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Alla radice del femminicidio

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08/01/2020

Tratto da:
Cesare Pavese, Terra d’esilio. In: Racconti, Opere, Giulio Einaudi Editore 1968

Guida alla lettura

«Se le avessi voluto bene, avrei ucciso lei»: lo dice Rocco, protagonista di un racconto di Cesare Pavese (“Carogne”), dopo avere assassinato un rivale in amore. Una frase agghiacciante in cui troviamo tutti gli elementi che, in certi uomini, avvelenano il rapporto con le donne e portano al femminicidio: il desiderio senza sentimento, la gelosia patologica, la logica perversa secondo cui gli ostacoli all’affermazione di sé vanno eliminati con la violenza, la pulsione paradossale a sopprimere per “amore”.
Una forma mentis che ritorna nel racconto che proponiamo oggi, “Terra d’esilio” (1936). Otino è un operaio torinese confinato al sud per avere aggredito un milite che corteggiava la sua donna. Una sera incontra il protagonista, un ingegnere in trasferta per lavoro, e rivela la propria intenzione: chiedere la grazia e tornare a casa per uccidere quella donna, che ora crede innamorata di un altro. Quando poi la donna verrà davvero uccisa da un collega, Otino si limiterà a reagire rabbiosamente: «Una cosa sola mi è rimasta nel gozzo: che adesso non lo posso più far io».
Pavese, maestro di stile e narrazione fra i più grandi della nostra storia letteraria, ha ritratto tante volte la condizione degradata della donna nella società urbana e contadina del suo tempo. Si pensi alla poesia “Antenati”, inclusa nella raccolta “Lavorare stanca”: «E le donne non contano nella famiglia. / Voglio dire, le donne da noi stanno in casa / e ci mettono al mondo e non dicono nulla / e non contano nulla e non le ricordiamo». E il tragico stupro del racconto “Temporale d’estate”, in cui una ragazza muore affogata dopo essere sfuggita ai suoi aguzzini: «Non poteva andar meglio. Ci ha pensato da sé per levarsi di mezzo. Le donne come quella poi parlano».
Queste prose, queste liriche ci esortano alla compassione per le vittime, alla più netta condanna dei carnefici, a un esigente rigore etico verso noi stessi, pena non soltanto la nostra giustificazione di fronte alla vita, ma la nostra stessa infelicità. Scrive infatti Pavese, nel diario, con acutissima sensibilità psicologica: «Chi non sa vivere con carità ed abbracciare il dolore degli altri, è punito in questo, che sente con violenza intollerabile il proprio. Il dolore si può accogliere soltanto elevandolo a sorte comune e compatendo agli altri che soffrono. La pena dell’egoista è accorgersi di questo soltanto sotto la sferza e tentare vanamente di imparare la carità, per interesse» (Il mestiere di vivere, 30 gennaio 1945).
Di notte mi facevo venir sonno, sedendo sulla spiaggia e ascoltando lo sciacquio del mare nel buio. A volte stavo in albergo studiando la mappa dei lavori o rileggendo i miei giornali, e fumando fantasticavo sul trasferimento che non poteva tardare.
Una sera irrequieto tornavo dalla spiaggia in paese, quando una voce mi chiamò. Mi volto e travedo l’operaio torinese seduto su un muricciolo. Mi stupì: sapevo che il suo regolamento gli vietava di uscire a quell’ora.
«Come va, Otino?».
Mi diede una sigaretta e ci mettemmo a passeggiare sulla strada fiancheggiata da uliveti. C’era l’aspro profumo delle campagne di settembre sotto il cielo fresco. Il confinato non parlava. Camminammo un cinquanta metri, poi ritornammo, passando e ripassando davanti alle bicocche in cui lui abitava.
«E’ un sistema ben trovato per stare in casa e prendere l’aria, tutto insieme», dissi finalmente.
L’altro taceva; per quanto vedevo, con le labbra serrate. E fissava la terra, dove camminava.
«Ha ancora molto da scontare?».
Neanche questa volta mi badò, ma con una specie di sforzo, quasi avesse la gola tagliata, disse senza guardarmi: «Rompo la testa a qualcuno».
Mi arrestai, lo afferrai per un braccio: «Cosa diavolo succede?».
Quello si svincolò e si fermò. «Non dico a lei», borbottò scontrosamente. «Le donne sono carogne. Io sto qui a fare il frate e quella si fa sbattere».
«Quella della cartolina? Se le scrive».
Il meccanico mi fissò con odio. «Era mia moglie».
Lo guardai atterrito.
«Quand’ero dentro, veniva tutti i giorni a vedermi e piangeva e voleva venire con me. Ma come faceva a vivere qui? Qui non ci sono fabbriche. Poi l’ho capita e le ho scritto di venire. Lei non mi ha più risposto. In questo momento è a letto con qualcuno».
«Ma non siete…?».
«Stavamo insieme». Si raschiò la gola e io guardavo in terra.
«Già», dissi poi, confuso.
C’eravamo appoggiati al muricciolo, dove il meccanico sedeva prima. Il frastaglio nero degli ulivi ci faceva intorno un muro. Il mio compagno respirava come avesse le costole fiaccate. Poi, scattando: «Camminiamo». Riprendemmo, di buon passo.
«Ma che non le scriva – cominciai io a un certo punto – non vuole ancora dire…».
«Storie – tagliò quello – non lei. Non è una donna a posto. Anche quando c’ero, mi toccava ricominciare tutti i giorni. Non lasciava mai capire la sua idea. Non che mi comandasse, ma era dura, dura. Sono stato tranquillo solo quando l’ho vista piangere. Per due anni l’ho tenuta. Allora, me l’ha fatta». Dicendo queste cose, pareva attanagliato. Esitava a parlare e trattenersi non poteva. I muscoli della mascella tesi gli facevano una faccia ancor più scarna.
«Perché non le scrive lei, Otino? Le ragazze di Torino sono gentili. Vorrà ben rispondere».
«Non lei. Sei mesi fa le ho scritto, che venisse, subito, tre lettere le ho scritto. Ha veduto la risposta».
Continuò a parlare nella sua tana ammobiliata. Mi chiarì che era al confino per aver cacciata a pugni la politica in testa a un milite che corteggiava quella donna. Ne aveva per cinque anni e non era ancor finito il primo. Voleva dare la testa nei muri.
«Perché non fa una domanda di grazia?», chiesi cauto.
«La domanda? La farò – disse fissando rabbioso la candela – La farò. Bisogna… Tanto mi prenderò vent’anni. – aggiunse secco – Se ritorno».
Lo guardavo, a disagio. C’era un tavolo tarlato, carico di giornali accartocciati, un piatto sporco, e la candela accesa, piantata in una bottiglia. Un odor misto di sudore, di fumo e di letto opprimeva quella luce.
Camminava in su e in giù. Dallo sgabello, dove mi aveva seduto, lo scrutavo. Conoscevo quel suo tipo brusco e taciturno. Non sapevo più che dirgli.
«E non può più fare a meno di questa ragazza?», azzardai infine.
«Ne faccio a meno! – gridò – Ne ho fatto a meno per un anno. – E si appoggiò alla parete. – Ne farò a meno ancora. Ma che lei faccia a meno di me, non voglio».
«Adesso lo sa – riprese secco – Senta, le parlo da amico, anche se non lo siamo. Se ha una ragazza, la ingravidi. E’ l’unico modo per tenerla».

