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"Beati i poveri in spirito": meditazione su Matteo 5,3

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15/07/2015

Tratto da: Enzo Bianchi, Beati i poveri in spirito, Avvenire, 27 giugno 2015

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

In questa nitida e densa riflessione, Enzo Bianchi – priore della comunità monastica di Bose – medita sul significato di uno dei passi meno compresi del vangelo: quello in cui Cristo, nel contesto del cosiddetto “discorso della montagna”, definisce “beati” i poveri, perché di essi è il regno di cieli, ossia il regno di Dio.
E’ beata la miseria, la mancanza dei mezzi necessari per vivere dignitosamente? Dio ripagherà il misero dandogli un posto di privilegio nel “regno” che seguirà alla fine del mondo? Prese alla lettera, non inquadrate nel più generale messaggio evangelico, queste affermazioni possono condurre a una conclusione paradossale: che chi è povero in questa vita debba consolarsi perché “dopo” le sue sofferenze saranno in qualche modo vendicate; e che a questo mondo possa seguire un assetto politico nuovo, ma altrettanto immanente, in cui le posizioni sociali di oggi saranno capovolte.
Non è certamente questo il significato delle parole di Cristo, se non altro perché altrove egli comanda ai suoi discepoli di avere cura del povero, e di soccorrerlo nelle sue esigenze: al punto che, alla fine dei tempi, saremo giudicati sull’amore che avremo avuto o non avuto per gli altri, e sull’aiuto concreto che avremo prestato loro. Dunque, la povertà non è un valore in sé, anche perché la si può vivere con astio e brama di rivalsa, uno stile lontano da quello di Cristo.
Essere poveri – e di conseguenza beati – vuol dire invece tre cose:
- sul piano materiale, significa non trattenere egoisticamente ciò che si ha, ma condividerlo con gli altri: ciò vale per il denaro, per i beni terreni, ma anche per i talenti dell’intelligenza e la cultura, che possono essere custoditi con orgoglio, creando distanza dai semplici, o messi a disposizione di tutti, perché la vita di tutti divenga migliore;
- sul piano caratteriale, significa sconfessare ogni arrogante autosufficienza, rinunciare a vivere senza o contro gli altri, combattere la tentazione dell’egoismo e dell’isolamento sdegnoso, e accettare di far parte di un’umanità di fratelli e sorelle in cammino, ciascuno con talenti diversi e tutti ugualmente “poveri” di fronte al mistero di quella vita alla quale nessuno può aggiungere, per quanto si dia da fare, nemmeno un’ora (cfr. Mt 6,27);
- sul piano esistenziale, significa lasciare che Dio regni incontrastato sopra la nostra vita: non il denaro, non il successo, non il potere, ma solo Dio. E’ questo il vero significato della frase «perché di essi è il regno dei cieli»: non una rivincita in un altrove al di là del tempo, ma una concreta situazione del qui e dell’oggi, in cui si consenta alla volontà di Dio di essere la sola bussola capace di orientare le scelte della vita.
Alle luce di queste considerazioni, capiamo che un povero colmo di rancore può non essere beato e che, al contrario, un ricco che condivida le sue sostanze con il prossimo può partecipare dell’amore e della libertà di Dio. E capiamo anche che la beatitudine della povertà può essere reale e concreta anche per chi non crede, nella misura in cui fa della solidarietà con gli altri un principio cardine della propria esistenza.
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). Aprendo con queste parole il discorso della montagna, Gesù si ricollega intenzionalmente ai “poveri del Signore” della tradizione biblica, gli ‘anawim, i “curvati”, quel “resto di Israele” umile e povero che confidava solo nel Signore Dio (cf. Sof 3,12). Questo abbandono fiducioso in Dio si era progressivamente focalizzato nell’attesa della venuta redentrice del Messia, l’Inviato definitivo di Dio, il Cristo: in tale contesto appare Gesù fin dalla sua nascita, come testimonia il vangelo dell’infanzia secondo Luca (cf. Lc 1-2). E in Maria la speranza dei “poveri in spirito” di tutto Israele trova il suo compimento: l’umile figlia di Sion ne è consapevole quando scioglie il canto del Magnificat, rivolgendosi a Dio che “ha rivolto lo sguardo alla bassezza e all’umiliazione della sua serva” (Lc 1,48).
