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Papà Cervi e i suoi sette figli

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23/03/2011

Tratto da:
Enzo Biagi, Testimone del tempo, Società Editrice Internazionale, Torino, 1970, p. 87-89

Guida alla lettura

In questo brano, tratto da “Testimone del tempo”, Enzo Biagi narra la vicenda di Alcide Cervi e dei suoi sette figli fucilati il 28 dicembre 1943, a Reggio Emilia, per aver preso parte alla lotta partigiana.
Al di là dell’interesse storico del racconto, e degli eventi atroci che descrive, ciò che maggiormente colpisce la nostra coscienza – e ci insegna qualcosa di importante riguardo alla vita, al dolore e alla responsabilità – è la personalità dei protagonisti: i figli, il padre, le donne di casa.
I figli, cresciuti in un contesto contadino per molti aspetti ancora arretrato, hanno imparato «a leggere e a ragionare, a dare una mano a chi ha bisogno, a non tollerare l’arbitrio e il sopruso». Non basta coltivare l’intelligenza e il sapere: sono necessari anche il pensiero indipendente, il senso di solidarietà e la capacità di indignazione, di quella collera “secondo Dio” che fu anche di Cristo in tanti momenti della sua esistenza.
Il padre, nella sua semplicità, accosta le barricate della rivoluzione e la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Ma nel momento decisivo dell’assedio alla cascina, quando i fascisti stanno per prevalere e la strage indiscriminata sembra ormai imminente, avrà lo straordinario coraggio di fermare la sparatoria, esortando a salvare i bambini: «Alziamo le mani, tocca a noi pagare». Questo stesso uomo, dopo la morte dei figli, riprenderà con fermezza il timone della casa e custodirà sino all’ultimo la memoria degli affetti perduti. Ma senza risentimenti e senza rancore, «perché dopo un raccolto ne viene un altro».
Le donne della casa rimangono solo in apparenza sullo sfondo degli eventi. La moglie Genoveffa morirà di crepacuore un anno dopo l’eccidio, ma al ritorno del marito pronuncia parole ferme e pacate, degne delle grandi figure femminili cantate dalla tragedia greca: «L’ho sognato, e adesso lo so, che i nostri sette figli non torneranno». Le nuore hanno il volto livido e disperato, ma sapranno trovare forza e determinazione quando il vecchio patriarca le esorterà a rimanere unite e ridarà loro una ragione di vita assegnando i compiti semplici ed essenziali di sempre: riempire le greppie, tirar su l’acqua dal pozzo, riscaldare il forno. E Lucia, la ragazza che Aldo amava e alla quale un giorno sussurrò «che non ci sarebbe stato un lungo domani», con la sua apparizione fuggevole, quasi di sogno, ci parla del dolore delle donne cui la guerra porta via le speranze della giovinezza.
Solo dopo la fine del conflitto Alcide Cervi potè far celebrare un funerale solenne per i suoi figli. In seguito gli venne consegnata una medaglia che rappresentava un tronco di quercia: fra i rami spezzati, brillavano le sette stelle dell’Orsa Maggiore. Disse in quell’occasione: «Mi hanno sempre detto: tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, ma la quercia non è morta. La figura è bella e qualche volta piango. Ma guardate il seme, perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo». Papà Cervi morì il 27 marzo 1970, a 95 anni.
Raccontava ai nipoti storie contadine. Di suo padre bracciante analfabeta, che era andato in piazza a gridare contro la tassa sul macinato, e i carabinieri lo avevano condotto in prigione.
Di Aldo, il più svelto dei suoi figlioli, che leggeva anche Gorkij e Victor Hugo, ed era abbonato alle riviste di agricoltura, e così spesso pensò che bisognava livellare il campo, perché l’acqua non stagnasse, e ogni biolca di terra diede infatti più erba medica.
Del primo trattore che erano riusciti a comperare, e del pozzo che scavarono, della sua giovinezza lontana: i ragazzi dormivano nei sacchi, sulla paglia umida delle stalle, le donne portavano al mercato le uova in cambio del cartoccio di sale, a scuola andavano in pochi; per San Martino, sulle strade nebbiose, c’erano i carri delle famiglie che traslocavano da un podere all’altro, in cerca di un po’ di fortuna.
Quando fu ricevuto dal Presidente della Repubblica, indossava il vestito della festa, e sulla giacca aveva appuntate sette medaglie d’oro, ma con Luigi Einaudi parlò di scassi e di barbatelle, della vite americana che si presta bene agli innesti.
