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Tre storie di donne fra decadenza e desolazione

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23/09/2015

Tratto da:
William Faulkner, Una rosa per Emily, Adelphi, 2015

Selezione del brano, guida alla lettura e biografia a cura di Pino Pignatta

Guida alla lettura

Tre ritratti potenti di figure femminili: inchiodano al libro per uno stile narrativo di forte spessore psicologico, che scava nelle loro vite, nelle loro sofferenze, illuminando le debolezze ma anche la forza della loro personalità. Perché sono insieme donne fragili e forti. L’azione si svolge tra Mississippi e Missouri, nel pieno della Grande Depressione e del Proibizionismo americano, dunque in quegli anni Trenta che vedevano insieme trafficanti di whisky e ritmi del Charleston, avventurieri senza scrupoli e lotte tra bianchi e neri (spesso dipinti ancora come “negri”), sfruttamento agricolo di famiglie del profondo Sud e grandi migrazioni interne agli States, per la povertà dilagante conseguente alla drammatica crisi economica del 1929.
L’autore dei tre ritratti è lo scrittore americano William Faulkner, Premio Nobel per la letteratura nel 1949. Si tratta di tre racconti brevi, messi insieme da Adelphi in un volume ormai storico che ha per titolo “Una rosa per Emily”. Faulkner, come Hemingway, dal quale lo differenzia però uno stile radicalmente diverso, ha scritto molti racconti: non soltanto lunghi romanzi di epica energia narrativa, come “Luce d’agosto”, o “L’urlo e il furore”, o ancora “Santuario” (libro capace di anticipare lo stile “pulp”), ma anche brevi e fulminanti istantanee di donne e uomini fissati dalla forza della parola scritta nella fatica di vivere, nei loro vizi, psicosi, decadenze morali, violenze, miserie. Questo libro raduna tre di questi racconti; uno è appunto “Una rosa per Emily”, che dà il titolo all’opera; gli altri due sono “Miss Zilphia Gant” e “Adolescenza”.
In particolare “A rose for Emily” – con un finale da brividi, quasi gotico – è la storia di una “negra”, come ripete in modo cinico più volte lo stesso Faulkner, uomo del Mississippi, e dunque testimone sin dalla fanciullezza della tragica contrapposizione tra neri e bianchi. Una storia che vede la luce nel 1930, lo stesso periodo di “Addio alle armi”, capolavoro dell’amico Ernest Hemingway. Ma come annotavamo prima, i due scrittori non potevano essere più diversi: Hemingway è celebre per la scrittura asciutta, ritmica, costruita su frasi brevissime. Faulkner, invece, ha un andamento quasi barocco, periodi lunghi, elaborati, e tuttavia incredibilmente leggibili per la spasmodica ricerca della perfezione nella sintassi e nelle concatenazioni. E quasi tutti i suoi racconti e romanzi hanno come sfondo scenografico, di ambientazione, l’immaginaria contea di Yoknapatawpha: nient’altro che la trasposizione dei luoghi in cui è nato, cioè la contea di Lafayette, Mississippi. E questa Yoknapatawpha – la cui atmosfera è appesantita dal racconto dolente dei poveri, soprattutto i poveri bianchi – è ben riconoscibile anche in questi tre racconti, una sorta di cifra stilistica ricorrente, tra le più incredibili dimostrazioni di inventiva fantastica nella storia della letteratura.
Ovviamente non vi raccontiamo nei dettagli ogni singolo racconto: innanzitutto perché sono così brevi che basterebbe poco per svelarne completamente i finali, che si rivelano inquietanti, venati di follia, sul confine del thriller; e poi per non togliervi la bellezza di scoprirne i risvolti, soprattutto psicologici, nella carne e nella sofferenza dei personaggi, non tanto fisica quanto di difficoltà a condurre un’esistenza dignitosa, vuoi per i fortissimi traumi subìti vuoi per l’incapacità di uscire da una prigione mentale fatta di conformismo e solitudine. Storie di donne che sembrano non avere speranza di riscatto. Alcuna possibilità di vita migliore, di un futuro luminoso. Prigioniere di un presente fatto di decadenza e desolazione. Ma godetevi la scrittura di Faulkner, la sua straordinaria abilità nelle descrizioni, con un’aggettivazione debordante ma quasi mai banale nel dipingere con abbondanza di particolari, con la minuzia del cesello letterario, ambienti, oggetti, natura, volti, anime e dolori.
Miss Zilphia Gant
In quel periodo Zilphia era magra come un chiodo, col viso esangue tormentato e grandi occhi non del tutto sottomessi; andava e tornava da scuola al fianco di sua madre, dietro la piccola maschera tragica del suo viso. Un giorno, quando era al terzo anno, si rifiutò di andare a scuola. Non voleva dire la ragione a Mrs. Gant: che si vergognava di essere sempre vista per strada in compagnia di sua madre. Mrs. Gant non la lasciò interrompere la scuola, in primavera Zilphia si ammalò di nuovo, di nervi, di solitudine, di pura e semplice disperazione. Stette male per molto tempo. Il dottore disse che aveva bisogno di compagnia, di giocare con i bambini della sua via e all’aria aperta. Un giorno, durante la convalescenza, Mrs. Gant arrivò a casa con una cucina giocattolo. «Ora potrai invitare a casa le amiche, e potrai cucinare» le disse. «Non è più bello che andarle a trovare a casa loro?». Zilphia, non meno bianca del cuscino sul quale poggiava, aveva due occhi che sembravano buchi fatti col pollice in un pezzo di carta assorbente. «Potrai far merenda con le tue amiche tutti giorni» disse Mrs. Gant. «Io cucirò i vestitini per tutte le bambole». Zilphia si mise a piangere. Piangeva con la testa sul cuscino, le braccia distese lungo i fianchi. Mrs. Gant prese la cucina e la riportò al negozio, facendosi restituire i soldi. La convalescenza durò molto a lungo. Zilphia aveva ancora crisi di pianto improvvise. Quando fu di nuovo in piedi Mrs. Gant le chiese quali delle sue amiche voleva andare a trovare. Zilphia ne nominò tre o quattro. Quel pomeriggio Mrs. Gant chiuse la bottega. La videro in tre diverse parti della città, mentre guardava le case. Fermava i passanti: «Chi abita qui?» domandava. Glielo dicevano. «Quanti sono in famiglia?». Il passante la guardava fisso, e lei sosteneva lo sguardo: una donna forte, ancora piacente. «Hanno dei figli maschi?».

