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Il pane condiviso, elemento di relazione e di giustizia

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17/12/2014

Tratto da:
Enzo Bianchi, La giustizia del pane spezzato con gli altri, La Repubblica, 29 novembre 2014

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Il pane è sempre “nostro”, non è mai “mio”. Questa frase semplice e densa riassume tutto il pensiero di Enzo Bianchi, priore di Bose, intorno all’alimentazione, alla sua necessità per la sopravvivenza, alle istanze di giustizia che ne devono accompagnare la produzione e la condivisione. Un tema a prima vista estraneo allo spirito di questa rubrica, e invece coerente per due motivi: primo, perché molte sofferenze che si vivono all’interno delle nostre famiglie derivano proprio dall’incapacità di condividere ciò che siamo e ciò che abbiamo; secondo, perché una buona parte del male e del dolore che affliggono il mondo deriva proprio dalla fame, presenza scandalosa in un mondo in cui il concetto di “condivisione” regola gli aspetti tecnologici della comunicazione (tutto si condivide sui social media), ma non quelli ben più cruciali del cibo necessario per vivere (e il discorso si potrebbe estendere alla casa, alle cure mediche, all’istruzione). Ne parliamo, dunque, con l’augurio che le imminenti feste di Natale siano occasione per tutti noi di condividere il calore della nostra esistenza con chi non ha nulla e nessuno vicino a sé.
Dalla riflessione di Bianchi emerge come il cibo non sia mai “semplice carburante”, da ingurgitare «senza consapevolezza, in una frettolosa solitudine, senza parole, gesti, silenzi ricchi di senso»; ma evento culturale e antropologico, mezzo e occasione per uno stare insieme e per capire che «ciò che ci fa vivere è il rapporto con l’altro, il dare e il ricevere il cibo, non il semplice appropriarsene e consumarlo». Il pane come relazione, dunque; e i disturbi dell’alimentazione come metafora delle patologie relazionali che segnano la vita di molti: la bulimia di chi, «nel trarre nutrimento dall’altro, lo divora, lo consuma, ne nega l’alterità, ne cancella i diritti e la dignità»; e l’anoressia di chi «rifiuta di considerare l’altro come alimento ed elemento vitale per la propria esistenza» e «si rinchiude nell’autosufficienza, ignorando il sapore dello scambio».
Nella seconda parte dell’articolo, Bianchi illustra i principi di giustizia che dovrebbero accompagnare la produzione e la distribuzione del cibo. Una giustizia che dovrebbe indurci innanzitutto a combattere gli sprechi e gli eccessi, stabilendo una “misura” nel nostro consumo; e poi a operare attivamente, ognuno secondo le proprie possibilità e nel proprio ambito, perché l’obbrobrio della denutrizione possa davvero essere vinto per sempre. La responsabilità è di tutti, avverte Bianchi: dei laici (ed è sottinteso), ma anche dei credenti, che pure nel “Padre nostro” chiedono il pane a Dio: perché «quando il credente chiede a Dio di realizzare qualcosa, in realtà contestualmente si impegna davanti a Dio a contribuire a tale realizzazione».
Affermare che “il cibo siamo noi” suggerisce due approfondimenti complementari. Da un lato significa che se noi, come ogni essere animale, “siamo quello che mangiamo”, in quanto umani “siamo” però anche “come mangiamo”: la cura con cui ci procuriamo e cuciniamo il cibo e le modalità in cui lo consumiamo costituiscono parte integrante del nostro nutrimento e ne influenzano il conseguente metabolismo. Pensare e vivere il cibo come alimento condiviso significa comprendere in profondità che ciò che ci fa vivere è il rapporto con l’altro, il dare e il ricevere il cibo, non il semplice appropriarsene e consumarlo. Oggi più che mai abbiamo consapevolezza della dimensione globale legata alla condivisione o all’accaparramento degli alimenti: ne conseguono istanze di giustizia e di solidarietà, a cominciare dall’indispensabile rispetto per tutti gli uomini e le donne che lavorano nella filiera