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Razionalità occidentale e cultura della compassione

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16/07/2008

Prof. Roberto Mancini
Docente di Ermeneutica Filosofica, Università di Macerata

Il dolore e la sofferenza dovrebbero ricevere da noi una risposta, ma innanzitutto essi provocano assai più facilmente una reazione: per esempio la fuga, il ripiegamento, il ricorso all’illusione, l’aggressività verso gli altri, la disperazione. Reagire è qualcosa di automatico e anche di coattivo: in fondo nella reazione è lo stimolo esterno a decidere per noi che cosa faremo. Esso è la causa, la nostra azione si riduce a esserne l’effetto. Rispondere, invece, è qualcosa di libero, è un atto che esprime la nostra unicità irriducibile di persone, una soggettività cosciente, critica, autonoma. In questo senso la responsabilità, cioè la capacità di dare risposte in cui esprimiamo noi stessi, e la libertà sono la stessa cosa. E forse l’essere umano esprime la sua potenziale bellezza non solo nella creatività esercitata nelle situazioni più positive, ma anche e soprattutto in quella specifica creatività che si sprigiona nelle risposte al patire. A quel patire che tende ogni volta a togliere i margini, lo spazio, il respiro, la luce per giungere a rispondere alla vita con la libertà.
Una cultura delle risposte umanizzate al dolore e alla sofferenza deve ancora farsi strada nella nostra tradizione, pur nella ricchezza delle sue prospettive. Le correnti prevalenti nel pensiero dell’Occidente hanno considerato con minore attenzione e in modo troppo schematico, oppure a volte lasciato nell’irrilevanza, una serie di nuclei della realtà e dell’esperienza umana. Questi temi-ombra sono, tra gli altri, la nascita e il corpo, la donna, la sororità e la maternità, la condizione e lo sguardo tipici dell’infanzia, il gioco e la follia, la sofferenza e il dolore, l’unicità e l’essere in relazione, la nonviolenza e la ricchezza di differenze che compone l’umanità. Come si vede si tratta di temi e luoghi di varia rilevanza, ma forse il filo che li accomuna risale a due elementi costitutivi e interconnessi della condizione umana: la relazionalità e il patire. A ben vedere, però, questi sono proprio gli elementi costitutivi della risposta più umana possibile alla sofferenza: la compassione. Perciò essa o è stata riguardata come una forma di debolezza dell’uomo, come in Nietzsche o in Arnold Gehlen, o è stata recuperata semplicemente in funzione della liberazione dell’io dall’illusione della volontà e del desiderio, come in Schopenhauer.
D’altra parte, la ragione occidentale ha iniziato a guarire dalla sua arroganza quando, in un amplissimo e plurivoco filone di pensiero che qualificherei come “illuminismo autocritico”, ha imparato a cogliere nel cuore della propria capacità di sentire e di vedere la forza della compassione. Un primo spiraglio di comprensione del suo valore umanizzante si intravede, inaspettatamente, già all’interno della tradizione che si è sviluppata da Hegel sino a Marx. Hegel è celebre come il campione di una filosofia astratta e freddamente razionale. Eppure, su un piano più indiretto e generale, ma non irrilevante, il pensiero hegeliano ha promosso un nuovo sguardo sul rapporto tra attività e passività, per cui la seconda ha finalmente potuto rivelare un suo significato positivo. Hegel ha infatti posto al centro della sua visione l’idea secondo la quale la Ragione divina vivente e presente in ogni cosa - lo Spirito - giunge alla sua piena realizzazione patendo e portando su di sé tutte le contraddizioni del proprio divenire. L’idea biblica di un Dio che soffre è stata assunta nel centro della filosofia hegeliana. Poi nella riflessione del giovane Marx è affiorato uno sguardo di radicale compassione quando egli giustifica l’impegno per una nuova società senza più classi e divisioni “nell’imperativo di rovesciare tutti i rapporti in cui l’uomo è un essere umiliato, assoggettato, abbandonato, spregevole”. Questa duplice sollecitazione, insieme alla traccia lasciata da Schopenhauer, verrà raccolta e unificata, nel Novecento, dagli autori della Scuola di Francoforte. Per Theodor Adorno e Max Horkheimer la disponibilità ad affrontare il dolore insieme agli altri si illumina come la sola via verso un’esistenza degna e felice. E’ la via lungo la quale la sofferenza viene affrontata e possibilmente attraversata insieme.
Altre tappe importanti per lo sviluppo della cultura della compassione sono state la fenomenologia personalista e l’esistenzialismo. Per Max Scheler, uno dei più acuti rappresentanti del pensiero fenomenologico, la compassione supera l’ambito dei fenomeni puramente reattivi di simpatia o di contagio emotivo perché impegnano la soggettività spirituale della persona e la sua libertà. Nella compassione, intesa come la disponibilità a sentire con l’altro il suo dolore, non ci sono fusioni o confusioni. La compassione sa cogliere ogni altro nella sua singolarità di persona unica e inconfondibile. E può farlo perché, nel contempo, sa vedere la fraternità e la sororità creaturale universale con la coscienza della solidarietà nella salvezza: nessuno è destinato alla distruzione o all’abbandono, nessuno merita semplicemente di scomparire nel nulla. Scheler sottolinea anche che vedere davvero porta ad agire. La compassione, proprio in quanto sollecitudine per l’altro sofferente, spinge ad affrontare le cause della sofferenza, ad aiutare chi ne è colpito, a cercare forme di liberazione. Perché è così che fa l’amore, il quale non è solo sentimento, ma azione, relazione, dinamismo, trasfigurazione. Non c’è effettiva compassione senza amore. La compassione è espressione dell’amore creativo, che suscita libera corrispondenza e realizza l’esperienza del bene condiviso divenendo co-amore. Questa è la sola possibilità per conoscere davvero qualcuno e arrivare a incontrare la sua anima. L’orizzonte vitale della compassione è una comunione onnipersonale nella quale ciascuno risponde all’attrazione dell’amore ed è così chiamato a raggiungere la pienezza della propria realtà di valore unico.
Quanto tutto questo sia arduo in una storia tragica come quella del Novecento è stato percepito dolorosamente dall’esistenzialismo, che rappresenta uno degli esiti etici dell’autocritica della ragione moderna. Il senso di questa consapevolezza è riassunto da Albert Camus nella sua dichiarazione della necessità morale di non aderire più a quella razionalità vittimaria che trova necessario e logico dare la morte, in qualcuna delle sue forme. Si può esistere in verità solo scegliendo la prossimità solidale e nonviolenta con le vittime. Come dice un personaggio de La peste: “Ho deciso di rifiutare tutto quello che, da vicino o da lontano, per buone o per cattive ragioni, faccia morire o giustifichi che si faccia morire. (…) Ci sono sulla terra flagelli e vittime e bisogna, per quanto possibile, rifiutarsi di essere col flagello” (A. Camus, La peste, in ID., Opere, Milano, Bompiani, 2000, pp. 570 e 571). L’autentica compassione può prender la forma di una rivolta che porta ad agire contro le cause della sofferenza. Ma la rivolta è radicale se è nonviolenta, se non produce nuova sofferenza. La compassione politica assume così il vincolo, in questo agire, a non fare più vittime, perché “non vi sarà pace durevole né nel cuore degli individui né nei costumi della società sin quando la morte non verrà posta fuori legge” (A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, Milano, SE Edizioni, 1993, p. 70).
Il percorso dell’illuminismo autocritico ha riaperto il cuore della ragione e ha permesso alla filosofia occidentale di accogliere in sé quelle culture della compassione, dal pensiero di matrice biblica alle tradizioni del buddismo, che possono rivelarsi una forza per la lucidità dei singoli e dell’umanità. Una lucidità che ci è indispensabile nel confronto con la sofferenza e con la morte che ancora non è cessato da nessuna parte e di cui, nonostante tutto, non possiamo ancora dire l’esito. Neppure nel caso di coloro che sono scomparsi e che pure amiamo ancora.

