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La morte di Gesù nel Vangelo secondo Marco

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30/01/2013

Tratto da:
Luciano Manicardi, L’umano soffrire, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI) 2006, p. 136-141

Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Iniziamo questa settimana la pubblicazione del commento di Luciano Manicardi, Vice Priore della comunità monastica di Bose, ai quattro racconti evangelici della morte di Cristo. Per il credente, infatti, il modo in cui Gesù è andato incontro alla sofferenza e alla fine violenta è prassi autorevole e normativa, modello da seguire nella propria esistenza. Ma come vedremo, anche per chi non crede, per chi vive senza riferimenti a una realtà trascendente, quella morte può rappresentare un esempio di profonda umanizzazione, di realizzazione piena del senso di una vita.
I racconti della crocifissione non indulgono a particolari macabri, ma certamente sono molto duri nel descrivere le dinamiche umane che vi si instaurano, così come gli sviluppi inquietanti del rapporto fra l’uomo che soffre e il silenzio di Dio. Vi è in quegli eventi, sottolinea Manicardi in un passo del libro, «qualcosa che sembra smentire tutto ciò che Gesù ha vissuto fino allora, tutta la sua fede, il suo amore, la sua speranza». I nemici di Gesù, in particolare, manipolano senza alcun pudore la verità della sua vita deridendone i caposaldi fondamentali: l’autorità di maestro, la relazione d’amore con il prossimo, la relazione di fiducia con Dio.
Spiega Manicardi: «“Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso”: con questa provocazione i passanti scherniscono l’autorità di Gesù e, facendo forza sull’evidente impotenza del crocifisso, sembrano dichiarare falsa anche l’autorità che Gesù ha mostrato in precedenza… Ma anche la sua relazione buona con gli altri, con le persone che ha incontrato nel cammino della sua esistenza, viene azzerata dalla lettura che ne fanno sacerdoti, scribi e anziani: “Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso!”. Il finale della vita di Gesù sembra autorizzare i suoi avversari a invalidare tutto il bene che ha fatto in passato… E infine, persino la sua fede viene messa in discussione: “Ha confidato in Dio: lo liberi lui ora, se gli vuole bene!”. L’aver avuto fiducia in Dio gli viene rinfacciato quasi come una colpa. Questo è l’atto più radicale e invadente di decostruzione e demolizione della vita precedente di Gesù… E così un’intera esistenza vissuta e spesa nella donazione di sé agli uomini e nella fedeltà obbediente al Padre, nel dare vita e nell’operare giustizia, nell’amare e nel benedire, si trova a essere sepolta sotto il peso dell’infamia che Gesù subisce nei suoi ultimi momenti».
Eppure una lettura attenta ci aiuta a vedere la piena continuità della vita di Gesù anche in quei momenti finali, perché anche allora Gesù continua ad amare gli altri e Dio: chiamando Giuda “amico”, perdonando Pietro che lo ha rinnegato, guarendo il servo del sommo sacerdote che un discepolo aveva ferito, invocando il perdono per i suoi aguzzini, pregando nel momento in cui anche il Padre sembra averlo abbandonato. In questo modo, conclude Manicardi, «Gesù dà senso anche al patibolo, ovvero lo vive nella libertà e nell’amore. Anche l’ultima fase della sua vita, per quanto segnata dal male, è ancora traversata dalla forza dell’amore più forte della morte. E questo dà speranza a ogni credente. Quale che possa essere la fase finale della sua esistenza».
Dà speranza, aggiungiamo noi, anche a chi non crede: perché se il vero senso della vita riposa nella libertà con cui avremo compiuto le nostre azioni e nell’amore che avremo saputo dare e ricevere, allora quel senso è davvero alla portata di tutti, ed è quanto tutti cercano nel profondo del proprio cuore. La vita e la morte di Gesù, in ultima analisi, insegnano a ogni persona che abbia a cuore il proprio essere nel mondo che il senso vero e ultimo della vita non sta nel potere, nel denaro, nell’illusione di una giovinezza senza limiti, nella pretesa di una salute sempre intatta, ma nell’amore e nella libertà.
Il racconto di Marco
Venuta l’ora sesta, si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona. E all’ora nona Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lamà sabachtàni?», che tradotto significa: «Dio, mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». E alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: «Vedi! Chiama Elia». Allora, un tale, andato di corsa a inzuppare di aceto una spugna e avendola posta su una canna, gli dava da bere dicendo: «Lasciate! Vediamo se viene Elia a calarlo giù». Ma Gesù, emettendo una gran voce, spirò. E il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso. Ora, il centurione, che era presente di fronte a lui, vedendo che spirò così, disse: «Veramente quest’uomo era figlio di Dio» (Marco 15,33-39).

