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Sono una creatura

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20/10/2010

Tratto da:
Giuseppe Ungaretti, Vita d'un uomo. Tutte le poesie, Mondadori 1969, 19a edizione 2005

Guida alla lettura

Giuseppe Ungaretti scrisse questa breve e intensa lirica durante la prima guerra mondiale, e precisamente il 5 agosto 1916, nelle primissime ore della Sesta battaglia dell’Isonzo (4-17 agosto).
Il monte San Michele ricordato all’inizio è in realtà un modesto rilievo del Carso, di 275 metri, arido e aspro. Grazie alla sua posizione dominava la bassa valle dell’Isonzo e permetteva di tenere sotto controllo la città di Gorizia. In seguito alla Prima battaglia dell’Isonzo (23 giugno - 7 luglio 1915), la postazione era stata fortificata dal Quarto reggimento austroungarico “Honvéd”. L'esercito italiano tentò per mesi di riconquistarla: le estese linee difensive resistettero a diversi attacchi e il monte cadde nelle mani dell’esercito italiano più di un anno dopo, durante la Sesta battaglia.
Il monte San Michele è tristemente famoso anche per essere stato teatro del primo attacco condotto con i gas sul fronte italiano: il 29 giugno del 1916 gli austroungarici assaltarono di sorpresa l’esercito italiano con oltre 6000 bombole contenenti una micidiale miscela di cloro e fosgene, provocando più di 7000 morti fra i nostri soldati. Gli ustionati gravi furono finiti a colpi di mazza ferrata.
Di fronte a queste infinite atrocità, Ungaretti paragona il proprio silenzioso pianto a una delle pietre del San Michele: fredda, dura, senz’anima, incapace di reagire. La lirica, nello stile inconfondibile del poeta, è breve e asciutta, capace di parlare con grande immediatezza al nostro cuore. Ci limitiamo quindi a due osservazioni.
Il titolo, come spesso accade nell’ermetismo, è parte integrante della composizione e ne rivela il messaggio più profondo: se, provato da tanto orrore, Ungaretti soffre di un dolore ormai senza voce, è proprio perché si sente una semplice creatura, come tutti noi impotente di fronte all’abisso del male. In questo modo il poeta si fa prossimo, con affettuosa schiettezza, a chiunque pianga la perdita di un figlio, di uno sposo, di un compagno di vita sul campo di battaglia: e il pensiero corre subito spontaneo alle famiglie dei nostri soldati trucidati in Afghanistan e, in tempi meno recenti, in Iraq, Kosovo e Bosnia-Erzegovina.
L’ultima terzina – “La morte / si sconta / vivendo” – è normalmente interpretata così: la pace che ci aspetta con la morte, spesso unica liberazione dalla guerra, va pagata con le sofferenze della vita. E’ una lettura affermata, ma soffusa di due pulsioni fortemente negative: un cupo pessimismo, e un irrimediabile senso di solitudine. Preferiamo spostare il punto di vista dalla morte alla vita, e proponiamo questa diversa interpretazione: la morte ci accompagna in ogni istante della vita, ma proprio per questo può essere riscattata continuando a vivere nonostante tutto, giorno dopo giorno, attraversando le sofferenze senza smarrire la nostra umanità, e donando vita e futuro a coloro che condividono con noi il cammino.
Il Valloncello di Cima Quattro, ove Ungaretti scrisse i suoi versi, faceva parte delle postazioni che componevano la prima linea italiana alla vigilia della Sesta battaglia. Lo si può raggiungere a piedi anche oggi, partendo dal paese di San Martino del Carso, che fu raso al suolo durante gli scontri e ricostruito a una quota più bassa dopo il conflitto. Al calvario di San Martino, Ungaretti dedicò un’altra lirica immortale: “Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro / Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto / Ma nel cuore / Nessuna croce manca / E’ il mio cuore / Il paese più straziato”.
Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata.

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede.

La morte
si sconta
vivendo.

(Valloncello di Cima Quattro, 5 agosto 1916)

Biografia

Giuseppe Ungaretti nasce ad Alessandria d’Egitto l’8 febbraio 1888 da genitori di Lucca, emigrati per motivi di lavoro. Il padre, operaio allo scavo del Canale di Suez, morirà due anni dopo la sua nascita. La madre è fornaia e con molti sacrifici riesce a far studiare il figlio in una delle più prestigiose scuole di Alessandria. L’amore per la poesia nasce durante gli anni della giovinezza.
Nel 1912 si trasferisce a Parigi: viene a contatto con l’ambiente artistico internazionale e conosce Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi, Picasso, Giorgio De Chirico, Amedeo Modigliani.
Nel 1914 torna in Italia. Allo scoppio della guerra si arruola volontario e combatte sul Carso: in trincea scopre un’umanità povera e dolente, che ritroveremo nei versi di “Porto sepolto” e “Allegria di naufràgi”, primi documenti di una poesia che, dopo D’Annunzio, riparte dalla parola nuda, essenziale.
Dopo la guerra lavora a Parigi, dapprima come corrispondente del giornale “Il Popolo d’Italia”, e in seguito come impiegato all’ufficio stampa dell’ambasciata italiana. Nel 1921 si trasferisce a Roma e lavora all’ufficio stampa del Ministero degli Esteri. Nel 1925 aderisce al fascismo firmando il “Manifesto degli intellettuali fascisti”.
Negli anni Trenta è inviato speciale per “La gazzetta del popolo”: viaggia in Egitto, Corsica, Olanda e nell’Italia meridionale, raccontando le esperienze vissute in “Il povero nella città” e “Il deserto e dopo”.
Dal 1936 al 1942 insegna Letteratura italiana all’Università di San Paolo del Brasile. In quegli anni, muore di appendicite il figlio Antonietto. La sofferenza immensa del poeta si rifletterà nelle raccolte “Il dolore” e “Un grido e Paesaggi”.
Dopo il rientro in Italia, il poeta viene nominato Accademico d’Italia e, per chiara fama, professore di Letteratura moderna e contemporanea all’Università di Roma. Caduto il regime fascista, mantiene un ruolo attivo nell’ambiente letterario e culturale, e conserva l’incarico accademico fino al 1965. Pubblica altre raccolte (come “La terra promessa”) e tiene ovunque conferenze e letture. Muore a Milano il 2 giugno 1970.
Lo stile di Ungaretti è scabro ed essenziale, e segna l’inizio alla corrente poetica che prenderà ben presto il nome di “ermetismo”. La metrica è libera, senza rime e con versi spesso brevissimi, ma di grande efficacia espressiva.
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