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Donne russe

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30/12/2009

Tratto da:
Enzo Biagi, Testimone del tempo, Società Editrice Internazionale, Torino, 1970, p. 251-254

Guida alla lettura

Questa galleria di ritratti è contenuta in “Testimone del tempo”, uno dei libri più intensi e famosi di Enzo Biagi. Con un insolito procedimento narrativo, il giornalista inizia parlando di un racconto che ha profondamente colpito la sua immaginazione, e dell’anziana contadina che ne è protagonista. Sino a quando una frase sulla forza interiore delle donne di Russia non evoca il ricordo di tante donne vere, incontrate durante i suoi reportage.
Vite nascoste, spesso umili, a volte profondamente ferite dalla vita. Ma mai miserabili, e sempre ricche di una peculiare dignità, anche quando una fede ingenua e la sofferenza di generazioni avessero spinto ad abbracciare un’ideologia poi rivelatasi disumana e sanguinaria.
La prosa di Biagi è come sempre scarna, essenziale. Ma se riusciamo a leggere, dietro le annotazioni apparentemente insignificanti, il senso di una vita, ogni ritratto ci lascia allora un’immagine forte e indimenticabile: l’infaticabile commercio della vecchietta dal corpetto bianco; il distacco dalla realtà della direttrice della casa-museo di Anton Checov; la disperazione di Olga Bergholz, perseguitata da Stalin ma incapace di lasciare Leningrado, nelle cui foreste «sono sepolti coloro che amò e anche le sue illusioni»; Larissa, innamorata dell’occidente, forse incapace di trovare il suo posto e la pace; Tatiana, comunista militante, guida al museo dell’Ermitage ma incapace di cogliere l’essenziale in quell’immenso luogo di bellezza; le mendicanti della chiesa di San Luigi dei Francesi, sbozzate con delicatezza impressionistica; la prima ballerina dell’Opera di Leningrado, splendente sulla scena e dimessa nelle strade della città; e la «vecchia ragazza che conosce molte lingue e molte letterature»: povera, secondo il metro di questo mondo, ma ricca nel cuore e nello sguardo, al punto da chiamare “casa” l’unica stanza in cui vive, e “giardino” due minuscole piantine di filodendro e di aloe.
Il racconto parla di una anziana contadina che vive sola in un villaggio degli Urali. L’isba di legno marcisce, nella notte i topi corrono sotto la stufa. È una creatura dolce e indifesa, senza rimpianti. Porta la vacca a pascolare lungo i fossati, non è proibito, non si fa danno a nessuno, perché quella è “l’erba di Dio”; corre ad aiutare chi ha bisogno; crede nei santi che con le prediche ammansiscono gli orsi, e nella saggezza dei detti popolari: «Se mulina la neve qualcuno si è impiccato», «Se il piede resta fra la porta vuol dire che arriva un ospite».
Una vicenda grigia, che narra il malinconico destino di un personaggio rassegnato. Sottolineo una frase che è una morale, e mi sembra giusta: «L’aria imperiosa e virile delle donne russe, abituate a cavarsela da sole sia sul lavoro che in casa...».
Penso alla vecchietta dal corpetto bianco: offriva mirtilli e uva spina ai clienti del mercato kolkosiano. Viveva in Crimea, ogni tanto riempiva la valigia di lattughe e di mele, andava col carretto all’aeroporto e si metteva in viaggio per Mosca. La sera rientrava, carica di nastri, di colbacchi o di stivaloni di feltro. Una volta, disse, aveva fatto un buon affare; era tornata indietro con una latta di vermi per la pesca: al paese scarseggiavano.
La piccola signora che fa la direttrice nella casa di Cechov (1). Ha un volto tondo e mite, un sorriso sfumato. Sale le scale con fatica, agitando il ventaglio. Ha perso il marito e l’unico figlio a Stalingrado. La sua vita è ormai chiusa qui dentro: parla del dottor Anton Cechov come di una persona che le appartiene, come di quei due soldati dispersi nella battaglia del Volga. «Questo calamaio glielo ha regalato una vicina di casa», racconta. «Era povera e lui la curò rifiutando il compenso».
