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Il silenzio che accoglie, via di relazione con il malato

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05/05/2010

Liberamente tratto da:
Anthony Bloom, Alla sera della vita, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI), 2002, p. 54-58

Si ringrazia l'editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Prima di diventare presbitero e, successivamente, esarca per l’Europa occidentale del Patriarcato Ortodosso di Mosca, Andrei (Anthony) Bloom è stato medico chirurgo, dapprima a Parigi e poi al fronte, durante la seconda guerra mondiale. Questa pagina, tratta da una raccolta di articoli e interviste, approfondisce il delicato tema del rapporto medico-paziente con indicazioni di rara sapienza e umanità, preziose non solo per i professionisti, ma anche per i volontari e per chiunque si trovi ad assistere un amico o un familiare.
Alla base della riflessione sta la considerazione che «al capezzale d’un malato non ci si può comportare come nella vita di tutti i giorni»: in quel luogo di dolore e di paura non vigono le logiche efficientistiche della vita quotidiana, non si deve avere fretta o attenzione distratta, né la pretesa che le sue o le nostre domande ricevano sempre e comunque una risposta. E anche le esigenze pratiche dell’assistenza medica, pur fondamentali per il bene stesso del ricoverato, non devono distogliere dall’obiettivo primario di stabilire un contatto con il suo cuore e le sue emozioni.
Il malato deve essere lasciato libero di sfogare i propri sentimenti, e nel momento più giusto per lui: chi lo assiste deve semplicemente “esserci” e trasmettergli la sensazione che il tempo che gli sta dedicando, fossero anche pochi minuti, «appartiene interamente a lui» e che «al mondo in quel momento non c’è nulla e nessuno più importante di lui». Alla radice di questa difficile arte dell’ascolto e dell’accoglienza, Bloom indica la capacità di fare silenzio, di rifuggire le “parole vuote” e le “emozioni superficiali”. Solo così il malato, e noi stessi, diventeremo capaci di dire «le poche parole che meritano di essere pronunciate».
La cosa principale è il rapporto con il paziente e la tua presenza, sicché il malato non abbia l’impressione che tu aspetti solo il momento di partire per occuparti di altre faccende. Mi sovviene un esempio personale, risalente a quando facevo ancora il medico. Eravamo all’inizio della guerra e durante i primi scontri ci portarono undici soldati feriti. Era il mio primo contatto con uomini venuti direttamente dal fronte. Sui loro volti si leggeva ancora lo smarrimento e il terrore. Mi dicevo che per ciascuno di loro dovevo fare tutto quello che potevo il più velocemente possibile, in modo che gli altri non avessero ad aspettare troppo. Senza por tempo in mezzo mi misi all’opera e, uno dopo l’altro, li mandai tutti in corsia. Più tardi, durante il mio giro di visite, mi accorsi che non riuscivo a riconoscerne nessuno: avevo sì esaminato le loro ferite al petto, alle gambe, al ventre, alle spalle, ma non avevo affatto visto i loro volti, anche perché nessuno di loro era stato ferito al volto. Erano tutti prostrati, in uno stato di shock che non riuscivano a superare. Forte di quella prima esperienza, quando arrivò la seconda ondata di feriti decisi di mettermi a conversare con loro, pur continuando a lavorare con le mani (si possono fare molte cose con le mani mentre si parla con una persona e la si guarda in viso). Li fissavo uno per uno e ponevo loro delle domande; poi, riportando lo sguardo sulle mie mani e sulle ferite, facevo quanto era necessario. Chiedevo: «Come ti chiami? Dove sei ferito? Hai avuto molta paura?», domande semplicissime ma tali da obbligare il ferito, per tutto il tempo che mi occupavo di lui, a sfogare la sua angoscia, il suo orrore. Quando più tardi feci la mia visita in corsia, prima di tutto li riconobbi uno per uno, poi scoprii che lo shock era passato, perché nel corso della nostra breve conversazione avevano avuto il tempo di esprimere i loro sentimenti...
Al capezzale d’un malato non ci si può comportare come nella vita di tutti i giorni, non bisogna rispondere a tutte le domande, né parlare alla stessa velocità o aspettarsi sempre una risposta. A una persona in tale condizione bisogna accostarsi con estrema attenzione, con grande saggezza e umiltà: ne sono profondamente convinto. Sotto certi aspetti l’iniziativa deve venire dal malato e non da te. Tu devi essere a tal punto immerso nel silenzio che il malato possa in ogni momento iniziare la conversazione. La cosa più importante, quella che aiuta di più ma richiede un duro apprendistato, è la capacità di restare seduti in totale immobilità, semplicemente esserci. Questo implica due cose. Da una parte bisogna fare in modo che colui al quale vi consacrate prenda coscienza che siete venuti per un tempo indeterminato, senza fretta, interamente presenti. Sapete bene che effetto fa la visita di uno che arriva, si siede sul bordo della sedia, fa capire dall’espressione del volto che ha non più di dieci minuti a disposizione e aspetta solo che siano passati per poter dire: «Ora bisogna che vada!». Continuiamo a guardarci intorno, a sbirciare furtivamente, e la persona alla quale fingiamo di fare visita capisce benissimo che non siamo affatto con lei. Fisicamente sì, lo siamo, ma la mente è altrove, abbiamo in testa o il malato appena visitato o quello che visiteremo, o in genere le cose che avremmo dovuto o che dobbiamo ancora fare. Se vi accostate al capezzale di qualcuno, deve essergli perfettamente chiaro che tutto il tempo a vostra disposizione – fossero anche cinque minuti – appartiene interamente a lui, che durante quei cinque minuti i vostri pensieri non saranno rivolti ad altro e che al mondo in quel momento non c’è nulla e nessuno più importante di lui.
Inoltre, sappiate restare zitti. Cessi la chiacchiera e lasci il posto a un silenzio profondo, vigile, pieno di umana sollecitudine. Non è facile imparare a far silenzio. Sedetevi, prendete il malato per mano e dite tranquillamente: «Sono contento di essere con te...». Poi fate silenzio, siate presenti senza rimestare con lui un mondo di parole vuote o emozioni superficiali. Che la vostra visita gli rechi gioia e lui sappia che anche per voi è una gioia. Allora scoprirete, come mi è accaduto più volte nel corso degli ultimi trenta o quarant’anni, che a un certo momento le persone diventano capaci di parlare, con serietà e ampiezza di vedute, di dire le poche parole che meritano di essere pronunciate. E scoprirete qualcosa di ancor più sorprendente, e cioè che anche voi siete capaci di parlare a quel modo.