Biografia

Cesare Pavese nasce nel 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo. Il padre, cancelliere del tribunale di Torino, muore nel 1914: questa perdita, e il rigido carattere della madre, incideranno profondamente sull’indole del ragazzo, che crescerà scontroso e introverso, amante dei libri e della natura.
Allievo di Augusto Monti al liceo “D’Azeglio”, il giovane Pavese legge le opere di Gramsci e Gobetti, e frequenta Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Giulio Einaudi, Massimo Mila: ma si trova a suo agio anche nelle trattorie, con la gente comune che un giorno sarà la vera protagonista dei suoi romanzi.
Nel 1930 si laurea con la tesi “Sull’interpretazione della poesia di Walt Whitman”. Inizia a lavorare per la rivista “La cultura” ed esordisce come traduttore: nel corso degli anni affronterà, tra gli altri, Herman Melville, James Joyce, John Steinbeck, Daniel Defoe, Charles Dickens e William Faulkner. Nel 1932, per poter insegnare nelle scuole pubbliche si arrende alle insistenze della sorella e si iscrive al Partito Nazionale Fascista: una scelta che, in seguito, le rimprovererà aspramente.
Nel 1933 viene fondata la casa editrice Einaudi, al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo. Questi sono anche gli anni della tormentata relazione con Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca”, un’intellettuale impegnata nella lotta antifascista. Con molta imprudenza e per amore suo, lo scrittore accetta di far giungere al proprio domicilio lettere a lei indirizzate e gravemente compromettenti sul piano politico: scoperto, rifiuta di fare il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro, poi ridotti a pochi mesi. Al ritorno, scopre che la donna si è sposata: la delusione lo sprofonda in una grave crisi depressiva, che lo terrà a lungo avvinto alla tentazione del suicidio.
Nel 1936 pubblica la prima raccolta di poesie, “Lavorare stanca” e, nel 1941, il primo romanzo, “Paesi tuoi”, cui seguono “La spiaggia” (1942) e “Feria d’agosto (1946). Chiamato alle armi, viene congedato perché malato di asma. Negli anni del conflitto, avverte una ripugnanza quasi fisica per la violenza: si rifugia nel Monferrato, dove vivrà per due anni “recluso tra le colline”, con l’umiliante sensazione di non saper partecipare alla vita attiva dei suoi compagni di ideali.
Al termine della guerra si iscrive al Partito Comunista, ma anche questa scelta si rivelerà priva di conseguenze pratiche. Il suo impegno è e resta letterario: scrive racconti, romanzi, articoli e saggi, contribuisce alla riorganizzazione dell’Einaudi, si interessa di mitologia, elaborando una teoria sul mito che esprimerà nei “Dialoghi con Leucò” (1947). In quello stesso anno pubblica “Il compagno” (1947); seguiranno, fra gli altri, “La bella estate” e “Prima che il gallo canti” (entrambi del 1949) e “La luna e i falò” (1950). Saranno invece pubblicate postume le “Lettere”, le straordinarie pagine del diario (“Il mestiere di vivere”) e la raccolta di liriche “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, in cui la donna è cantata attraverso i simboli da sempre più eloquenti della sua poetica: la terra, la vigna, il vento, la vita, la morte.
Nel gennaio 1950 conosce a Roma Constance Dowling, una giovane attrice americana di cui si innamora, ma che ben presto lo lascia tornando negli Stati Uniti. A questo nuovo abbandono non riesce a reagire. Scrive sul diario: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». E il 27 agosto si toglie la vita in un albergo di Torino, assumendo una forte dose di sonniferi. Sulla prima pagina dei “Dialoghi con Leucò”, posato sul comodino, annota: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
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