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La morte di Gesù nel Vangelo secondo Giovanni

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13/03/2013

Tratto da:
Luciano Manicardi, L’umano soffrire, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI) 2006, p. 151-156

Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Con il vangelo di Giovanni, Luciano Manicardi chiude l’analisi dei racconti della morte di Gesù. Ancora una volta ci troviamo di fronte a un testo difficile e dalle fortissime valenze teologiche, che per essere compreso a pieno, ed eventualmente condiviso, richiede non solo un atteggiamento di apertura alla fede, ma anche un’assidua, intelligente e documentata frequentazione del testo biblico. E tuttavia, ancora una volta, gli ultimi istanti di quell’uomo vissuto duemila anni fa, che molti credono figlio di Dio, messia e signore, ci dicono qualcosa che può riguardare tutti, perché tutti siamo destinati a misurarci con la morte: singolarità assoluta nel fluire del tempo, che – se non interiorizzata correttamente – può portarci alla nevrosi e destabilizzare tutta la nostra vita.
Come vive dunque Gesù, secondo il racconto di Giovanni, gli ultimi momenti sulla croce? Portando a compimento quattro dimensioni fondamentali della sua esistenza: la sua missione, ossia la rivelazione di quale siano il vero volto del Padre e il vero volto dell’uomo, come il creatore l’aveva sognato sin dal principio; la sua libertà, che si è realizzata nella piena e spontanea obbedienza alla volontà di Dio; il suo amore, donato «fino all’estremo, fino alla fine, fino al punto di non ritorno», anche ai nemici che lo hanno tradito e condannato; il suo desiderio, compiere sempre e comunque la volontà d’amore di chi lo aveva mandato, anche a costo della vita.
Ora, se alle espressioni spirituali (Dio, Padre, creazione…) sostituiamo i valori che ciascuno di noi può scegliere di perseguire – il bene, la giustizia, la non violenza – vediamo come le quattro dimensioni che Cristo realizza morendo siano le stesse che ciascuno vorrebbe forse compiere nel corso della propria vita, fino a dare alla morte un senso pacificato e non represso. Una missione per cui valga la pena vivere e morire, una coraggiosa e sempre rinnovata scelta per la libertà interiore, un amore limpido per sé e per gli altri, un desiderio forte e capace di guidare ogni scelta importante: può essere davvero questo il cuore di una vita riuscita e piena di senso, a cui tendere con tutte le forze.
Il racconto di Giovanni
Dopo questo, Gesù, sapendo che tutto era ormai compiuto, affinché si compisse la Scrittura, dice: «Ho sete». C’era là un vaso pieno di aceto. Avendo dunque messo una spugna piena di aceto attorno a (una canna di) issopo, (la) portarono alla sua bocca. Quando dunque ebbe preso l’aceto, Gesù disse: «E’ compiuto», e chinato il capo, consegnò lo spirito (Gv 19,28-30).

