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Il Cristo medico

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09/07/2008

Luciano Manicardi
Monaco di Bose

«Come qualsiasi cura è la via per recuperare la salute, così fu della cura adottata da Dio: si rivolse a dei peccatori per guarirli e per rimetterli in salute. E come quando i medici fasciano le ferite lo fanno non alla buona ma con arte, per cui dalla fasciatura deriva non solo un’utilità ma anche una specie di bellezza, così è stato della medicina della Sapienza quando, assumendo l’umanità, si è adeguata alle nostre ferite. Certuni li ha curati con rimedi contrari, altri con rimedi congeneri. Si è comportata come colui che cura le ferite del corpo. Usa, a volte, rimedi contrari, come quando applica cose fredde a ciò che è caldo, cose bagnate a ciò che è asciutto o altri simili rimedi. Usa anche dei rimedi congeneri, come una benda rotonda per una ferita rotonda, una benda allungata per una ferita di forma allungata e, quando esegue la fasciatura, non la fa identica per tutte le membra ma fatta su misura per ogni singolo membro. Così fece la Sapienza di Dio quando volle curare l’uomo: per guarirlo gli offrì se stessa e divenne medico e medicina» (Agostino, De doctrina cristiana I,14,13).
Le parole di Agostino mettono in luce quel tema del Cristo medico che non solo era a lui particolarmente caro, ma che aveva trovato anche un’ampia diffusione popolare nel cristianesimo dei primi secoli. Un’antica iscrizione funebre trovata a Timgad (Africa settentrionale) contiene l’invocazione: «Cristo, tu solo medico (Christe, solus medicus), vieni in aiuto...». L’immagine del Cristo medico è quella che maggiormente si è impressa nella tradizione cristiana primitiva, come appare dalla massiccia testimonianza evangelica. La quale, d’altronde, riprende la testimonianza dell’Antico Testamento sul Dio d’Israele, chiamato “Colui che guarisce” (Esodo 15,26). Per quel che riguarda l’Antico Testamento, «guarigioni naturali e miracolose non vengono fondamentalmente distinte. Sia che cooperino disposizioni umane e pratiche o no, è assolutamente essenziale il fatto che il malato nella sua malattia e il convalescente nella sua guarigione incontra Dio, il quale manda mediatamente o senza mediazioni la malattia e la guarigione. Mentre lo stesso Esculapio, dio preminente dell’arte medica, deve tollerare accanto a sé la concorrenza di Apollo e questo a sua volta quella dei figli di Esculapio, Macaone e Iodalerio, per Israele i rapporti con la malattia sono monopolio esclusivo di YHWH. Egli stesso non si ammala o si ferisce come gli dèi, per esempio Horus in Egitto, che Thot deve guarire da una puntura di scorpione» (Hans Walter Wolff).
Ora, secondo i vangeli, l’attività terapeutica è centrale nel ministero di Gesù. I vangeli sottolineano che Gesù cura i malati (il verbo greco therapèuein, “curare”, ricorre 36 volte, mentre il verbo iàsthai, “guarire”, si trova 19 volte), e curare significa anzitutto “servire” e “onorare” una persona, averne sollecitudine. Gesù vede nel malato una persona, ne fa emergere l’unicità e si relaziona a lui con la totalità del suo essere, cogliendone la ricerca di senso, vedendolo come una creatura capace di preghiera e segnata da fragilità, mossa da speranza e disposta all’apertura di fede, desiderosa non solo di guarigione, ma di ciò che può dare pienezza all’intera sua vita. Il Gesù terapeuta manifesta che ciò che conta è la persona malata, non la sua malattia.
I racconti di guarigione lasciano trasparire la lunghezza e la fatica di tali interventi di Gesù: non si tratta di interventi magici, ma di incontri personali, che costano tempo ed energie fisiche e psichiche per condurre colui che sragiona a entrare in una relazione umanizzata (l’indemoniato geraseno: Mc 5,1-20), che chiedono a Gesù di informarsi e di avere ragguagli sulla malattia del ragazzo epilettico per poter intervenire (Mc 9,14-29), che richiedono la ripetizione di gesti terapeutici (come nel caso della guarigione del cieco di Betsaida: Mc 8,22-26), che gli sottraggono forze (come nell’episodio della guarigione dell’emorroissa: Mc 5,25-34).
