Guida alla lettura
In questo senso il brano si ricollega con singolare puntualità alla puntata dedicata, appena due settimane fa, ad Andrea Marcolongo (“L’essenza della felicità”); alla lirica spoglia e vera di Edgar Lee Masters, che commentammo nel lontano 2012 (“Una barca con vele ammainate”); alla poesia profonda di Eugenio Montale (“Si può esistere non vivendo”), proposta in quello stesso anno. In tutte quelle pagine si narra il dramma di una vita non vissuta, di una vocazione mancata, di doti lasciate appassire in un angolo, come fiori dimenticati. E in tutte emerge il fattore scatenante che determina il fallimento e porta, prima o poi, alla disperazione: la paura.
La paura di mettersi in gioco, di rischiare il tutto per tutto, di prendere il mare con fiducia e determinazione, di essere fedeli a se stessi senza lasciarsi intimorire o deviare dalle pretese degli altri. Quanti giovani non realizzano i propri talenti per assecondare le aspettative della famiglia, mai come in questi casi “gabbia” che impedisce alle ali di spiegarsi e al volo di attraversare le nuvole alla volta del cielo azzurro. E quante volte, per contro, scopriamo che all’inizio di una vita riuscita sta un atto di ribellione lucida e legittima, un dire no a una proposta di vita allettante perché accomodante, ma povera, limitativa, inautentica; oppure un dialogo vero con un padre e una madre amati, che hanno saputo leggere la verità dei figli e li hanno lanciati, senza rimpianti, come frecce verso l’orizzonte. Perché esistono anche famiglie che non sono gabbie, ma archi potenti e generosi.
Lucidità e coraggio: sono le attitudini più importanti che la scuola, i genitori, la società dovrebbero trasmettere ai giovani di oggi e di domani. Lucidità per capire a che cosa si è davvero chiamati; coraggio per realizzare le proprie scelte, anche quando il mare è in tempesta e la terraferma non si intravvede più.
Ci è stato affidato un bene, la mina; che ne facciamo? Non vien detto come i servi hanno fatto fruttare la loro moneta, segno che ciò è lasciato alla nostra libera scelta: conta solo la volontà di far fruttare il dono ricevuto, e quindi il rischiare, con la possibilità anche di perdere il guadagno. Il terzo servo non è rimproverato perché non ha guadagnato nulla, ma perché si è rinchiuso nella paura e non ha rischiato. Dal loro comportamento non deriva una ricompensa o un castigo, ma una situazione esistenziale. Quelli che hanno rischiato sono felici di poter mostrare al loro signore ciò che hanno fatto; il terzo invece appare triste, infelice, senza nulla da mostrare, neanche un fallimento!
Mettere in gioco il dono ricevuto: questa la via della felicità!