Biografia

Andrei Borisovich Bloom (il futuro Metropolita Anthony di Surož) nasce nel 1914 a Losanna, in Svizzera, da Xenia e Boris Edwardovich Bloom. Nipote per parte di madre del compositore Alexander Scriabin, trascorre la fanciullezza in Russia e Persia. Durante la Rivoluzione di Ottobre, la famiglia lascia la Persia, e nel 1923 si stabilisce a Parigi, dove il giovane Andrei studia fisica, chimica e biologia, e infine si laurea in medicina all’Università di Parigi.
Lui stesso racconterà: «Ho incontrato Cristo in un momento in cui ne avevo bisogno per vivere, e nel quale tuttavia non lo stavo affatto cercando. Non fui io a trovare lui: fu lui a trovare me. Ero un ragazzino, allora... Fino a quel momento la mia vita era stata difficile, ma ora stava diventando finalmente più serena. Il problema era che, negli anni difficili, avevo trovato naturale combattere; ma ora che l’orizzonte sembrava schiarirsi, non riuscivo ad accettare quel benessere senza scopo».
Nel 1939, prima di partire per il fronte come medico dell’esercito francese, Andrei prende segretamente i voti monastici nella Chiesa Ortodossa Russa. Farà professione solenne e riceverà il nome di Anthony nel 1943. Durante l’occupazione nazista della Francia, lavora come chirurgo e prende parte alla Resistenza.
Nel 1948 viene ordinato presbitero e inviato in Inghilterra: sarà nominato Vicario nel 1950, Vescovo nel 1957 e, nel 1962, Arcivescovo della Chiesa Ortodossa Russa di Gran Bretagna e Irlanda. L’anno successivo è nominato Esarca per l’Europa occidentale del Patriarcato Ortodosso di Mosca, e nel 1966 è innalzato al rango di Metropolita.
Nel 1974 lascia l’impegnativo incarico di Esarca per dedicarsi esclusivamente alla cura pastorale dei fedeli, il cui numero cresce in quegli anni molto rapidamente. Muore a Londra nel 2003.
E’ ricordato come una figura ecclesiale fra le più autorevoli del nostro tempo, padre spirituale di raro discernimento e autore di testi sulla preghiera e sulla vita cristiana apprezzati in Oriente e in Occidente da cristiani di tutte le confessioni.
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