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La via della felicità. Riflessione su Luca 19,11-26

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28/11/2018

Liberamente tratto da:
Daniel di Bose, La via della felicità, monasterodibose.it/preghiera/vangelo-del-giorno/12701-la-via-della-feli

Guida alla lettura

In questa riflessione Daniel, monaco di Bose, commenta una nota parabola di Gesù e ne trae un insegnamento originale: mettere a frutto i talenti che Dio, o la natura, ci hanno dato non è questione di fredda contabilità esistenziale, di ossequio a un padrone severo e capriccioso, ma di conquista dell’autentica felicità.
In questo senso il brano si ricollega con singolare puntualità alla puntata dedicata, appena due settimane fa, ad Andrea Marcolongo (“L’essenza della felicità”); alla lirica spoglia e vera di Edgar Lee Masters, che commentammo nel lontano 2012 (“Una barca con vele ammainate”); alla poesia profonda di Eugenio Montale (“Si può esistere non vivendo”), proposta in quello stesso anno. In tutte quelle pagine si narra il dramma di una vita non vissuta, di una vocazione mancata, di doti lasciate appassire in un angolo, come fiori dimenticati. E in tutte emerge il fattore scatenante che determina il fallimento e porta, prima o poi, alla disperazione: la paura.
La paura di mettersi in gioco, di rischiare il tutto per tutto, di prendere il mare con fiducia e determinazione, di essere fedeli a se stessi senza lasciarsi intimorire o deviare dalle pretese degli altri. Quanti giovani non realizzano i propri talenti per assecondare le aspettative della famiglia, mai come in questi casi “gabbia” che impedisce alle ali di spiegarsi e al volo di attraversare le nuvole alla volta del cielo azzurro. E quante volte, per contro, scopriamo che all’inizio di una vita riuscita sta un atto di ribellione lucida e legittima, un dire no a una proposta di vita allettante perché accomodante, ma povera, limitativa, inautentica; oppure un dialogo vero con un padre e una madre amati, che hanno saputo leggere la verità dei figli e li hanno lanciati, senza rimpianti, come frecce verso l’orizzonte. Perché esistono anche famiglie che non sono gabbie, ma archi potenti e generosi.
Lucidità e coraggio: sono le attitudini più importanti che la scuola, i genitori, la società dovrebbero trasmettere ai giovani di oggi e di domani. Lucidità per capire a che cosa si è davvero chiamati; coraggio per realizzare le proprie scelte, anche quando il mare è in tempesta e la terraferma non si intravvede più.
La storia riportata da Luca, simile alla parabola dei talenti di Matteo 25, narra di quei servi cui il padrone ha affidato una moneta d’oro (letteralmente una “mina”, equivalente a ciò che guadagna un operaio agricolo in circa tre mesi) e di ciò che essi ne hanno fatto. Ai fedeli della chiesa che si rallegrano del prossimo ritorno del Signore, Luca ricorda la responsabilità cui li chiama la loro vocazione.
Ci è stato affidato un bene, la mina; che ne facciamo? Non vien detto come i servi hanno fatto fruttare la loro moneta, segno che ciò è lasciato alla nostra libera scelta: conta solo la volontà di far fruttare il dono ricevuto, e quindi il rischiare, con la possibilità anche di perdere il guadagno. Il terzo servo non è rimproverato perché non ha guadagnato nulla, ma perché si è rinchiuso nella paura e non ha rischiato. Dal loro comportamento non deriva una ricompensa o un castigo, ma una situazione esistenziale. Quelli che hanno rischiato sono felici di poter mostrare al loro signore ciò che hanno fatto; il terzo invece appare triste, infelice, senza nulla da mostrare, neanche un fallimento!
Mettere in gioco il dono ricevuto: questa la via della felicità!

Dal brano del Vangelo di Luca

In quel tempo, mentre tutti stavano ad ascoltare, Gesù disse ancora una parabola: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare. Chiamati dieci dei suoi servi, consegnò loro dieci monete d’oro, dicendo: “Fatele fruttare fino al mio ritorno!”. Dopo aver ricevuto il titolo di re, egli ritornò e fece chiamare quei servi a cui aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ciascuno avesse guadagnato. Si presentò il primo e disse: “Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate dieci”. Gli disse: “Bene, servo buono! Poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città”. Poi si presentò il secondo e disse: “Signore, la tua moneta d’oro ne ha fruttate cinque”. Anche a questo disse: “Tu pure sarai a capo di cinque città”. Venne poi anche un altro e disse: “Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; avevo paura di te, che sei un uomo severo…”. Gli rispose: “Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo… perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l’avrei riscosso con gli interessi”. Disse poi ai presenti: “Toglietegli la moneta d’oro e datela a colui che ne ha dieci”. Gli risposero: “Signore, ne ha già dieci!”. “Io vi dico: a chi ha, sarà dato; invece a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”.
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