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Un'assistenza medica centrata sulla relazione

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08/01/2014

Tratto da:
Daniel Goleman, Intelligenza emotiva, RCS Libri, Milano, 1999, p. 217-219

Guida alla lettura

In questo brano tratto dalla sua opera più famosa, “Intelligenza emotiva”, Daniel Goleman riflette sull’importanza di una corretta relazione medico-paziente nel processo di cura e guarigione – e, di converso, sulle negative conseguenze per il paziente di un atteggiamento sbrigativo e distratto, ancorché tecnicamente ineccepibile, da parte del personale di cura.
Partendo da un’esperienza personale, Goleman sottolinea come nella maggior parte dei casi gli interrogativi degli ammalati non trovino risposte sufficientemente chiare ed esaurienti: una sensazione che tutti possiamo aver provato andando da uno specialista o dal medico di famiglia. Questo accade perché le persone non vengono messe a proprio agio, e non ricevono tutto l’ascolto necessario. Ogni domanda lasciata senza risposta, sottolinea Goleman, alimenta «l’incertezza, la paura, la tendenza ad avere pensieri catastrofici», e soprattutto porta i pazienti ad avere una bassa aderenza alle terapie. Al contrario, un approccio empatico e aperto può comportare minori sofferenze fisiche, un più limitato turbamento emotivo e persino tempi di recupero più rapidi, anche dopo interventi impegnativi.
Tutto questo, naturalmente, non si improvvisa dall’oggi al domani: richiede tempi lunghi e politiche sanitarie lungimiranti. Rispetto al 1995, data di uscita di “Intelligenza emotiva”, molto è stato fatto per migliorare la gestione umana del paziente, le informazioni che vengono trasmesse e, di conseguenza, la compliance. Ma molto resta da fare, soprattutto nel campo delle cure palliative e delle terapie del dolore cronico. L’impegno della Fondazione Graziottin ne è testimonianza. Di attualità rimane quindi l’auspicio di Goleman di orientare la formazione di medici e infermieri anche a questi aspetti, per far sì che l’assistenza sia sempre più centrata sulla relazione e capace di creare una sintonia basata sull’ascolto reciproco.
Il giorno in cui un controllo di routine rilevò la presenza di sangue nelle mie urine, il medico mi mandò a fare un esame diagnostico nel quale mi venne iniettato un tracciante radioattivo. Ero disteso su un tavolo mentre una macchina per i raggi X sopra di me prendeva immagini successive per documentare la progressione del tracciante nei reni e nella vescica. Mentre facevo il test, ero in compagnia: un mio carissimo amico, medico egli stesso, era capitato da me per una visita di qualche giorno e si era offerto di accompagnarmi all’ospedale. Stava seduto nella stessa stanza dove la macchina per i raggi X, seguendo una traiettoria prefissata, ruotava per ottenere diverse proiezioni, emetteva un ronzio e scattava; ruotava, ronzava e scattava.
Per completare l’esame ci volle un’ora e mezza. Alla fine un nefrologo entrò in fretta e furia nella stanza, si presentò sbrigativamente e scomparve per analizzare le lastre, guardandosi bene dal tornare a dirmi che cosa mostrassero.
Mentre stavamo lasciando la sala raggi, io e il mio amico incrociammo il nefrologo. Scosso e un po’ intontito per via del test, non ebbi la presenza di spirito di chiedergli l’unica cosa che mi aveva tormentato per tutta la mattina. Ma il mio accompagnatore lo fece per me: «Dottore – disse – il padre del mio amico morì per un cancro alla vescica, e lui vorrebbe sapere se le lastre mostrano segni di cancro». «Nessuna anomalia» fu la concisa risposta del nefrologo, che doveva affrettarsi a visitare il paziente successivo.
La mia incapacità di chiedere la cosa che in quel momento più mi premeva emerge migliaia di volte ogni giorno negli ospedali e nelle cliniche di tutto il mondo. Uno studio constatò che quando i pazienti si trovano nella sala d’aspetto del medico hanno in media tre o più domande da porgli. Ma quando lasciano l’ambulatorio, di quelle domande, in media, solo una e mezza ha trovato risposta. Questa è l’ennesima conferma che le esigenze psicologiche dei pazienti non vengono soddisfatte dalla medicina odierna. Le domande lasciate senza risposta alimentano l’incertezza, la paura, la tendenza ad avere pensieri catastrofici. E portano i pazienti a rifiutarsi di proseguire cure che non comprendono completamente (…)