La maggioranza dei lettori dei vangeli attribuiscono le guarigioni, riferite dai quattro vangeli, a Gesù come agente attraverso cui si producono i benefici nel malato. Una simile lettura è sconfessata dalla lettera stessa di tali racconti. L’analisi dei testi implica non solo che ci si debba opporre a tale lettura, ma che si debba anche portare una significativa chiarificazione. Nei racconti di guarigione, normalmente la guarigione è menzionata alla fine, brevemente, ed è l’effetto congiunto di Gesù e di uno o più partner nell’azione. Essa è il frutto della relazione che si è stabilita fra Gesù e chi gli sta accanto, il suo o i suoi interlocutori, i partner nella scena. È la presentazione di questa relazione che occupa la parte principale del racconto. Mai l’uomo è puramente passivo nel racconto di guarigione. A lui è chiesto di aprirsi all’azione di Cristo e in questo è centrale la fede. Il miracolo assume così una struttura dialogica che riflette la struttura stessa della salvezza cristiana, l’incontro tra Cristo e l’uomo bisognoso. La fede è lo spazio e la possibilità di questo incontro. In sostanza, l’attività di guarigione del Cristo medico consiste essenzialmente nello stabilire una relazione vera con la persona che ha di fronte.
Possiamo scegliere, fra i tanti, l’esempio della guarigione di un uomo lebbroso. Il testo si trova in Marco 1,40-45:
«Venne a Gesù un lebbroso e lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, tu puoi guarirmi”. Mosso a compassione, (Gesù) stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci”. Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: “Guarda di non dire niente a nessuno, ma va’, presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro”. Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte».
Colpisce anzitutto l’atteggiamento del lebbroso: se la malattia a volte indurisce, incattivisce, isola, porta a nutrire sfiducia verso gli altri e la vita, quest’uomo mostra volontà di vivere e fiducia in Gesù. La guarigione trova nel malato il suo più potente alleato. Egli supera con slancio vitale le barriere poste dalla società fra lui e gli altri e si fa vicino a Gesù, quindi gli dice: «Se vuoi, tu puoi guarirmi». Egli trova finalmente un “tu” con cui relazionarsi, che non lo lascia nell’isolamento a cui erano condannati i lebbrosi, che gli rivolge uno sguardo non omologato, diverso, di condivisione della sua sofferenza e non di paura o di commiserazione, e così lo autorizza a guardarsi lui stesso in modo diverso, più libero e umano. Egli non si chiude nell’autocommiserazione, ma si rimette al buon-volere di Gesù, quasi dicendogli: «Se è tua gioia il guarirmi, io sono convinto che tu puoi farlo»; «Se ti sta a cuore di me, il cammino di guarigione può iniziare». Ciò che cerca è anzitutto una relazione. La guarigione emerge nella sua dimensione di evento relazionale. Sua premessa è il sapere che la reintegrazione del malato nella pienezza di vita è voluta da un altro, che la sua persona e la sua vita sono preziose per un altro.
La reazione di Gesù è la compassione (Mc 1,41): si lascia ferire dalla sofferenza del malato e agisce di conseguenza entrando nella sua situazione. Lo tocca e così non solo rischia il contagio, ma si contamina e contrae impurità rituale, che esclude dalla partecipazione a gesti cultuali: questa esclusione è il prezzo pagato per andare incontro a un escluso strappandolo alla sua solitudine mortale. La carità non è innocente, ma contamina, compromette. Colui che nessuno poteva e voleva più toccare si sente toccato e questo contatto è linguaggio comunicativo e affettivo che trasmette il senso di una presenza amica, linguaggio ben colto da quella pelle che non è solo l’organo di senso più esteso del corpo umano, ma anche il primo luogo dello scambio e dell’esperienza che noi facciamo del mondo e che il mondo fa di noi. Che uno lo abbia toccato, significa che lui stesso può riprendere contatto con se stesso, che la sua situazione di isolamento non è senza speranza. L’incontro con l’altro, con questa compromissione tattile così significativa, può aiutare il lebbroso ad accogliere se stesso e a guardarsi con occhi nuovi. La guarigione sta avanzando grazie al ritrovamento di una relazione autentica.
Gesù poi riprende le parole del lebbroso stesso quando gli dice: «Lo voglio, sii guarito». Gesù sposa le parole di quell’uomo, si lascia incontrare da lui e fa avvenire in sé qualcosa della diversità che abitava il lebbroso. In effetti, l’episodio si conclude mostrando un Gesù che si trova nella situazione del lebbroso: «Non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti» (Mc 1,45). Gesù prende su di sé la sofferenza dell’altro e così appare veramente come il Servo sofferente che ha assunto e portato le malattie e infermità degli umani (Mt 8,16-17).

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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