Ai figli aveva raccomandato sempre di stare uniti, in qualunque momento, di avere rispetto di sé, di non sopportare la prepotenza. Sui banchi della dottrina aveva imparato la morale cristiana, e nei comizi della domenica, ascoltando Camillo Prampolini, la lezione della libertà. Mescolava, nei suoi semplici ragionamenti, Gesù e Carlo Marx, le barricate davanti al Palazzo d’Inverno e la moltiplicazione dei pani e dei pesci per gli affamati, i soviet dei soldati e degli operai e le Tavole della Legge.
Nella sua camera da letto, una volta, c’era il ritratto di Togliatti e quello di Papa Giovanni, il Crocifisso, e sul comodino una copia dell’Unità e un libro dal dorso consumato, i Vangeli.
«Chi non lavora non mangia», dicevano i predicatori laici durante le prime adunate, all’inizio del Novecento, ed erano in pieno accordo con San Paolo, e lo spirito anarchico degli emiliani si accendeva coi discorsi dei capi delle cooperative e delle leghe che parlavano, a quella gente raccolta sugli argini, di «umana redenzione».
Non gli piaceva il fascismo, vide incendiare le Camere del Lavoro; vide gli scioperi selvaggi, non gli piaceva la violenza, ed Ettore, Ovidio, Agostino, Ferdinando, Aldo, Antenore e Gelindo crebbero col senso della solidarietà e della rivolta, impararono a leggere e a ragionare, a dare una mano a chi aveva bisogno, a non tollerare l’arbitrio e il sopruso. Furono dei ribelli.
Quando venne l’8 settembre, nel cascinale di Campegine trovarono rifugio gli ufficiali alleati che scappavano dai campi dei prigionieri, e Aldo, che aveva la politica nel sangue, prese contatto con i partigiani, e i fratelli e il vecchio Alcide furono d’accordo con lui. Dio non poteva permettere che i tedeschi e le brigate nere deportassero gli uomini e sequestrassero le bestie. Alcide e i suoi sette figli sapevano chi erano gli sfruttati e gli oppressori, e quando venne l’attacco presero i fucili, e da ogni finestra della casa colonica cominciarono a sparare, e le mogli caricavano le armi e pregavano, e spararono fino all’ultimo, poi papà Cervi disse: «Bisogna salvare i bambini, alziamo le mani, tocca a noi pagare».
E così, in una notte di pioggia di novembre, uscirono sull’aia, nell’aria fredda della Bassa Reggiana, e li caricarono sul camion per portarli via, ed Ettore, Ovidio, Agostino, Ferdinando, Aldo, Antenore e Gelindo furono poi condannati alla fucilazione. Il primo aveva quarantadue anni, il più giovane ventidue.
Li condussero al tiro a segno, e nelle ore che precedettero l’esecuzione non vollero dormire. Uno disse: «Andiamo verso il sonno eterno. Ci sarà tempo per riposare». E un altro: «Voglio togliermi il maglione di lana bianca. È un peccato rovinarlo con le pallottole, a qualcuno servirà ancora».
Alcide Cervi fu rilasciato, tornò al suo podere, e la moglie gli disse: «L’ho sognato, e adesso lo so, che i nostri sette figli non torneranno». E lui chiamò le nuore e i figli dei figli e disse: «Nei momenti difficili bisogna darsi la mano, ed essere uniti».
La casa era stata bruciata, nelle stalle muggivano gli animali, le facce delle donne dei Cervi, dei bambini dei Cervi, erano livide e disperate, e il vecchio comandò: «Andiamo a riempire le greppie e a tirar su l’acqua dal pozzo. Qualcuno riscaldi il forno».
In cucina, c’era una fotografia che riproduceva tutta la famiglia, lui stava vicino a Genoveffa, la moglie, che portava l’abito da sposa, e gli altri attorno, figli e nuore, tutti con il volto serio, nessuno sorrideva, pareva che sapessero, come disse Aldo a Lucia, la ragazza che amava, che non ci sarebbe stato un lungo domani. Disse infatti Aldo: «Vorrei tanto vivere, tanto amare, ma viene il tempo in cui a ciascuno verrà chiesto il massimo».
Non era passato un anno che Genoveffa Cervi, distrutta dal dolore, se ne andò coi suoi ragazzi, Alcide fu ancora più solo, sedeva in capo al tavolo, e raccontava ai nipoti le storie contadine della famiglia. Era un patriarca dalla memoria lucida, ma senza risentimenti, senza rancore. Lo portavano alle cerimonie, ma il suo posto era nel fondo, in campagna; ogni giorno, ogni muro evocava ombre, pensieri e ricordi. E’ rimasto, fino all’ultimo, la guida della casa, e ha continuato a dire: «Tenete in mente che siamo tutti fratelli, e che l’ingiustizia va combattuta, perché protestava Cristo e protestava Lenin, e non bisogna mai avere paura».
Era sereno perché, come aveva scritto Calamandrei nella lapide murata sulla facciata del cascinale, sapeva che «dopo un raccolto ne viene un altro». L’importante è seminare bene.