I momenti nei quali i pazienti affrontano interventi chirurgici o esami invasivi e dolorosi sono sempre temuti con angoscia – e sono un’occasione fondamentale per trattare la dimensione emozionale. Alcuni ospedali hanno sviluppato programmi di addestramento pre­operatorio rivolti ai pazienti, in modo da aiutarli a lenire le loro paure e a gestire il proprio disagio – ad esempio insegnando loro le tecniche di rilassamento, rispondendo alle loro domande prima dell’operazione e dicendo loro con diversi giorni di anticipo e in termini chiari quello che probabilmente proveranno durante convalescenza. Il risultato di questi interventi è che i tempi di recupero post-operatorio si accorciano di due o tre giorni (…)
Le tecniche di rilassamento possono aiutare i pazienti a superare parte della sofferenza derivante dalla loro sintomatologia, come pure a gestire le emozioni che probabilmente la stimolano o la acuiscono. Un modello esemplare è quello della Stress Reduction Clinic di Jon Kabat-Zinn, presso il Medical Center della Massachusetts University, che offre ai pazienti un corso di meditazione e yoga di dieci settimane: l’obiettivo è quello di riuscire a essere presenti a se stessi e consapevoli degli episodi emotivi nel loro svolgersi, e di coltivare un esercizio quotidiano che generi uno stato di profondo rilassamento.
Le tecniche di rilassamento e lo yoga sono anche al centro di un programma innovativo, comprendente una dieta a basso tenore lipidico, sviluppato da Dean Ornish per curare le cardiopatie. Dopo aver seguito questo programma per un anno, i pazienti la cui cardiopatia era grave al punto da richiedere un bypass coronarico mostrarono un’inversione nella loro tendenza a depositare la placca nelle arterie. Ornish mi ha spiegato che la tecnica di rilassamento è una delle parti più importanti del suo programma. Come quello di Kabat-Zinn, anche il programma di Ornish trae vantaggio da quella che Herbert Benson chiama la “risposta di rilassamento”: l’opposto fisiologico di quello stato di attivazione indotto dallo stress che contribuisce a una gamma tanto vasta di disturbi.
Infine, il fatto di avere medici e infermieri empatici, in sintonia con i pazienti, capaci di ascoltarli e di farsi ascoltare, comporta un altro vantaggio: significa cioè alimentare un’assistenza centrata sulla relazione – in altre parole, riconoscere che il rapporto fra medico e paziente è esso stesso un fattore significativo. Questo rapporto potrebbe essere coltivato più facilmente se la formazione dei medici comprendesse alcuni strumenti essenziali dell’intelligenza emotiva, in particolare l’autoconsapevolezza e le arti dell’empatia e dell’ascolto.

Biografia

Daniel Goleman (Stockton, 1946) è uno psicologo e scrittore statunitense. Ha studiato all’Amherst College, in Massachusetts, e si è laureato ad Harvard, specializzandosi in psicologia clinica e sviluppo della personalità.
La sua opera più conosciuta è “Intelligenza emotiva” (Emotional Intelligence), pubblicata nel 1995. In questo libro afferma che la conoscenza di se stessi, la capacità di automotivarsi, la perseveranza, l’entusiasmo e l’empatia sono elementi che influenzano profondamente la nostra vita e, nella nostra autorealizzazione, hanno un ruolo non meno importante di quello delle capacità cognitive.
Per le sue ricerche Goleman ha ottenuto due nomination al Premio Pulitzer, un premio alla carriera dall’American Psychological Association e l’elezione a membro onorario dell’American Association for the Advancement of Science. E’ inoltre presidente associato del “Consorzio per la ricerca sull’intelligenza emotiva”, presso la Rutgers University di New Brunswick (New Jersey, USA).
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