Innaffia le pianticelle della stanza da letto, aggiusta le lenzuola con le cifre che la madre dello scrittore ricamò, spolvera la lumiera di porcellana azzurra. Spiega: «Prima di chiudere gli occhi Cechov mormorò: Ich sterbe, parlò in tedesco, “io muoio”. Noi russi sappiamo morire. Sa che cosa disse il grande medico Pavlov, mentre in agonia dettava a un assistente le sue impressioni, e qualcuno bussava alla porta? Disse: “Pavlov è occupato, sta morendo”»...
Non dimenticherò mai Olga Bergholz, i suoi occhi rossi di pianto, la faccia esangue. Non firmò una denuncia e fu perseguitata: Stalin mandò il marito al manicomio e l’uomo non ne usci vivo; aveva tre figlioli ed è rimasta sola. Ha scritto dei versi e un libro di memorie, forse per ritrovarsi, perché i ricordi l’aiutino a vivere. Ogni pomeriggio Olga Bergholz è assorta, barcolla, si aggrappa al braccio di un amico per chiedere attenzione, per reggersi. Credo che quando le sembra di affogare nella tristezza cerchi un po’ di forza nella bottiglia di cognac.
Nella sua storia ci sono gli anni favolosi della rivoluzione e quelli terribili dell’assalto nazista; i giorni bui del sospetto e quelli riscaldati dalla speranza. E’ la vicenda di una ragazza borghese che si converte al marxismo: «Edificavo la società nuova», racconta, «e non credevo più in Dio». Durante l’assedio di Leningrado parlava alla radio, per rincuorare la gente e i soldati. Si teneva in piedi con una fetta di pane e un bicchiere di acqua calda. Un giorno aiutò una donna che trascinava una slitta sulla neve, e sopra c’era un bambino morto. Lo seppellirono insieme scavando la terra dura. Sui muri sbiadiva il paradossale manifesto di una commedia musicale, l’ultimo spettacolo prima delle cannonate. Il titolo era: “Anton lvanovic è in collera”. Fra le macerie era rimasto in piedi qualche edificio; si moriva di fame, ma si tenevano ancora i concerti.
La marxista Olga Bergholz aveva perduto tutto, l’uomo che amava e i figli, ma non il coraggio, il senso del dovere e della giustizia. Rimprovera il padre medico che, in uno scantinato, accende la candela: « Babbo, perché consumi la luce dello Stato?». Sul lago ghiacciato passano colonne di autocarri che trasportano farina e carne, e ripartono portando via vecchi, donne e bambini. Olga Bergholz rimane al suo posto; qui, fra i canali di Leningrado, nelle foreste che circondano la città, sono sepolti coloro che amò e anche le sue illusioni. Sul tavolino tiene una raccolta di versi. Due sono segnati col lapis: «Giovinezza mia! Non ti richiamo indietro. / Tu eri per me un carico e un fardello».
Penso a Larissa, bella, molto elegante, abiti e profumi di Parigi, i grandi occhi verdi un po’ selvaggi: appartiene alla classe dei privilegiati, è figlia di un intellettuale importante, vive in un appartamento di sette stanze e ogni tanto va all’estero, conosce le lingue e i costumi degli occidentali, è giovane e scettica, ha tanta gran voglia di evadere, non so in che cosa creda. Uno scrittore suo coetaneo ha detto: «Nella mia generazione ci sono piccoli cercatori di verità, piccoli eroi, piccoli cinici e piccoli dogmatici». Larissa è forse una ragazza che non sa, o non può scegliere, fra due mondi. Disse una sera: «Da noi quello che non è proibito è comandato». Credo che non troverà il suo posto, né la pace.
Tatiana invece non ha dubbi. Ha ventidue anni, è iscritta al «Komsomol» (2), è la perfetta fanciulla sovietica, potrebbe figurare degnamente nei manuali. Fa la guida all’Ermitage (3), sa tutto e ripete con inesorabile precisione che se uno volesse visitare l’intera galleria dovrebbe percorrere ventitré chilometri, che nell’immenso palazzo ci sono millecentonovantasei porte, millenovecentotrentasei finestre e centotredici scale, e i quadri, esposti e conservati nei sotterranei, sono trecentomila.