Una rosa per Emily
Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno vedemmo il negro, sempre più grigio e sempre più curvo, andare e venire col cesto della spesa. Ogni anno a dicembre le spedivamo l’avviso di pagamento, che una settimana dopo l’ufficio postale ci rimandava perché nessuno l’aveva ritirato. Di tanto in tanto la vedevamo a una delle finestre del pianterreno – aveva evidentemente chiuso il piano superiore della casa – simile al busto scolpito di un idolo in una nicchia, che ci guardava oppure non ci guardava, era impossibile dirlo. Così passo da una generazione all’altra, amabile, ineluttabile, impervia, tranquilla e perversa. E così morì. Si ammalò in quella casa piena di polvere e di ombre, e solo un tremulo negro a prendersi cura di lei. Noi non sapevamo neppure che fosse malata; da tempo avevamo rinunciato a chiedere notizie al negro. Questi non parlava con nessuno, probabilmente nemmeno con lei, perché la voce gli si era fatta aspra e rugginosa, come se non la usasse mai. Miss Emily morì in una delle stanze al pianterreno, in un pesante letto di noce con baldacchino, la testa grigia sostenuta da un cuscino giallognolo e ammuffito dal tempo e della mancanza di sole.

Adolescenza
La casa era buia; un angolo di luce che guizzava in silenzio indicava la porta della camera della nonna. In principio Juliet non vide la vecchia, poi il suo sguardo notò una mano raggrinzita che riempiva la pipa. «Juliet?», disse l’altra dal suo cantuccio; e Juliet, mentre montava in lei la sua sprezzante belligeranza, entrò e rimase ferma davanti al camino. Il calore le batteva piacevolmente contro le gambe attraverso la gonna. La nonna si sporse in avanti finché il suo viso pendulo non entrò come una maschera nella luce del focolare, e sputò.
«Tuo padre è morto» disse.
Juliet fissava l’enorme ombra guizzante del letto con le tende. Le boccate cadenzate della pipa picchiavano piano contro le sue orecchie, come ali di falena. Senza emozione pensò: Joe Bunden è morto; era come se le parole della nonna fossero rimaste appese nella penombra della stanza, sussurrando l’una all’altra. Finalmente si riscosse. «Mio padre è morto, nonna?».
La vecchia si mosse di nuovo mando un gemito…
Le ombre guizzavano sul muro, poiché ricadevano giù; mentre le parole della nonna indugiavano nella penombra come ragnatele. Juliet lasciò la stanza e si sedette sull’assito del portico, con la schiena contro il muro e le gambe rigide davanti a sé. Joe Bunden ormai non lo odiava più, ma Lee, il suo amico Lee era un’altra faccenda, la sua partenza era più tangibile della morte di cento uomini: era come fosse morta lei. Così rimase seduta nell’oscurità, osservando la fanciullezza che l’abbandonava. Ricordava con dolorosa chiarezza la primavera in cui, per la prima volta, lei e Lee avevano nuotato e pescato e scorrazzato insieme, le crude giornate di tempesta che schiarivano negli strati di nuvole lievi sopra la terra incolta e scavata dalla pioggia; quasi riusciva a sentire le grida degli uomini che aravano il terreno fangoso, e i corvi arruffati che calavano obliqui sottovento come frammenti di carta bruciata. Cambiamento e morte e separazione…

Biografia

William Faulkner nasce a New Albany, Mississippi (USA), il 25 settembre 1897. Scrittore, sceneggiatore, giornalista, drammaturgo, ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura nel 1949, in occasione del quale pronuncia uno dei discorsi più memorabili nell’intera storia del riconoscimento. Per ritirare il Premio si reca a Stoccolma con la figlia Jill. Decide di devolvere il denaro per costituire un fondo, il cui scopo è sostenere nuovi talenti in campo letterario, il “Premio Faulkner”. Gli argomenti delle sue opere rimangono quasi sempre gli stessi per tutta la parabola narrativa: dalla corruzione allo scontro tra bianchi e neri, sino ai temi universale del male e della fatica di vivere. Muore a 64 anni il 6 luglio 1962 a Oxford, nel Mississippi. La sua vecchia casa, donata all’Università della contea, è diventata un alloggio per gli studenti di giornalismo.
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