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La vecchiaia, fonte di senso e di saggezza

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24/12/2008

Tratto da:
Romano Guardini, Le età della vita, Vita e pensiero, Milano, 1986, p. 86-87; 90-91
in: Comunità Monastica di Bose (a cura di), Letture dei giorni, Piemme, Casale Monferrato 1994, pag. 965-966

Guida alla lettura

Ogni essere umano, al termine dei propri giorni, si trova di fronte al bivio fra un morire “sbagliato”, segnato dalla ribellione o dal cinismo, e un morire “giusto”, in cui l’esistenza non solo si esaurisce, ma anche si completa e perfeziona. A maggior ragione, ciò è vero anche per la vecchiaia: purché si abbia il coraggio di accettarla, l’onestà di vedere solo ciò che è vero e la disponibilità a far spazio a criteri nuovi nello stabilire le priorità del quotidiano.
E’ questo il pensiero di Romano Guardini, uno dei teologi più apprezzati del XX secolo, sulla cosiddetta “terza età”. Un approccio che non nega quanto di negativo la senescenza porta con sé; ma che sa vedere oltre, e anticipare con serena consapevolezza quel “giudizio” che è alla base della fede cristiana e che consisterà nel vedere ogni nostra azione con gli occhi stessi di Dio. Quale abissale distanza fra questo modo di invecchiare e quello che, altrove, Guardini definisce il «materialismo senile, che attribuisce importanza esclusivamente alle cose tangibili, come il mangiare e il bere, il conto in banca, la poltrona comoda... la smania di mettersi in luce, la tendenza a comportarsi da tiranno tormentando gli altri, e questo per convincersi di essere ancora qualcuno».
Solo una vecchiaia “giusta” conferisce senso a tutta l’esistenza, donando quella saggezza autorevole che, lungi dal poggiare su qualsivoglia forma di potere o essere appannaggio di pochi sapienti, è alla portata di tutti, e genera discernimento, coraggio, pacatezza, rispetto di sé e degli altri.
Dedichiamo questo brano intenso a chi vive il tramonto della vita con lucida e feconda consapevolezza, e anche a chi si dibatte nella paura e nel rimpianto, perché una nuova scelta, nella libertà e nella verità, è sempre possibile, fino all’ultimo istante.
Quanto più si accetta la vecchiaia, quanto più profondamente si coglie il senso della vita e quanto più netta è l’obbedienza nei confronti della verità, tanto più autentica e preziosa è la fase della vita la quale porta quel nome.
Poiché anche la vecchiaia è vita. Essa non indica soltanto l’esaurirsi di una sorgente dalla quale non sgorga più nulla; né l’affievolirsi di una vitalità che in precedenza era forte e tesa; bensì essa stessa è vita, con una propria configurazione e con un proprio valore. Certamente, la vecchiaia significa l’avvicinamento alla morte; ma la morte non è soltanto un terminare e uno scomparire, bensì porta in sé un senso. Gli antichi hanno parlato dell’ars moriendi, dell’arte di morire, e con questo intendono dire che vi è un morire sbagliato e un morire giusto: l’esaurirsi della fonte e il perire, ma anche il completamento e il perfezionamento, la realizzazione ultima della forma dell’esistenza. Se ciò vale per la morte, tanto più vale per la vecchiaia.
Tuttavia, prima condizione ne è – ribadiamolo – l’accettazione. Nella misura in cui essa interviene, cambia il modo in cui viene vissuta questa fase di vita. Con questo non va certamente eluso nulla dell’amarezza che risiede nell’accettazione; del crescente bisogno di aiuto il quale fa sì che l’uomo non possa fare a meno degli altri; dell’irriverenza, suscitata dalla sua debolezza; e tutto quanto è sottinteso nelle parole tratte dal Qoelet, dove si ricordano «gli anni dei quali dovrai dire: non mi piacciono» (Qo 12,1). Ma anche questo assume un carattere diverso a seconda che colui che sta diventando vecchio sia conscio di essere tutt’uno con la propria esistenza e si renda tutt’uno con essa accettando la vecchiaia, o che, invece, la pensi in fondo allo stesso modo di coloro che lo giudicano svilendolo, solo che, purtroppo, egli sta dalla parte svantaggiata...
Quando egli comincia a volgere indietro lo sguardo, allora vede e comprende i fatti nel loro contesto – a condizione, certo, che egli abbia il coraggio di voler vedere ciò che è, l’onestà di voler vedere solo ciò che è vero. Da questo viene la saggezza...
Le cose e gli avvenimenti della vita diretta perdono la loro urgenza. La violenza con la quale essi pretendono di occupare lo spazio dei pensieri, la sensibilità del cuore, si affievolisce. Molto di quanto gli sembrava avesse enorme importanza perde il suo peso; altre cose che egli aveva ritenuto irrilevanti, aumentano di serietà e di intensità. I pesi si modificano, e si manifestano criteri di tipo nuovo.
Anche questo agisce in quello sguardo sulla totalità della vita del quale abbiamo parlato. Si tratta di un’anticipazione di ciò che il linguaggio religioso chiama giudizio. “Giudizio” significa che le cose sono liberate dai camuffamenti delle chiacchiere e dalle confusioni operate dalla menzogna e dalla violenza, e vengono portate nella pura potenza della verità di Dio, che non può essere né corrotta né ingannata. A questo giudizio, che avrà luogo dopo la morte al cospetto di Dio, viene compiuta, nella vecchiaia ben vissuta, una specie di preparazione.
Anche questo crea saggezza e, partendo dalla saggezza, crea un’autorità; la quale non si basa su una posizione di potenza di qualsiasi tipo, bensì sulla verità vissuta, e rende testimonianza di sé attraverso se stessa. Essa dà alla vecchiaia un senso che non ha nessun’altra fase della vita.

