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Gesù Cristo, medico del corpo e dello spirito – Seconda parte

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01/02/2012

Tratto da:
Enzo Bianchi, Miracoli: il tocco di Dio che cambia la vita, Avvenire, 11 dicembre 2011

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Prosegue la pubblicazione dell’articolo di Enzo Bianchi sulla figura di Gesù medico. Nella prima parte abbiamo visto come egli, in quanto uomo, abbia appreso l’arte della compassione dall’incontro concreto con i sofferenti, dimostrandoci che solo accettando di accogliere il dolore degli altri possiamo far crescere in noi un’autentica capacità di aiuto. Abbiamo inoltre sottolineato come abbia sempre lottato contro il male e la malattia, senza mai esortare i suoi interlocutori ad atteggiamenti fatalistici, di “offerta” delle sofferenze a Dio: ciò che dà senso alla nostra vita non è mai il dolore in sé, ma l’amore che doniamo e che accettiamo di ricevere in ogni circostanza, e quindi anche nei momenti più drammatici della vita.
In questa seconda parte, Bianchi sviluppa altre tre osservazioni fondamentali. Gesù, innanzitutto, non guarisce mai senza condividere la sofferenza degli ammalati. Egli sa sempre provare un’autentica compassione per loro, che lo porta a curarli senza risparmiarsi, rischiando in prima persona e sfidando persino gli interdetti religiosi del tempo. In secondo luogo, la compassione di Gesù non è mai commiserazione, ma autentica capacità di «lasciarsi ferire dalla sofferenza dell’altro», «rifiuto radicale dell’indifferenza al male»: un’attitudine ben rappresentata dal verbo greco “splagchnízomai” (provo compassione), che deriva dal sostantivo “splágchna”, viscere, a indicare un’adesione che sconvolge nel profondo. Gesù, infine, guarisce ascoltando il malato e coinvolgendolo in modo sostanziale nel processo di cura, facendo sempre «appello alle risorse interiori della persona» e destando così «la sua capacità di fiducia e affidamento, la sua volontà di vita e di relazione».
Da tutto ciò si può concludere come l’esempio di Cristo abbia un valore che va al di là delle appartenenze religiose, e possa essere assunto, su un piano antropologico prima ancora che bioetico, come modello ideale di ogni autentico atteggiamento di cura.
2. Gesù vive la com-passione
Gesù si coinvolge profondamente con la situazione personale dei malati: la loro sofferenza viene patita da Gesù stesso, che prova com-passione per loro (cf. per esempio Marco 1,41; 6,34), entra cioè in un movimento di con-sofferenza che lo coinvolge anche emotivamente. Gesù si lascia ferire dalla sofferenza degli altri, si fa prossimo al malato anche quando le precauzioni igieniche (paura di contagio) e le convenzioni religiose (timore di contrarre impurità rituale) suggerirebbero di porre una distanza tra sé e lui: è il caso dei lebbrosi, che Gesù non solo incontra strappandoli dall’isolamento e dalla solitudine a cui erano costretti, ma addirittura tocca. Gesù non guarisce senza condividere! In tal modo egli mostra che ciò che contamina non è il contatto con chi è ritenuto impuro, ma il rifiuto della misericordia, della prossimità al malato; insegna che non c’è sporcizia più grande di chi non vuole sporcarsi le mani con gli altri; svela che la comunione con Dio passa attraverso la misericordia e la compromissione con il sofferente. È vivendo in questo modo la compassione che Gesù ha narrato il «Dio misericordioso e compassionevole» (Esodo 34,6).
Anche in questo caso occorre però intendersi sulle parole. Quella vissuta da Gesù e da lui richiesta ai suoi discepoli non è la compassione nel senso di commiserazione, che è giustamente rifiutata dal sofferente come un’offesa e una lesione alla sua umanità. No, la compassione, biblicamente intesa, è il lasciarsi ferire dalla sofferenza dell’altro, è il com-patire con chi ci è accanto, è il rifiuto radicale dell’indifferenza al male. Questo senza alcun protagonismo, senza alcuna insistenza posta sul proprio «fare la carità»: è significativo a tale proposito che il verbo greco utilizzato per narrare l’atteggiamento di Gesù e del Padre da lui descritto nelle parabole (splagchnízein) indichi letteralmente «l’essere preso da, l’essere mosso a viscerale compassione», ovvero il reagire a stimoli provenienti dall’esterno. «Vedere ed essere mosso a viscerale compassione»: ecco ciò che spinge il buon samaritano, figura di Gesù, a farsi prossimo all’uomo lasciato mezzo morto dai briganti sul ciglio della strada (cf. Luca 10,33); ecco ciò che spinge il Padre prodigo d’amore a correre incontro al figlio peccatore quando quest’ultimo è ancora lontano (cf. Luca 15,20).