Per il profeta e rabbi di Nazareth, questi poveri erano i primi destinatari del Vangelo, della buona notizia del regno di Dio che egli annunciava (cf. Mt 11,5-6; Lc 4,18): venuto per narrare a ogni essere umano il volto di Dio (cf. Gv 1,18), Gesù ha vissuto quale “mite e umile di cuore” (Mt 11,29) e ha testimoniato il regno dei cieli vivendo in prima persona un’esistenza colma di senso. Egli, infatti, aveva una ragione per la quale valeva la pena spendere la vita, fino alla morte: la libera scelta di amare tutti gli uomini suoi fratelli, persino i nemici. Non a caso, nel discorso della montagna la prima e l’ultima beatitudine – «Beati i perseguitati per la giustizia» – si richiamano nell’identica motivazione: «perché di essi è – non “sarà” – il regno dei cieli» (Mt 5,3.10). Abbandono in Dio e difesa del debole sono gli spazi autentici in cui “Dio regna” già ora, non in un futuro di là da venire.
Qui occorre però fare una precisazione decisiva, al fine di sgombrare il campo da un diffuso equivoco. La povertà vissuta e annunciata da Gesù – lui che è l’uomo delle beatitudini – non è un mancare di tutto (non si troverebbe mai il fondo!), non è miseria o indigenza, ma è una rinuncia a possedere per sé: ciò che si ha e si è va sempre condiviso con gli altri; ciò che si ha e si è non va considerato come un privilegio, come un titolo di successo o di potere, ma occorre condividerlo, senza trattenerlo per sé… Non lo si ripeterà mai abbastanza: il vero nome della povertà vissuta da Gesù Cristo, e dunque della povertà cristiana, è condivisione. Per questo il discepolo abbandona casa e campi per seguire Gesù, abbandona anche la sicurezza della famiglia per stare con lui (cf. Mc 10,29 e par.); egli condivide con i poveri ciò che possiede, perché sa che il giudizio incombe e che nel giudizio Dio si mostra come vendicatore dei poveri, come colui che rende loro giustizia.
E la croce come esito di una vita vissuta nella giustizia rivela la povertà vera di Gesù: nessuno a difenderlo, nessuno a sostenerlo, come un uomo che non conta nulla per il potere e per la gente, un uomo solo e povero come il Servo sofferente di Isaia, come il giusto povero che nei Salmi può unicamente gridare a Dio, affidandogli tutta la propria vita! Non la tomba offertagli da un ricco notabile (cf. Mt 27,57), non gli inviti ricevuti da uomini ricchi, non i banchetti con i peccatori manifesti hanno ferito la sua povertà o l’hanno contraddetta. Sì, Gesù è stato “il povero del Signore”, dalla nascita fino alla morte: è stato libero come può esserlo solo chi è povero nel cuore; è stato capace di accogliere le umiliazioni, sottomettendosi per amore a tutti coloro che incontrava, senza rispondere alla violenza con la violenza, ma continuando sempre a vivere nell’autentica, profonda povertà.
In questa sua prassi di vita Gesù ha saputo ascoltare il grido del povero concreto, davanti al quale si è invece tentati di distogliere lo sguardo. Così facendo, ha tracciato per noi un cammino preciso: dopo di lui, il povero che manca del necessario per vivere con dignità è “sacramento” di Cristo, perché con lui Gesù ha voluto identificarsi nel discorso sul giudizio finale (cf. Mt 25,31-46), ma è nello stesso tempo “segno” dell’ingiustizia che vige nel mondo, del venir meno degli umani al comandamento dell’amore per il prossimo. Gesù ci ha insegnato una volta per tutte – se vogliamo ascoltarlo… – che il giudizio alla fine della storia in realtà si consuma nella nostra vita ogni giorno, oggi! Allora ci sarà solo l’epifania di ciò che abbiamo fatto o non fatto nella nostra vita quotidiana: conosceremo che aver dato da mangiare a un affamato e da bere a un assetato, accolto uno straniero, vestito un ignudo, avuto cura di malato, visitato un carcerato, è aver fatto ciò che il Signore desidera. Anzi, è averlo fatto a lui: ciò che abbiamo fatto o non fatto a un essere umano come noi, l’abbiamo fatto o non fatto a Cristo! In quel giorno vedremo i volti dei poveri e dei bisognosi nel volto di Cristo che ci chiama al Regno o ci esclude da esso: ma siamo stati noi, qui e ora, nella nostra vita quotidiana, a decidere il nostro destino ultimo, il nostro esito eterno.
Ilario di Poitiers affermava che “gli umili in spirito sono coloro che si ricordano di essere umani” e un autore moderno gli fa eco parlando di un atteggiamento di “radicale desistenza”, ovvero della sconfessione pratica di ogni arrogante sufficienza, di ogni pretesa di dominare e prevalere sull’altro, di ogni egoistico possesso materiale o spirituale. Solo attraverso l’assunzione della semplicità e la disponibilità a rendere ogni giorno povero il nostro cuore, “sulle tracce di Cristo” (cf. 1Pt 2,21), giungeremo alla comunione fraterna: è così che nostro “è il regno di Dio” perché Dio regna nelle nostre vite; è così che si può sperimentare già qui e ora, immersi nel duro mestiere di vivere, la beatitudine dei poveri in spirito, concessa a chi si esercita a fare della propria esistenza un capolavoro di amore.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani.
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