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La morte sterile e la morte feconda: riflessione su Giovanni 12,24-26

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29/11/2017

Tratto da:
Luciano Manicardi, Il parto di una morte vivificante, monasterodibose.it/preghiera/vangelo-del-giorno/11886-il-parto-di-una-morte-vivificante

Guida alla lettura

Questa riflessione di Luciano Manicardi, priore di Bose, parte da un’immagine molto nota contenuta nel Vangelo di Giovanni: la morte del chicco di grano come condizione necessaria per la nascita della spiga. Un detto che, nei secoli, è stato sottoposto a una lettura doloristica che esalta la sofferenza come tramite di salvezza. Nulla di più lontano dalle intenzioni di Cristo: la morte va intesa come capacità di trasformazione in vista di un fine capace di dare senso a tutta la nostra vita.
Analizziamo meglio. Il commento di Manicardi si svolge su due livelli: c’è una parte, la seconda, valida per i credenti; e una, la prima, che parla a tutti coloro che sono alla ricerca di una realizzazione non effimera di sé e dei propri talenti. Ai credenti Manicardi dice che la morte di cui parla Gesù non richiede «alcuna fuga dall’umano», e anzi è premessa di un pieno compimento degli uomini e delle donne che siamo chiamati ad essere fin dalla nostra nascita. Certo, il riferimento al martirio di Ignazio di Antiochia ci inquieta: diventare pienamente uomo per lui significò davvero la morte fisica, e una morte violenta. Al cristiano può essere richiesto anche l’estremo sacrificio. Ma ciò che innanzitutto conta per il credente, e su cui Manicardi insiste con forza, è che la sequela del Signore non comporta la mortificazione della propria umanità, l’adesione a ideali doloristici che compromettono il legittimo desiderio di felicità che abita il nostro cuore, ma – al contrario – il gioioso perfezionamento di ogni facoltà intellettuale e morale, fino ad assomigliare all’uomo perfetto che fu Gesù di Nazareth. Si tratta dunque di un cammino di vita, anche se parte dalla “morte” dell’uomo vecchio che viveva in noi.
Nella prima parte della riflessione, Manicardi formula alcune considerazioni eloquenti anche per i laici. Di fronte alla vita, al futuro che siamo chiamati a costruire con l’impiego dei nostri talenti, possiamo assumere due atteggiamenti opposti: farci paralizzare dalla paura del cambiamento, scegliendo di non crescere, e allora la vita è un lento morire; accettare la sfida e anche i rischi del cambiamento di sé, e allora questa è «la morte feconda di chi si apre alla vita e porta frutto». In altre parole: il cambiamento e la crescita, la piena realizzazione di sé, implicano sempre una forma di “morte” «perché non siamo più quelli di prima». Ma il superamento deciso delle nostre paure è l’unica strada per colmare di senso la vita, per mettere a frutto gli anni che il destino ci ha assegnato e per lasciare una traccia duratura del nostro passaggio in questo mondo.
Gesù considera un seme di grano che, caduto a terra, muore: per gli antichi il seme, per diventare pianta, deve morire e risuscitare. Gesù, parlando di quel seme, parla di sé e della propria morte e resurrezione. «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore, produce molto frutto».
C’è un dinamismo di morte che dà vita. E c’è una morte più triste della morte fisica: la solitudine, l’abbandono. C’è una morte vivificante perché fa crescere il seme e lo fa diventare spiga, poi pianta, poi capace di frutto. Noi possiamo temere questo divenire, scambiandolo per una morte, e in certo modo lo è perché non siamo più quelli di prima, e allora, per paura, possiamo decidere di restare come e dove siamo. Possiamo scegliere di non crescere, di vivere una vita che è un lento morire. C’è infatti un abbandonarci, un fidarci, sentito così rischioso che ci induce a preferire la solitudine, a restare nella morte mortifera della solitudine, dell’isolamento. Abbiamo qui due forme di morte: la paura del cambiamento di sé che fa restare nella solitudine è la vera morte, la sterilità; l’accettazione del cambiamento di sé è la morte feconda di chi, scegliendo di cambiare, si apre alla vita e porta frutto.
Il frutto di questa morte è un dare: si diventa capaci di dare in abbondanza. La sofferenza del perdere diventa la gioiosa offerta di sé nel dare. Si diventa cioè pienamente umani, si cresce alla statura di Cristo diventando capaci di donare fino a dare la vita. L’abbondanza del frutto dell’amore è nel dono della vita: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Con il suo martirio Ignazio di Antiochia (fine I – inizi II secolo) ha fatto un’esegesi vivente di queste parole. Nel suo viaggio verso Roma dove lo attendeva l’esecuzione della condanna a morte, scrive ai cristiani di quella città perché non impediscano il suo martirio: «Lasciatemi essere pasto delle belve: sono frumento di Dio macinato dai loro denti per diventare puro pane di Cristo» (Ai Romani 4,1). Ignazio concepisce la sua morte come un parto: «Bello per me morire in Gesù Cristo. Lui cerco, che per noi è morto; lui voglio, che per noi è risorto. Il parto per me è vicino» (Ai Romani 6,1). Con straordinaria intuizione di antropologia cristiana, Ignazio specifica in che consiste il parto della morte attraverso il martirio, cioè seguendo Gesù fino a perdere la propria vita e ad essere là dove lui stesso è stato: «Non impeditemi di vivere, né vogliate il mio morire. Lasciatemi ricevere la pura luce. Là giunto, sarò uomo» (Ai Romani 6,2).
Per Ignazio Gesù è il “nuovo uomo” (Agli Efesini 20,1), “il perfetto uomo” (Agli Smirnesi 4,2): ormai vicino al martirio, egli afferma che sta per diventare pienamente uomo grazie all’uomo nuovo e perfetto che è Gesù. Come scrive uno specialista di Ignazio di Antiochia: per Ignazio «Dio si è fatto l’uomo perfetto perché l’uomo impari a diventare uomo in lui. Non è richiesta alcuna fuga dall’umano, ma anzi si tratta di portare alla pienezza dell’unità l’Uomo, senza rifiutare la sua umanità, perché essa non viene mai annullata, ma unificata in Dio» (Ferdinando Bergamelli).

Il brano del vangelo di Giovanni

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà».

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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