Biografia

Enzo Biagi nasce nel 1920 a Pianaccio di Lizzano in Belvedere, in provincia di Bologna. L’idea di diventare giornalista nasce in lui dopo aver letto Martin Eden, di Jack London. Nel 1937 scrive il suo primo articolo, per il quotidiano L’Avvenire d’Italia. Nel 1940 viene assunto dal Carlino Sera, pagina serale del Resto del Carlino, con l’incarico di correggere gli articoli dei reporter.
Nel 1942 viene chiamato alle armi, ma non parte a causa di problemi cardiaci che lo accompagneranno per tutta la vita. L’anno successivo si sposa con Lucia Ghetti, maestra elementare. Poco dopo aderisce alla brigata partigiana “Giustizia e Libertà”.
Terminata la guerra, viene assunto come inviato speciale e critico cinematografico al Resto del Carlino. Nel 1946 segue il Giro d’Italia; nel 1947 parte per l’Inghilterra e racconta il matrimonio della futura regina Elisabetta. È il primo di una lunga serie di viaggi all’estero. Nella sua lunga carriera, scriverà per periodici importanti come Epoca e L’Europeo, e per tutti i principali quotidiani nazionali: La Stampa, Corriere della Sera, La Repubblica.
Nel 1961 diventa direttore del Telegiornale, e l’anno successivo lancia il primo rotocalco della televisione italiana: RT-Rotocalco Televisivo. Nel 1975, collabora con Indro Montanelli alla creazione del Giornale.
Nei primi anni Novanta realizza importanti trasmissioni per la televisione, come Che succede all’Est?, dedicata alla fine del comunismo, e I dieci comandamenti all’italiana (apprezzata anche da Giovanni Paolo II). Segue le vicende di “Mani pulite”, con il Processo al processo su Tangentopoli (1993) e Le inchieste di Enzo Biagi (1993-1994).
Dal 1995 al 2002 conduce Il Fatto, programma di approfondimento sui principali fatti del giorno. Una giuria di critici televisivi voterà la trasmissione come il miglior programma giornalistico mai realizzato dalla Rai. Nell’aprile 2007 torna in ancora in tv con RT Rotocalco Televisivo, che riprende il titolo della sua prima trasmissione. Muore il 6 novembre dello stesso anno, a Milano. E’ ricordato come uno dei giornalisti più capaci, indipendenti e popolari del Ventesimo secolo.
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