Gesù è stato crocifisso all’ora terza (Mc 15,25), cioè alle nove del mattino. Il tempo che intercorre fino all’ora sesta, cioè a mezzogiorno, è riempito dagli scherni e dagli insulti dei passanti, dei sommi sacerdoti, degli scribi e anche dei due malfattori crocifissi accanto a lui (Mc 15,29-32). Le tre lunghissime ore di agonia di Gesù morente sono segnate dall’abbandono e dall’assenza di compassione degli umani nei suoi confronti. Quelle ore sono accompagnate non da parole di vicinanza e di consolazione delle persone amate e care, ma dalle parole violente di sconosciuti e avversari. Gesù sprofonda nel silenzio, nell’isolamento e nell’impotenza.
Dall’ora sesta all’ora nona (cioè da mezzogiorno alle tre del pomeriggio) una tenebra scende sulla terra. Questa tenebra è anzitutto evocazione simbolica della situazione tragica in cui si trova il giusto appeso alla croce: come per l’uomo sofferente che nel Salmo 22 grida l’abbandono di Dio, anche per Gesù ora è notte (Sal 22,3). E tuttavia essa riveste anche un significato teologico più rilevante. Ciò che sta avvenendo sulla croce è un evento che ha a che fare con la storia della salvezza, è un evento escatologico, un evento che dice l’intervento di Dio. Nell’Antico Testamento l’intervento definitivo di Dio nella storia umana è evocato a volte con l’espressione “giorno del Signore”. Ebbene, il profeta Amos scrive che “in quel giorno” il Signore farà tramontare il sole a mezzogiorno e oscurerà la terra in pieno giorno; sarà un giorno di lutto come per la morte del figlio unico (Am 8,9-10). La tenebra indica dunque che l’evento della morte di Gesù riguarda la storia intera dell’umanità, è evento decisivo nella storia della relazione di Dio con il mondo. E questo significa che quest’ora tragica e desolata è anche germinalmente gloriosa e abitata.
Nella Bibbia la tenebra è spesso immagine della presenza di Dio. Certo, si tratta di una presenza nascosta, enigmatica, non rassicurante. Inoltre, al momento della morte di Gesù, questa presenza appare anche silenziosa, muta. Se al battesimo la presenza di Dio si era manifestata nei cieli squarciati e nella voce dall’alto che si rivolgeva direttamente a Gesù proclamandolo Figlio amato (Mc 1,9-11) e se alla trasfigurazione la stessa presenza di Dio si era svelata nella nube e nella voce che rivolgeva a tutti la medesima proclamazione (Mc 9,7), ora la presenza di Dio nella tenebra resta muta. Dio non dice nulla. Non conferma il cammino di Gesù. Risuonano nella mente le parole degli oranti che nei Salmi gridano a Dio: «Perché non rispondi? Perché resti muto?», «Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo» (Sal 22,3). Abbandono dei discepoli, ostilità degli avversari, assenza di compassione dei compagni di condanna, e soprattutto silenzio di Dio: ecco che tutto questo esplode nel grido forte «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» [1]. Marco riporta l’ora di tale grido (le tre del pomeriggio) e perfino le parole aramaiche pronunciate da Gesù: «Eloì, Eloì, lamà sabachtàni». Sono le parole del Salmo 22,2. Gesù sta pregando. Mentre muore, il suo cuore e il suo pensiero vanno a Dio. E si tratta di un grido drammatico: Gesù si appella a Dio contro Dio. Dio resta il suo Dio, Gesù pone la sua fiducia incondizionata nel Dio che sempre è stato il suo Dio e lo è anche ora, nel momento della morte. E tuttavia a lui Gesù grida il suo enigma: «Perché mi hai abbandonato?» [2]. La morte di Gesù è segnata da un enigma, da un “perché?”. Heinrich Schlier ha commentato con commossa partecipazione tale evento drammatico: “A chi doveva ancora rivolgersi il Gesù abbandonato e reietto, il Gesù tormentato e schernito? A chi se non a Dio, al quale si sono sempre rivolti i giusti ed alla volontà del quale egli si era arreso nel Getsemani? Ma, adesso, neppure Dio c’è più per lui! Ora, anche lui lo ha abbandonato. Gesù deve ancora patire anche questo, che Dio gli si sottragga e si nasconda e si spalanchi attorno a lui il tenebroso vuoto del nessuno e del nulla…” [3].
