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Servire il malato, con la totalità di noi stessi

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26/01/2011

Tratto da:
Frank Ostaseski, Saper accompagnare. Aiutare gli altri e se stessi ad affrontare la morte, Oscar Mondadori 2006, p. 35-38

Guida alla lettura

In questo brano denso e illuminante Frank Ostaseski, maestro buddhista e fondatore dello Zen Hospice Project (ZHP) di San Francisco, ci aiuta a capire che cosa significhi “servire” la persona morente. Ma la sue riflessioni valgono anche, e forse a maggior ragione, per chi si occupa di anziani non autosufficienti, malati cronici, portatori di handicap.
Servire non significa “aiutare”, perché l’aiuto presuppone una diseguaglianza sul piano della forza: e ponendoci in quest’ottica «possiamo inavvertitamente sottrarre all’altro più di quanto gli diamo, indebolendone il senso di dignità e l’autostima». Servire non significa neppure “provvedere”, perché chi provvede scorge nell’altro qualcosa che non va ed esprime così un giudizio implicito, che separa e crea distanza.
Servire significa invece camminare con l’altro, com-patire con lui, mettendo in gioco la totalità di noi stessi, anche le nostre ferite, i nostri limiti, perfino i nostri lati oscuri: perché solo «la nostra interezza serve l’interezza dell’altro e l’interezza della vita». Alla luce di queste parole acquisisce un sapore nuovo il passo del libro biblico del Deuteronomio, laddove si comanda di amare Dio «con tutto il cuore» (Dt 6,5): non è solo un’esigenza di piena adesione alla legge divina, il che potrebbe persino solleticare l’orgoglio “religioso” di alcuni, ma anche di disponibilità a mettersi in gioco con ogni risvolto della propria personalità e della propria storia, anche quelli meno positivi e meno “utili”, perché solo chi rinuncerà a perdere la propria vita – ossia a cercare in se stesso il proprio giudizio e la propria giustificazione – la troverà (cfr. Mt 16,25). E’ appena il caso di ricordare che Cristo collegherà autorevolmente questo comandamento a quello dell’amore del prossimo.
L’approccio di Ostaseski ci porta a capire due cose importanti. Primo: nel servizio così inteso, l’essenziale non è tanto il risultato esteriore del nostro agire, pur importante e spesso anche positivo, quanto il cammino in sé che compiamo con il malato, «mano nella mano». Secondo: la strada che percorro con il sofferente mi rende consapevole del mio dolore e della mia paura di morire, e così «comincio a capire che la sofferenza dell’altro è anche la mia». La com-passione, dunque, non come frutto di uno sforzo morale, di un “dover essere” sempre ascrivibile a una logica di potenza e di controllo, ma come conseguenza di un’esperienza esistenziale condivisa nella comune debolezza.
Allo Zen Hospice diciamo che non c’è autentico servizio se non vengono coinvolte entrambe le parti in causa. Se mi dedico veramente a una persona che sta per morire, in quel momento mi dedico anche a me stesso. Osservo la mia mente, e mi accorgo di come il mio cuore si apre o si chiude. Sono consapevole del mio dolore e della mia paura di morire. Così facendo, comincio a capire che la sofferenza dell’altro è anche la mia.
Allo Zen Center di San Francisco l’insediamento di un nuovo abate è salutato da una bella cerimonia cui partecipa l’intera comunità. Tempo fa, in una simile occasione, uno studente domandò: «In che modo la pratica spirituale può insegnarmi a servire gli altri?». In perfetto stile zen, l’abate rispose: «Quali altri? Servi te stesso!». Lo studente insisté: «Che devo fare per servire me stesso?». E naturalmente l’abate rispose: «Prenditi cura degli altri».
Ogni giorno allo Zen Hospice abbiamo a che fare con persone che stanno morendo. Alcuni sono soggetti piuttosto difficili, sono persone che hanno vissuto in strada o ai margini della società, che reagiscono con rabbia alla perdita della loro indipendenza e che hanno smarrito ogni speranza. Altre sono distrutte dalla paura. A volte si chiudono in se stesse, faccia al muro, e non c’è verso che cambino atteggiamento. Molte di queste persone rinascono, tanto che star con loro diventa un vero privilegio. Si riconciliano del tutto inaspettatamente con i loro familiari e trovano quella gentilezza e quell’accettazione che hanno cercato invano per tutta la vita. E’ un processo che non manca mai di stupirmi.