3. L’arte della relazione di Gesù: l’ascolto, il dialogo, la fede-fiducia
Una volta che Gesù si è fatto prossimo a persone toccate da situazioni di malattia, la cura che egli manifesta loro si esprime innanzitutto nel dare loro la parola, nel domandare la loro volontà, nel far emergere il loro desiderio.
Gesù si pone in ascolto, entra in dialogo ponendo domande, relazionandosi cioè al malato come a un essere simbolico e di linguaggio, una persona guidata da una intenzionalità, che è la capacità umana di attribuire senso alla vita. Al cieco Bartimeo domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Marco 10,51); accoglie la volontà del lebbroso e la fa sua riprendendo alla lettera le sue parole («Se vuoi, puoi purificarmi!»; «Lo voglio, sii purificato!»: Marco 1,40-41); di fronte all’uomo paralizzato non vede un paralitico, ma un essere con bisogni spirituali a cui egli risponde annunciando il perdono di Dio (cf. Marco 2,1-12). Le guarigioni avvengono sempre in un contesto dialogico e relazionale. Gesù si apre alla libertà della persona che ha davanti e, quando il malato è impossibilitato a esprimersi, egli si rivolge ai famigliari o a coloro che sono legati al malato da un rapporto d’amore. Gesù ascolta la loro sofferenza, il loro desiderio, la loro volontà: è così con la madre della bambina tormentata dal demonio (cf. Marco 7,24-30), con il padre del ragazzo epilettico (cf. Marco 9,14-27), con il centurione che lo supplica per la guarigione del suo servo (cf. Matteo 8,5-13).
Nei suoi incontri con i malati Gesù fa sempre appello alle risorse interiori della persona che ha di fronte: e così la guarigione, quando si verifica, avviene sempre in un quadro relazionale in cui Gesù desta e fa sorgere la fede della persona, cioè la sua capacità di fiducia e affidamento, la sua volontà di vita e di relazione. Si può pensare, ancora una volta, alla prassi con cui Gesù avvicina e cura i lebbrosi, veri paria della società del suo tempo, marchiati a fuoco da uno stigma che li escludeva dalla famiglia e dai rapporti affettivi e sessuali, dalla vita sociale, dalla comunità religiosa e dalla pratica cultuale. Nei rapporti con i lebbrosi Gesù mette in atto un atteggiamento socievole che lo porta a incontrare chi era relegato fuori dai centri abitati, a toccare gli “intoccabili”, a considerare persone quelli che, agli occhi di tutti, erano colpiti da maledizione e dal castigo divino, a intrattenere relazioni con chi era condannato all’isolamento (cf. Marco 1,40-45; Matteo 8,1-4; Luca 5,12-18). Oppure, si pensi all’incontro di Gesù con il cosiddetto «indemoniato di Gerasa» (cf. Mc 5,1-20). Nei suoi confronti Gesù attua un paziente ascolto, intrattiene un dialogo, cerca un incontro personale e così gli trasmette fiducia e autostima. Grazie alla relazione, colui che prima era violento, autolesionista, incurante di sé, nudo, muta a tal punto che alla fine lo si può vedere «seduto, vestito e sano di mente» (Marco 5,15). A quest’uomo Gesù offre anche un’indicazione di futuro, restituendolo a se stesso, al suo ambiente famigliare e sociale e consegnandogli un compito da realizzare: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te» (Marco 5,19).
In sintesi, se è vero che «la fede nasce dall’ascolto» (Romani 10,17), Gesù ha mostrato la verità di questa affermazione a livello antropologico: con la sua pratica di umanità è stato capace di risvegliare l’umanità dei malati, ascoltandoli, ponendo in loro fiducia e valorizzando la loro fiducia. Ecco perché, quando restituiva alla vita in pienezza le persone malate, le congedava confessando, quasi con stupita gratitudine: «La tua fede ti ha salvato» (Marco 5,34 e passi paralleli; 10,52; Luca 7,50; 17,19; 18,42).

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele) e Ostuni (Brindisi).
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2008 è stato invitato, in qualità di “esperto”, alla XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.

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