Sappiamo che ciò che storicamente rendeva le crocifissione particolarmente macabre e angoscianti erano le grida di rabbia e dolore, le selvagge maledizioni e le esplosioni violente di disperazione delle vittime. Ma Gesù fa del suo grido una preghiera. Tuttavia Marco annota che anche la sua preghiera viene distorta e non compresa: i presenti credono che stia chiamando Elia, che nella pietà popolare ebraica era ritenuto il protettore dei morenti, dei casi disperati. Per deridere Gesù fino alla fine, ecco che uno dei presenti va a inzuppare nell’aceto (o vino acidulo, usato forse a fini anestetici) una spugna per far bere Gesù, ridargli un po’ di forza e prolungare così la sua agonia e vedere se effettivamente Elia viene a salvarlo. Lo sguardo di fede dell’evangelista sa cogliere in questo gesto un’allusione al destino del giusto sofferente che, nel Sal 69,22, dice: «Nella mia sete mi fanno bere l’aceto». Ma l’agitazione dei presenti viene interrotta dal grido di Gesù che muore. Gesù muore gridando. Ma questo evento, così tragicamente frequente all’epoca, poiché erano molti i crocifissi, manifesta subito la sua qualità teologale: il velo del Tempio si squarcia in due dall’alto in basso e il centurione confessa che quell’uomo, morto così “male” era veramente il figlio di Dio. Il velo di cui si parla era la tenda, la cortina che separava il luogo più interno del Tempio, il Santo dei Santi, dal resto del complesso sacro. Nel Santo dei Santi entrava solo il sommo sacerdote una sola volta all’anno in occasione del giorno dell’Espiazione. Simbolicamente Marco sta affermando che la comunione con Dio passa ormai attraverso Cristo, non attraverso il Tempio. E se il sistema di santità del Tempio era basato su separazioni e distinzioni successive e progressive, il corpo di Gesù e la santità che egli vive è inclusiva: egli muore accanto a malfattori, come era stato battezzato in mezzo a peccatori, e a tutti porta la comunione di Dio. Per Marco è proprio vedendo Gesù morire “in quel modo” che il centurione lo confessa Figlio di Dio. Se al battesimo era stata la voce divina a proclamare la dignità filiale di Gesù, sotto la croce è invece la voce di un uomo, di un pagano. Con questa morte Gesù raggiunge ogni uomo e ogni angolo della terra. Ormai non vi è più alcuna situazione di disgrazia o inferno che non possa essere abitata dalla presenza di Dio in Cristo Gesù. E sotto la croce si prepara già la nascita di qualcosa di nuovo: la presenza discreta delle donne discepole, unica presenza fisicamente fedele a Gesù dalla Galilea fino alla fine, già prelude a quell’alba del primo giorno dopo il sabato in cui esse andranno al sepolcro e riceveranno l’annuncio: «È risorto! Non è qui! Andate a dire ai suoi discepoli e a Pietro che vi precede in Galilea: là lo vedrete, come vi ha detto» (Mc 16,6-7).

Note dell'Autore

1) E. Manicardi, «Gesù e la sua morte secondo Mc 15,33-37», in “Gesù e la sua morte. Atti della XXVII Settimana Biblica Nazionale”, Queriniana, Brescia 1984, pp. 9-28
2) R. E. Brown, “La morte del Messia. Un commentario ai Racconti della Passione nei quattro vangeli”, Queriniana, Brescia 1999, pp. 1175-1202
3) H. Schlier, “La passione secondo Marco”, Jaca Book, Milano 1979, pp. 97-98

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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