Il quarto vangelo narra la morte di Gesù in maniera assolutamente originale rispetto ai racconti dei tre vangeli sinottici. Il racconto è strettamente legato a ciò che precede, come appare dall’espressione iniziale “dopo questo” (v. 28). Ovvero dopo la scena in cui Gesù, dalla croce, si rivolge a sua madre e al discepolo amato:
«Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa».
Si tratta di una scena che non deve essere letta banalmente come affidamento della madre che resta sola al discepolo amato e fidato che si dovrà prendere cura di lei. Questa lettura che intende il gesto di Gesù come gesto di bontà e pietà filiale corrisponde in realtà a una griglia morale che non si addice alla profondità teologica del IV vangelo. Il quarto evangelista ci presenta qui una scena di rivelazione: Gesù “vede” (v. 26a), “dice” (v. 26b), “ecco” (v. 27). I tre elementi si trovano sempre in scene di rivelazione. E la rivelazione concerne la costituzione del popolo escatologico di Dio, del popolo messianico che in Cristo trova la sua unità. La scena di Maria sotto la croce rinvia a quella delle nozze di Cana (Gv 2,1-12) che si trova all’inizio del IV vangelo: anche là era presente la madre di Gesù. Ma se a Cana l’ora di Gesù non era ancora arrivata (Gv 2,4), al Calvario, l’ora è giunta. Se a Cana Gesù dava il vino, al momento della crocifissione dona il suo sangue. L’alleanza inaugurata a Cana si compie alla croce [1]. E alla croce abbiamo la creazione, ad opera del Signore, del nuovo popolo di Dio. Il testo presenta dunque anche una valenza ecclesiologica: la chiesa nasce sotto la croce. E’ il figlio crea la madre, è il Signore che crea la chiesa. Maria viene stabilita nella maternità spirituale dei credenti. Anche il discepolo amato, il garante della tradizione del quarto vangelo e dalla comunità giovannea, è collocato all’interno di questa relazione di filialità nei confronti della madre di Gesù. Maria è l’Israele fedele che ha generato il Messia riconosciuto e confessato dai discepoli: sintetizza dunque in sé i due aspetti di figura della Sinagoga e di inizio della Chiesa [2].
Ebbene è “dopo questo” che il IV vangelo riporta le ultime parole e gli ultimi gesti di Gesù prima della morte. Una morte che per Giovanni non è una fine ma un compimento: per tre volte ricorre il verbo “compiere”, che dà una precisa tonalità a tutta la scena. La morte di Gesù si configura anzitutto come compimento delle Scritture (v. 28) [3]. Il compimento, perseguito da Gesù in tutto il suo ministero, si manifesta nella spartizione delle vesti (Gv 19,24; Sal 22,19) come nella costituzione del nuovo popolo di Dio (Gv 19,25-27; Is 60,4-5; 66,8; Bar 4,36-5,9), e infine nel suo stesso corpo morto che sembra incorporare fisicamente il compimento della Scrittura (Gv 19,35-37). Dopo aver infatti annotato che i giudei domandarono a Pilato che venissero spezzate le gambe ai crocifissi perché era la Parasceve, cioè la vigilia della Pasqua, ed essi temevano di restare contaminati se i corpi restavano sulla croce (il condannato a morte che veniva appeso non doveva restare tutta la notte sul patibolo, ma doveva essere sepolto lo stesso giorno per non contaminare il paese: Dt 21,22-23), Giovanni rileva che i soldati spezzarono le gambe ai due crocifissi con Gesù, ma non a Gesù stesso che era già morto (Gv 19,31-33). La pratica del “crurifragium” (spezzare le gambe dei condannati) era volta ad affrettarne la morte: con le gambe spezzate essi non potevano più reggersi, cadevano in avanti, si chiudevano le possibilità di respiro ed essi morivano per asfissia. Gesù, invece, viene colpito da un soldato con un colpo di lancia al costato «e subito uscì sangue e acqua» (Gv 19,34). Ebbene, dopo questo, l’autore del quarto vangelo interviene nella narrazione attestando che tutti questi eventi non sono stati casuali, ma hanno compiuto le Scritture: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa di dire il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: “Non gli sarà spezzato alcun osso” (Es 12,46; Nm 9,12). E un altro passo della Scrittura dice ancora: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10)» (Gv 19,35-37).
Inoltre Gesù compie, nella sua morte, anche la propria missione, e lo proclama: «È compiuto» (v. 30). Gesù ha compiuto l’opera di rivelazione del Padre. E ha compiuto la sua obbedienza e la sua libertà. Gesù inclina il capo prima di spirare, mentre normalmente dovrebbe avvenire il contrario. Il capo che si reclina sembra alludere a un atto di obbedienza, quell’obbedienza che ha retto tutta la vita di Gesù, le sue parole e le sue azioni perché egli non dice se non ciò che ha ascoltato dal Padre e non compie se non le azioni del Padre. L’obbedienza di Gesù avviene nello spazio della sua libertà, sottolineata dal “sapendo” che dà inizio alla scena. Gesù sa, è pienamente cosciente della morte che arriva e del disegno divino che si compie.
La morte di Gesù appare poi compimento dell’amore. Ciò che era stato profetizzato nel gesto di deposizione delle vesti per inchinarsi ai piedi dei suoi discepoli e lavare loro i piedi, ora avviene. E Giovanni aveva introdotto la scena della lavanda dei piedi con queste parole: «Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1). La croce è il sigillo di una vita donata fino all’estremo, fino alla fine, fino al punto di non ritorno. Gesù l’aveva detto: «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). E Gesù dona la vita anche per il nemico e continua a chiamare amico colui che gli si fa nemico, così come lava i piedi anche a Giuda che ha già in animo il tradimento. La croce è l’evento della libertà dell’amore che giunge ad amare il nemico.
E la morte è per Gesù anche il compimento del suo desiderio. Desiderio espresso da quella sete (v. 28) che non sarà estinta da una bevanda, ma dall’abbraccio con il Padre. Il testo allude certamente alla sete terribile del crocifisso, ma dietro a quella sete materiale vi è la sete di compiere la volontà del Padre.
Alla luce di tutto questo non stupisce che la morte di Gesù in Giovanni non appaia come una sconfitta, ma come una vittoria: con la sua morte in croce egli ha “vinto il mondo” (cf. Gv 16,33). Anzi, il verbo che Giovanni utilizza per indicare il morire di Gesù designa l’atto di un vivente: Giovanni non dice che Gesù “spirò”, ma che “consegnò lo spirito” (v. 30). Si tratta del gesto cosciente e libero di un vivente. L’ultimo gesto di Gesù è ancora un donare: dopo aver donato se stesso, dopo aver fatto il bene per tutta la sua vita, giunto all’estremo del suo cammino terreno, Gesù ancora dona. E lo spirito che egli dona può benissimo essere inteso come lo Spirito, con la maiuscola, dunque come riferimento allo Spirito santo. La morte di Gesù, da evento di isolamento e di non relazione, diviene transitivamente evento di vita. La morte, come consegna dello Spirito santo, diviene una “pentecoste”, evento che trasmette il principio della vita spirituale all’esistenza del cristiano. Così si definisce ulteriormente la concezione della morte di Gesù nel quarto vangelo: la morte, la croce è gloria. Gesù appare come un re (si pensi alla corona di spine: Gv 19,2-3), e la sua “via crucis” è in verità un cammino di intronizzazione regale. La croce è innalzamento e giudizio sul mondo, è un andare al Padre, è un esodo verso il Padre. Una Pasqua, un passaggio da questo mondo al Padre.

Note dell'Autore

1) A. Serra, Maria a Cana e presso la croce. Saggio di mariologia giovannea (Gv 2,1-12 e 19,25-27), Centro di cultura mariana «Mater Ecclesiae», Roma 1978
2) I. de la Potterie, «La Passione secondo Giovanni», in A. Vanhoye – I. de la Potterie – Ch. Duquoc – E. Charpentier, La Passione secondo i quattro Vangeli, Queriniana, Brescia 19883, pp. 55-71
3) R. Vignolo, «La morte di Gesù nel vangelo di Giovanni», in Parola, Spirito e Vita 32 (1995), pp. 121-142

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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