Biografia

Roberto Mancini, nato a Macerata nel 1958, è professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata, dove è anche Presidente del Corso di Laurea in Filosofia e Vice Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Collabora con le riviste “Servitium”, “Ermeneutica Letteraria” e “Altreconomia”. Dirige la collana “Orizzonte Filosofico” dell’editrice Cittadella di Assisi. E’ membro del Comitato Scientifico della Scuola di Pace della Provincia di Lucca e della Scuola di Pace del Comune di Senigallia.
Oltre a circa 200 articoli e saggi brevi di etica, antropologia filosofica, teoria della verità e filosofia della religione, ha pubblicato i seguenti volumi:
- L’uomo quotidiano, Marietti 1985;
- Linguaggio e etica, Marietti 1988;
- Comunicazione come ecumene, Queriniana 1991;
- L’ascolto come radice: teoria dialogica della verità, Edizioni Scientifiche Italiane 1995;
- Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Cittadella 1996;
- Il dono del senso, Cittadella 1999;
- Il silenzio, via verso la vita, Qiqajon 2002;
- Senso e futuro della politica, Cittadella 2002;
- L’uomo e la comunità, Qiqajon 2004;
- Il senso del tempo e il suo mistero, Pazzini 2005;
- L’amore politico: sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Levinas, Cittadella 2005;
- Esistere nascendo: la filosofia maieutica di Maria Zambrano, Edizioni Città Aperta 2007;
- L’umanità promessa. Vivere il cristianesimo nell’età della globalizzazione, Pazzini 2008.
In collaborazione con altri autori ha inoltre scritto “Etiche della mondialità” (Cittadella 2007).
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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