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I poveri e noi: il vero volto della misericordia

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27/01/2016

Tratto da:
Enzio Bianchi, La misericordia di Gesù, Jesus, Gennaio 2016

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Questa breve ma densa riflessione di Enzo Bianchi, priore della Comunità Monastica di Bose, chiarisce il rapporto che il credente dovrebbe avere con i poveri. Ma le argomentazioni che sviluppa sono valide per tutti, anche per i non credenti, perché la solidarietà e la misericordia verso chi vive nel bisogno e nel dolore sono tratti umanizzanti, promotori di senso, che riguardano tutti.
Il discorso di Bianchi si articola in due momenti distinti: che cos’è la vera misericordia nelle intenzioni di Dio e nella prassi di Cristo; perché e in che modo i poveri esercitano una vera e propria forma di magistero sociale.
Riguardo al primo punto, Bianchi avverte con forza: non è autentica misericordia quella che si ferma all’emotività, al moto effimero del cuore, ma quella che, sull’esempio di Gesù, si traduce in azione concreta di aiuto. Solo su questo si gioca la nostra “salvezza”, ossia la possibilità di dare un significato profondo alla nostra vita. Questo dato esistenziale, corroborato dalle parole del Vangelo sul giudizio finale, ha due conseguenze importanti: ciò che è decisivo nella vita del credente non si gioca su azioni religiose, liturgiche, ascetiche, ma su azioni “non religiose”, umanissime; non è la fede in Dio che deve motivare l’amore per il povero, ma è piuttosto il povero un’opportunità per ri-conoscere e amare Dio.
Riguardo al secondo punto, Bianchi chiarisce: non è che i poveri siano mediamente migliori degli altri. Ma sono vittime della vita, e in quanto tali godono del favore di Dio; inoltre, hanno spesso atteggiamenti di apertura verso gli altri che i ricchi – i pieni di sé – non hanno, e soprattutto non confidano in se stessi, ma sono totalmente dipendenti dagli altri e da Dio. In questo senso ci insegnano un atteggiamento, una “forma mentis” che dovrebbe ispirare anche il nostro modo di stare nel mondo.
Solidarietà concreta, decentramento da se stessi: questo il duplice senso di una misericordia che si rivela non solo “cristiana”, ma anche e innanzitutto “umana”, e come tale opportunità di vita e di cammino per tutti nei contesti quotidiani della famiglia, dell’amicizia, del lavoro.
E’ iniziato il giubileo, l’anno della misericordia del Signore. Che cosa ci richiede prima di tutto la misericordia di Dio, che noi conosciamo e sperimentiamo nelle nostre vite? Semplicemente di fare misericordia all’altro, chiunque sia, chiunque si trovi sulla nostra strada, chiunque incontriamo e avviciniamo. Non dimentichiamo mai la sequenza testimoniata dal vangelo riguardo alla misericordia di Gesù: «Gesù vide una grande folla, fu mosso da misericordia e curò i loro malati» (Mt 14,14). Ovvero, Gesù constatò una situazione, provò un sentimento nei confronti di quei sofferenti e dunque agì, fece qualcosa per curarli.
Questa è la traiettoria della misericordia: deve diventare azione, comportamento, mentre se resta solo un sentimento, un’emozione, non è la misericordia che Dio vuole. Per questo nel giudizio finale ci sarà beatitudine, benedizione per chi ha praticato concretamente l’amore, per chi “ha fatto misericordia” (Lc 10,37) verso il povero, il sofferente, l’ultimo degli umani nostri fratelli (cf. Mt 25,31-46). Se stiamo attenti, ci rendiamo conto che la nostra salvezza non si gioca su azioni religiose, liturgiche, ascetiche, ma su azioni non religiose, umanissime. Sono queste azioni che determinano il nostro rapporto con Dio, eppure non è assolutamente chiesto a chi le compie di farlo in nome di Dio, di pensare a Dio o di indirizzarle a lui. Non è necessario, perché c’è già un legame profondo tra Dio e il povero, talmente profondo che non è Dio un pretesto per amare il povero, ma è piuttosto il povero una possibilità per amare Dio. L’amore del povero è dunque amore per un essere umano uguale a noi in dignità, un essere umano, nient’altro che un essere umano, ma che nella povertà ha una particolare somiglianza con Dio, perché somiglia a suo Figlio, che ha voluto spogliarsi, farsi povero (cf. 2Cor 8,9), umiliato e vittima degli altri. In questo senso il povero è “sacramento di Cristo”, è un segno che rinvia a Cristo stesso tra di noi; come amavano dire i profeti medioevali, “pauper Christi vicarius est”, “il povero è un vicario di Cristo”.
Ma accanto a questa sacramentalità del povero, occorre sapere riconoscere anche il suo magistero. Sì, dico magistero, anche perché so bene che è più facile pensare a una cattedra dei non credenti che a una cattedra dei poveri. I poveri non sono certo migliori degli altri, ma hanno comunque dei tratti esemplari, se vogliamo leggerli: hanno attenzione per gli altri, sanno dare facilmente il loro tempo e la loro presenza agli altri, sanno prendersi cura degli altri anche nella penuria dei loro mezzi, sanno attendere qualcosa e soprattutto non confidano in se stessi. Questi atteggiamenti possono essere di grande insegnamento per tutti. Se i poveri erano i primi clienti di diritto del regno di Dio, se erano le persone scelte di preferenza da Gesù, è perché erano e sono vittime dei fratelli e delle sorelle, dunque Dio sta dalla loro parte; ma anche perché sono più umanizzati di molti altri, certamente più dei ricchi philautici ed egoisti. Paolo VI si rivolse così a loro nel suo pellegrinaggio a Bogotà: «Voi siete un segno, voi un’immagine, voi un mistero della presenza di Cristo. Il sacramento dell’eucaristia ci offre la sua presenza nascosta, viva e reale; mai voi pure siete un sacramento, cioè un’immagine santa del Signore in questo mondo, come un riflesso che rappresenta il suo volto umano e divino» (Omelia del 23 agosto 1968).
Se tali sono i poveri, in questo anno della misericordia non pensiamo di vivere la grazia del giubileo solo passando attraverso la porta santa o vivendo i sacramenti. Questi sono mezzi, che possono addirittura diventare menzogna se non giungiamo concretamente a “fare misericordia” a delle persone concrete, a esseri umani come noi. E cerchiamo di diventare chiesa dei poveri, perché i ricchi possono trovare posto in una chiesa povera e di poveri, mentre i poveri non possono trovare posto in una chiesa ricca e di ricchi. Ha scritto padre Pedro Arrupe, quest’uomo di Dio, vero profeta: «Se esistono poveri sulla terra, la vostra celebrazione eucaristica in qualche maniera è incompleta», e noi non celebriamo in verità la misericordia di Dio!

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani.
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