Guida alla lettura
In alcuni capitoli del vangelo di Luca, Gesù – di fronte all’ostilità crescente che incontra durante il cammino – si interroga su come continuare la sua missione. E’ una crisi vera e propria, e Gesù ci mostra come le crisi non vadano evitate, né vadano attraversate passivamente, ma vadano affrontate con maturità di pensiero per crescere come donne e come uomini responsabili verso se stessi e verso il mondo.
Le parole di Luca sono scarne ed essenziali, e sono eloquenti soprattutto per la mentalità ebraica del tempo. In compenso, quelle di Giandomenico di Bose sono meravigliose, e ci scuotono nel profondo: Gesù ci invita a non cercare un altrove magico in cui lasciarci alle spalle le preoccupazioni, ma al tempo stesso ci sollecita a non lasciarci sopraffare dall’ansia, sull’esempio degli uccelli del cielo e dei gigli del campo; ma soprattutto «ci chiama alla libertà, alla leggerezza e a stringere le vesti ai fianchi, pronti a metterci in cammino, con le lampade accese, per affrontare anche il buio della notte che verrà».
Perché la notte, prima o poi, verrà. Per tutti noi. E non necessariamente coinciderà con il sopraggiungere della nostra morte. Sarà la perdita di un figlio, la fine di un amore, l’infrangersi dei sogni della giovinezza, una malattia, la povertà. In quel momento dovremo essere pronti a partire e a camminare senza paura, ma anche ad aspettare perché nella mente e nel cuore si definiscano con chiarezza le decisioni da prendere, i cambiamenti da affrontare. Questa è la via che tutti siamo chiamati a percorrere per non cedere alla distrazione che ottunde, all’inazione che deprime, alla disperazione che uccide.
Spesso noi, perennemente in crisi, cerchiamo un altrove, sogniamo – illudendoci – un nuovo posto da abitare, poco importa se fisico o metafisico, desideriamo con ardore che la crisi finisca presto e rincorriamo freneticamente un atto di magia che possa teletrasportarci in un futuro senza sofferenza né dolore. Gesù ci insegna a rimanere saldi nella crisi, ad abitare e accogliere il presente con tutta la sua nebulosità, a non avere paura (cf. Lc 12,4) e a non preoccuparci delle parole da dire o delle cose da mangiare o indossare (cf. Lc 12,11.22): «Non state in ansia!» (Lc 12,29).
Sì, l’ansia, che nasce dalla paura della morte, ci paralizza con il suo tormentoso vizio dell’affaccendamento che ci porta a mettere la nostra fiducia nelle ricchezze, a porre il nostro cuore nella “pleonexía”, nella “cupiditas”: è la logica dell’accumulo, del sempre avere e pretendere di più, è la filosofia perennemente in voga del «riposati, mangia, bevi e divertiti!» ben espressa dalla parabola dell’uomo ricco (cf. Lc 12,13-21).
Gesù si oppone con forza a questa forma di idolatria che ci ingabbia in una solitudine mortifera e ci invita a guardare gli uccelli e a osservare come crescono i gigli (cf. Lc 12,24.27). Ci chiama alla libertà, alla leggerezza e a stringere le vesti ai fianchi, pronti a metterci in cammino, con le lampade accese, per affrontare anche il buio della notte che verrà. Poi attraverso un’altra parabola coniuga nella nostra vita un verbo decisivo, che non ha nulla di passivo, “aspettare”: «Siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito».
Aspettare. Non è un tempo vuoto, non è una perdita di tempo. Non è una noiosa sala d’attesa, ma il luogo della decisione e della conversione, della vigilanza e della fedeltà alla Parola che dinamizza e mette in moto tutte le fibre del nostro essere, animati dalla speranza che la prospettiva ultima sia la gioia della comunione simboleggiata dal pasto servito dal padrone.