) della comunità cristiana, Paolo menziona il “dono delle guarigioni”, dato dallo Spirito insieme ad altri doni, in particolare il “potere dei miracoli” (cf. 1Cor 12,4-11). I cristiani di Corinto privilegiano i carismi più spettacolari, come la profezia e il parlare in lingue. Quel che, invece, interessa a Paolo, è l’origine dei doni, il medesimo Spirito, più dei loro effetti. Inoltre, Paolo sottolinea che i carismi sono complementari, che sono dati per il bene della comunità e che l’amore-carità (agápe) li fonda e li supera (cf. 1Cor 12-13).
Non è facile precisare cosa rappresentino i “doni delle guarigioni” (charísmata iamáton: 12,9.28.30). Dato lo stretto legame tra la medicina ellenistica e i culti di guarigione, Paolo invita forse a cercare in comunità persone alle quali lo Spirito concede di lavorare per la guarigione dei pazienti e di prendersi cura dei malati, facendolo con uno spirito cristiano? Comunque, non vi è affatto bisogno di ricorrere al culto di Asclepio: lo Spirito è in azione nella comunità di Cristo. E’ lui a guidare i cristiani ed è lui che va invocato.
Il ministero degli “anziani” di cui parla la Lettera di Giacomo va compreso nello stesso senso. Qui la cura dei malati non dipende più da un dono speciale dello Spirito. Abbiamo in qualche modo un’istituzione ecclesiale: «Chi è malato, chiami presso di sé i presbiteri della chiesa ed essi preghino su di lui, ungendolo con olio nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo solleverà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (5,14-15).
La Lettera di Giacomo suppone conosciuta la pratica di cui si parla: un’unzione nel nome del Signore per recare sollievo dalla malattia e perdonare i peccati. Questa unzione, fondamento del sacramento degli infermi, manifesta la fede della chiesa nella potenza del Signore risorto e riveste un carattere rituale. Non conosciamo in maniera sufficiente il contesto né le abitudini dell’epoca per determinare in cosa consistesse tale pratica, ma è chiaro che la comunità deve aver cura dei malati e pregare per essi.
La compassione, l’essere-con-nella-sofferenza, non ci viene spontanea. Non è mai facile “farsi prossimo” di chi soffre (cf. Lc 10,36), unirsi a qualcuno nella sua debolezza e vulnerabilità, poiché siamo rinviati ai limiti e alle fragilità che sono in noi. Sappiamo pure che un tale accompagnamento è nient’ altro che un dovere di umanità. E sappiamo anche che un tale gesto acquisisce una risonanza particolare nella fede cristiana: Cristo si è identificato con ogni persona che soffre, compresi uomini e donne colpiti dalla malattia (cf. Mt 25,34-40).
Si praticavano volentieri delle unzioni d’olio sui malati e i feriti. In questo caso l’unzione si accompagna alla preghiera dei “presbiteri della chiesa”, cioè dei capi della comunità (cf. At 20,17). Non si dice nel testo che la persona malata sarà guarita da qualunque infermità, ma che la fede che si esprime nella preghiera «salverà il malato» e che il «Signore lo solleverà». I due verbi “salvare” e “sollevare” possono riguardare la salute del corpo e il ristabilimento fisico, ma il loro senso è più ampio. Con questo gesto il malato riceve un aiuto per attraversare la prova ed entrare nella vita che propone Cristo (cf. Gv 20,31). A lui personalmente sono rivolte le parole di Gesù: «La tua fede ti ha guarito» o, piuttosto, «La tua fede ti ha salvato».
I discepoli di Cristo dispongono forse di un potere speciale per guarire i malati? La fede ci assicura che la preghiera è sempre esaudita. Non ci è dato di determinarne i frutti. La preghiera cristiana tiene conto del desiderio di guarire, ma non esige i miracoli. Testimonia un abbandono fiducioso a Dio nello stesso momento in cui lascia tutto il suo spazio all’intervento di cura. Se una guarigione avviene, quale ne sia la forma, può essere accolta come un dono di Dio e divenire segno di salvezza come al tempo in cui Cristo guariva «molti che erano affetti da varie malattie» (Mc 1,34).
Resta che in altri casi, probabilmente più numerosi, non si prospetta alcun miglioramento e, nonostante il progresso della medicina e l’intensità delle nostre preghiere, non accade alcuna guarigione. Credenti o non credenti, siamo sempre posti davanti al "mysterium doloris", con cui ci confrontiamo senza tregua. Non faremo troppo in fretta ricorso al linguaggio della “croce” con le sofferenze e le infermità che colpiscono ogni vita umana. Lo stesso Gesù non è stato malato, non è stato vittima di un handicap, non ha conosciuto il degrado della vecchiaia. Invece, ha conosciuto l’opposizione e il rifiuto, è stato condannato dagli uomini a una morte ignominiosa. Di questo si tratta quando mette in guardia i suoi discepoli: seguirlo implica portare la sua croce (cf. Mt 16,24 e par.), cioè subire oltraggi e persecuzioni, fare rinunce precise e compiere scelte precise. Paolo ci testimonia questa esperienza: «Portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2Cor 4,10). Paolo non parla di malattie o di infermità ma del suo ministero apostolico e delle persecuzioni sopportate per il vangelo.
“Mysterium doloris”: che Dio abbia voluto assumere il dolore umano nella passione e morte del Figlio sulla croce non ne dà alcuna spiegazione ma gli conferisce un senso nuovo. Quando non resta più nulla da fare, si può sempre volgere lo sguardo a Cristo in croce e lasciarsi guardare da lui (cf. Gv 19,37), non glorificando in maniera indebita la sofferenza ma nella certezza che le prove, comprese quella della malattia, non sono il termine ultimo e che nella prova può manifestarsi la vita del Risorto.

Biografia

Guy Vanhoomissen (1945), gesuita belga, ordinato presbitero nel 1977, ha trascorso molti anni in India. Dal 1984 insegna Sacra Scrittura al centro “Lumen vitae” di Bruxelles, dove è anche responsabile della biblioteca.
Parole chiave di questo articolo
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