Ma io non faccio questo lavoro con l’aspettativa che le cose vadano per il meglio, come pure talvolta accade. Inseguire simili gratificazioni è il modo più sicuro per esaurirsi e per rischiare di cadere in una dinamica di controllo, in quanto ci si sente spinti a voler cambiare le condizioni in vista del risultato voluto, invece di lasciarsi guidare dalla situazione del momento. Faccio questo lavoro perché mi piace e perché nel farlo servo anche me stesso. E’ un processo nel corso del quale si arriva a capire che accudendo l’altro ci si prende invariabilmente cura di se stessi, e che porta a scoprire come si può essere “compagni compassionevoli”, per usare un’espressione per me pregnante. La parola compassione significa letteralmente “soffrire con gli altri”, ed è quel “con” che sta nel mezzo ciò che conta di più. “Con” suggerisce intimità e scaturisce dal sentimento di appartenenza reciproca. Per compagno, in questo caso, si intende un compagno di strada, qualcuno con cui condividere un percorso. Si tratta quindi di un rapporto in cui nessuno fa da guida all’altro e in cui non ci sono guaritori e guariti. Per citare l’insegnante zen Reb Anderson: «Non facciamo altro che camminare insieme, mano nella mano, attraverso la nascita e la morte». E’ un approccio all’assistenza radicalmente diverso, in cui si riconosce esplicitamente il dono che chi sta per morire offre a chi si prende cura di lui.
Nello zen c’è una pratica chiamata “dokusan”. E’ un colloquio formale fra maestro e allievo. L’allievo attende fuori dalla stanza, cercando di concentrare tutta la sua attenzione sul momento presente. Non ha idea di cosa lo attenda dietro quella porta, di cosa potrebbe chiedergli il maestro. Quindi all’allievo si richiede apertura, flessibilità, disponibilità a varcare la soglia senza aspettative. Entrare nella camera di un malato terminale è come presentarsi a un “dokusan”.
Troppo spesso quando si assiste una persona con un male incurabile non siamo pronti a capire cosa serve, ma cerchiamo conferme alla nostra identità. Questo atteggiamento lo chiamo “la sindrome del soccorritore”, una patologia più diffusa dell’AIDS o del cancro. Mi riferisco alle varie strategie con cui cerchiamo di prendere le distanze dalla sofferenza dell’altro. Possiamo farlo con la pietà, con la paura, con il calore professionale, perfino con i nostri gesti caritatevoli. L’identificazione con il ruolo del soccorritore ha in molti casi radici antiche nella nostra storia personale. Se non facciamo attenzione, se non restiamo vigili, può diventare una prigione sia per noi sia per quelli che serviamo.
Rachel Naomi Remen, autrice di “Kitchen Table Wisdom” (Penguin Putnam, New York 1996), dedica al tema alcune riflessioni che io considero fra le più belle definizioni del significato di “servizio”. Parafrasando le sue parole, servire non è la stessa cosa che aiutare. Aiutare implica una disuguaglianza, non prevede un rapporto alla pari. Quando si aiuta, si usa la propria forza a beneficio di qualcuno che ne ha meno. È un rapporto dove una delle parti è in una posizione svantaggiata, e dove la disuguaglianza è palpabile. Ponendoci nell’ottica dell’aiuto possiamo inavvertitamente sottrarre all’altro più di quanto gli diamo, indebolirne il senso di dignità e l’autostima. Quando aiuto, sono chiaramente cosciente della mia forza. Ma per servire dobbiamo mettere in gioco qualcosa di più che la nostra forza. Dobbiamo mettere in gioco la totalità di noi stessi, attingere all’intera gamma delle nostre esperienze. Servono anche le nostre ferite, i nostri limiti, perfino i nostri lati oscuri. La nostra interezza serve l’interezza dell’altro e l’interezza della vita. Aiutare crea un debito. L’altro sente di doverci qualcosa. Il servizio, al contrario, è reciproco. Quando aiuto provo soddisfazione; quando servo provo gratitudine.
Servire è inoltre diverso dal provvedere. Quando cerco di provvedere a qualcuno, vedo nell’altro qualcosa che non va. E’ un giudizio implicito, che mi separa dall’altro e crea una distanza. Direi quindi che, fondamentalmente, aiutare, provvedere e servire sono modi di vedere la vita. Quando aiutiamo, la vita ci appare debole. Quando cerchiamo di provvedere, ci sembra che abbia qualcosa che non va. Ma quando serviamo, la vita ci appare completa, e siamo consapevoli di fare da canale a qualcosa di più grande di noi.