Biografia

Romano Guardini nasce a Verona nel 1885. La famiglia, di origine trentina, si trasferisce in Germania l’anno successivo. Il giovane studia teologia a Friburgo in Brisgovia e Tubinga, e nel 1910 è ordinato sacerdote. Nel 1923 ottiene la cattedra di Filosofia della religione e visione cristiana a Berlino. Nel 1939 i nazisti lo sollevano dall’incarico e lo confinano a Mooshausen, un piccolo villaggio dove, in compagnia di una ristretta cerchia di amici, riesce a proseguire i suoi studi.
Nel 1945, dopo la fine della guerra, diviene docente di Filosofia della religione a Tubinga e, dal 1948, a Monaco di Baviera. Nel 1962 si ritira per motivi di salute: morirà a Monaco di Baviera nel 1968.
Guardini è uno dei teologi di riferimento di Benedetto XVI ed è considerato uno dei più significativi rappresentanti della filosofia e teologia cattolica del Ventesimo secolo, soprattutto per quanto riguarda la liturgia, la filosofia della religione, la pedagogia, l’ecumenismo e la storia della spiritualità. Le sue analisi critiche di scrittori come Dante, Rilke e Dostoevskij, così come di filosofi e pensatori come Socrate, Platone, Agostino, Pascal, Kierkegaard e Nietzsche, sono apprezzate in tutto il mondo per la profondità e la chiarezza espositiva.
Con l’opera “Lo spirito della liturgia” (1917), Guardini pose le basi del rinnovamento liturgico cattolico, che troverà pieno compimento nella riforma avviata dal Concilio Vaticano II. In ambito politico, elaborò un’etica del potere valida non solo per le grandi ideologie, ma anche per i nuovi poteri anonimi dell’epoca contemporanea (media, burocrazia, economia). In pedagogia, evidenziò l’importanza dell’autocontrollo, dell’equilibrio fra autorità e libertà, e della creativa obbedienza alla propria coscienza.
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