alimentare primaria e per i loro diritti inalienabili. Quanti coltivano, raccolgono, trasformano e cucinano gli alimenti che ogni giorno arrivano sulla nostra tavola non sono e non devono essere estranei: sono infatti il “prossimo” che rende il cibo “vicino” a noi, alla nostra portata. Per questo il momento dell’assunzione del cibo dovrebbe sempre rivestire un carattere culturale, essere accompagnato da un ringraziamento per quanto ricevuto e da una concreta condivisione della gioia del pasto. Non è vero nutrimento ciò che viene ingurgitato come semplice carburante, senza consapevolezza, in una frettolosa solitudine, senza parole, gesti, silenzi ricchi di senso.
D’altro lato, se “il cibo siamo noi”, allora ognuno è anche alimento dell’altro, lo nutre, lo fa vivere: è la prima esperienza che ciascuno di noi compie e fa compiere appena nato. Se per il poppante il corpo della madre è il cibo, per la madre la fame del bambino, il suo corpicino che cresce è alimento ed energia vitale. Ma divenendo adulti, anche il reciproco legame vitale che unisce tra loro gli esseri umani conosce le patologie comunemente legate all’alimentazione: la bulimia e l’anoressia. Bulimia di chi, nel trarre nutrimento dall’altro, lo divora, lo consuma, ne nega l’alterità, ne cancella i diritti e la dignità, lo “assimila” senza rispettarne l’identità. Anoressia di chi rifiuta di considerare l’altro come alimento ed elemento vitale per la propria esistenza, di chi deliberatamente riduce al minimo o addirittura azzera completamente l’assunzione del “cibo” che l’altro è per lui, si rinchiude nell’autosufficienza ignorando il sapore dello scambio, la sapidità della provocazione da parte del diverso, il gusto dello stare insieme.
Le testimonianze di quanti hanno vissuto nei campi di concentramento o di prigionia ci ricordano come, in tempi di dura carestia, lo scarsissimo cibo mangiato dall’uno era un sottrarre all’altro – anche senza furto – il minimo vitale e condannarlo a morte. Oggi, nei nostri paesi dell’abbondanza viviamo un paradossale capovolgimento: noi sottraiamo a quanti patiscono la fame – vicini o lontani da noi – non il cibo che mangiamo, bensì quello che sprechiamo. Li condanniamo a morte non perché, attanagliati dall’istinto di sopravvivenza, mangiamo noi soli il cibo destinato anche a loro, ma perché buttiamo via quanto ci è superfluo e potrebbe sfamarli. Ecco allora l’attualità della parafrasi del Padre nostro: come in ogni autentica invocazione, quando il credente chiede a Dio di realizzare qualcosa, in realtà contestualmente si impegna davanti a Dio a contribuire a tale realizzazione. Quindi “Da’ a loro il nostro pane quotidiano” significa “mi impegno a dare a chi è nel bisogno il mio pane quotidiano”, quel pane di cui non conosco più il sapore di condivisione che lo lega al “com-pagno”, al mio fratello e alla mia sorella in umanità, quel “Pane” che i prigionieri di guerra scrivevano con la lettera maiuscola nelle loro drammatiche missive ai familiari, quel pane che noi quotidianamente e colpevolmente gettiamo ogni giorno a quintali in discarica.
L’espressione “pane quotidiano” o, meglio ancora, “pane di ogni giorno”, contiene anche l’idea della “misura”: mensura cibi, come recitano le regole monastiche. Sì, c’è una quantità stabilita e limitata di pane da mangiare, proprio perché lo si possa spezzare e condividere così che tutti ne abbiano. Oggi, in tempo di opulenza, non siamo più sensibili alla “misura”, se non per ragioni dietetiche; ma in tempo e in luoghi di miseria a troppi poveri manca la possibilità di avere la “misura” necessaria di cibo. Capiamo allora perché il pane è sempre “nostro”, non è mai “mio”. Ora, se è “nostro” è anche “loro”, perché appartiene a tutti: alla tavola del mondo tutti sono convocati per mangiare e bere insieme. Mai senza l’altro a tavola, perché essa è la vita, è convivio, luogo del con-vivere.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani.
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