Guida alla lettura
Primo: la solidarietà passa attraverso il saper ascoltare e il saper vedere la sofferenza degli altri. Solo così la compassione può farsi spazio nel nostro cuore e tradursi in intervento concreto. Secondo: la buona reputazione che il centurione, romano e pagano, aveva presso gli anziani di Cafarnao ci testimonia che quell’uomo aveva saputo «instaurare rapporti di fraternità, di aiuto vicendevole» al di là delle differenze di etnia e di religione. Fra loro si era dunque creata una situazione di autentica apertura, che è disposizione d’animo ben più elevata della “tolleranza” che tanto va di moda nei discorsi di oggi. Terzo: «nel mondo non siamo soli». E questo è un dato che è bene tenere presente anche in relazione al dolore che noi stessi proviamo in tante circostanze della vita. Non siamo soli, in questo mondo: e, quando soffriamo, è nostro diritto chiedere aiuto alle persone che ci circondano e che sono pronte a farci del bene, anche quando magari non ce lo aspetteremmo.
Raffaela aggiunge poi una notazione preziosa per i credenti, troppo spesso attratti da luoghi considerati miracolosi e che altro non sono che una triste industria dell’illusione. Agli occhi di Dio, chi è degno di ricevere un miracolo? Tutti e nessuno, risponde Raffaela. Nessuno, perché nessuno può vantare meriti tali da indurre il Signore del mondo a forzare il proprio agire. E nello stesso tempo tutti, perché Dio desidera che viviamo in pienezza e le nostre lacrime lo muovono a venirci in aiuto. Per il credente non si tratta dunque di pretendere guarigioni “inspiegabili”, ma di affidarsi con fiducia all’amore del Padre sapendo che il suo primo sostegno è la forza dello Spirito Santo, che ci aiuta ad affrontare ogni situazione difficile senza smettere di amare e di accettare di essere amati. Sta in questa reciprocità il primo e più importante miracolo, che può trasformare la nostra vita e la vita delle persone che ci sono vicine.
Siamo a Cafarnao. Gesù ha da poco chiamato i dodici, ha proclamato ai discepoli le beatitudini e consegnato loro i fondamenti del loro agire: amare i nemici, essere misericordiosi, non giudicare. Gesù ascolta e vede. Ci troviamo di fronte a un miracolo operato solo in base all’ascolto, addirittura un ascolto mediato da altre persone che riportano a Gesù la richiesta del centurione. Gesù ascolta il dolore e interviene, compie un miracolo a distanza. Il tema dell’ascolto è molto presente nel contesto di questa pericope: Gesù alla fine del capitolo precedente ha ricordato la necessità di ascoltare e mettere in pratica (cf. Lc 6,47-49) e all’inizio della nostra pericope si dice che tutto il popolo stava in ascolto di Gesù. Anche Gesù ascolta. Al nostro testo segue la resurrezione del figlio della vedova di Nain: qui Gesù vede, non c’è nessuna parola o richiesta. Gesù vede il dolore e interviene.
Il nostro testo ha un parallelo nel vangelo di Matteo (cf. Mt 8,5-13), dove tuttavia il centurione si presenta di persona e parla direttamente a Gesù, esprimendo la sua indegnità di accogliere il Signore in casa sua. In Luca 7,4 gli anziani dei giudei inviati a Gesù dicono: «Egli merita (è degno) che tu gli conceda…» e al v. 7 il centurione fa dire a Gesù, tramite i suoi amici inviati: «Io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te». Chi è degno di ricevere un miracolo?
Tutti e nessuno, potremmo rispondere. Nessuno, perché con le nostre azioni non possiamo assicurarci alcun potere sull’agire di Dio. Tutti, perché il dolore – qualsiasi dolore segnato dal potere della morte – costituisce una contraddizione al desiderio di vita che Dio ha per noi e lo spinge a intervenire. Perciò ciascun figlio di Adamo può avere la fiducia che il suo dolore sale direttamente davanti a Dio, è un grido che il Signore non può ignorare.
In questo testo assistiamo a un intervento corale: il centurione invia alcuni anziani dei giudei e poi alcuni amici come suoi portavoce presso Gesù. I primi intercedono descrivendolo come un uomo buono, che ama il popolo, che si è comportato come un amico. Quest’uomo pagano ha saputo instaurare rapporti di fraternità, di aiuto vicendevole. Ora i suoi amici intervengono a suo favore, si fanno carico della sua pena. In un altro episodio troviamo qualcosa di simile: gli uomini che calano il paralitico dal tetto davanti a Gesù perché lo guarisca, con la loro fede sollecitano il miracolo (cf. Lc 5,18-26 e par.). Nel mondo non siamo soli. Ci è possibile sperimentare l’aiuto reciproco. Tale aiuto e la cura l’uno dell’altro sono anche il fondamento della comunità cristiana.
«Pregate gli uni per gli altri», ammonisce l’apostolo Giacomo (cf. Gc 5,16), e Luca più volte presenta la preghiera comune come un ideale (cf. At 1,14; 12,5). La preghiera gli uni per gli altri, questa disposizione amichevole del cuore che ci spinge a intercedere per chi è nel bisogno, che ci spinge a vedere il dolore dei nostri fratelli e sorelle in umanità è un dono dello Spirito e insieme un frutto dell’esercizio costante nel ricevere la vita come un dono e nel discernere la fraternità come una responsabilità.