Biografia

Frank Ostaseski ha fondato, nel 1987, lo Zen Hospice Project (ZHP) di San Francisco, il primo e più grande hospice buddhista statunitense. Il progetto nasce con l’obiettivo di coniugare la spiritualità e l’azione sociale, e di promuovere una maggiore sensibilità nell’assistenza ai malati terminali, attraverso una formazione del personale professionale e volontario mirata a coltivare saggezza e compassione attraverso il servizio.
Alle origini dello Zen Hospice Project c’è la comunità dello Zen Center di San Francisco, che da sempre si era occupata dei suoi membri in fase terminale, e aspirava ad estendere le stesse cure a chi ne aveva maggiormente bisogno: poveri e senza tetto colpiti da AIDS, cancro, morbo di Alzheimer e altre gravi patologie.
«Lo Zen Hospice Project – racconta Ostaseski nella postfazione del libro – partì con un’idea semplice. Non avevamo un piano dettagliato. Semplicemente, credevamo che ci fosse una naturale corrispondenza fra chi, impegnandosi nella pratica meditativa, coltivava la “mente che ascolta”, e chi, prossimo a morire, di quell’ascolto profondo aveva particolare bisogno. Eravamo convinti che la presenza di una persona serena nella stanza poteva bastare a cambiare le cose. Eravamo anche convinti che in un’offerta di assistenza il beneficio è reciproco. Prendendoci cura degli altri ci prendiamo anche cura di noi stessi. È un punto di vista che trasforma radicalmente la qualità del servizio offerto».
In diciassette anni, sotto la direzione di Ostaseski, lo ZHP cura il tirocinio di quasi mille volontari. Il modello organizzativo non è gerarchico: le decisioni vengono prese collegialmente; pazienti, familiari, professionisti e volontari svolgono tutti la loro funzione, ciascuno dalla propria specifica posizione. «Non c’era chi dava aiuto e chi lo riceveva – osserva ancora Ostaseski – Si imparava e si cresceva insieme alla presenza della morte. E a ciascuno è stata data l’opportunità di crescere attraverso l’incontro onesto e diretto con la morte».
Nel 2004 Ostaseski fonda l’Alaya Institute, derivazione dello Zen Hospice Project. L’istituto, di ispirazione buddhista, si propone di favorire il cambiamento individuale e socioculturale diffondendo approcci che accordino pieno riconoscimento alla dimensione spirituale del morire.
Colpito da un attacco cardiaco nel 2008, e sottoposto a un intervento di triplo bypass, Ostaseski tiene tuttora conferenze e ritiri di studio, anche in Italia, per chi è impegnato in attività di assistenza o lotta contro una grave malattia.
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