Tatiana ha imparato anche la lezione politica. Un pomeriggio andammo insieme a teatro, e non ricordo come nell’intervallo del balletto il discorso finì sulle donne russe. Tatiana affermava che pochissime ragazze fanno esperienze amorose non legittime e consacrate, che lei, ad esempio, non avrebbe mai sposato uno straniero, che amava per due ragioni la sua patria: vi era nata, ed era in più il paese del socialismo, che avrebbe preferito vivere in Siberia piuttosto che a Roma; che è giusto affidare l’educazione dei figli allo Stato, che è vero che molti mariti russi spesso bevono e qualcuno picchia anche la moglie, ma la famiglia, nel complesso, qui è più felice. Le donne lavorano, badano alla casa, e trovano anche il tempo per leggere.
«Davvero – insistevo, – preferirebbe vivere a Novosibirsk piuttosto che a Roma?». «Sì», rispondeva, e diventava tutta rossa. Raccontai il colloquio a una giovane studiosa: «Questa Tatiana – commentò – deve essere una cretina di fede».
Ricordo le mendicanti che aspettano impazienti davanti alla chiesa di San Luigi dei Francesi e stendono la mano ai fedeli che escono dalla Messa di mezzogiorno; e la prima ballerina dell’Opera Maly di Leningrado: abitava nel mio albergo, sulla scena sembrava splendente, alta, bruna, bianca nel tulle e nelle luci dei riflettori, come un’immagine irreale; per la strada era una piccola donna vestita senza ricercatezza, borsetta di plastica, scarpe di magazzino, solo il portamento era armonioso, nello stesso tempo fiero e gentile. Ha scritto Nekrassov (4) che le donne russe hanno «gli occhi, gli sguardi e l’andatura delle regine».
Ricordo la vecchia ragazza che conosce molte lingue e molte letterature e che m’invitò a cena a casa sua. La sua casa era una unica stanza: mostrò una scrivania e disse: «Questo è lo studio», un divano e spiegò: «Questa è la mia camera da letto», un tavolo stile impero: «La sala da pranzo», un lettino in un angolo: «La camera di mia madre», due vasi di filodendro e di aloe: «Il mio giardino».
I mobili erano antichi, di gusto, qualche piatto di porcellana con dipinti ufficialetti di Kutuzov (5), forse morti sulla Collina dei Passeri per difendere Mosca dall’invasore Napoleone, una caraffa di cristallo col coperchio d’argento, nella quale nuotavano pezzetti di ghiaccio, un lampadario troppo grande per quelle quattro pareti. Mangiammo cotolette di pollo alla Kiev, gelato di fragole, caffè alla turca; uscii che era già notte, e la vecchia ragazza scese nel cortile dello stabile che odorava di muffa e di umidità, e mi accompagnò al portone per dirmi addio e augurarmi buona fortuna. Non fu una sera triste.

Note della redazione

1) Anton Pavlovič Čechov (1860-1904) è stato uno scrittore, drammaturgo e medico russo.
2) Il termine Komsomol è la contrazione di “Kommunističeskij Sojuz Molodëži”, “Unione comunista della gioventù”, organizzazione giovanile del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.
3) Il Museo dell’Ermitage si trova a San Pietroburgo e ospita una delle più importanti collezioni d’arte del mondo.
4) Nikolaj Alekseevič Nekrasov (1821-1878) è stato un poeta russo, cantore delle sofferenze della povera gente.
5) Michail Illarionovič Goleniščev-Kutuzov, principe di Smolensk (1745-1813), è stato un generale russo, ricordato soprattutto per avere guidato, nel 1812, la vittoriosa guerra contro Napoleone.

Biografia

Enzo Biagi nasce nel 1920 a Pianaccio di Lizzano in Belvedere, in provincia di Bologna. L’idea di diventare giornalista nasce in lui dopo aver letto Martin Eden, di Jack London. Nel 1937 scrive il suo primo articolo, per il quotidiano L’Avvenire d’Italia. Nel 1940 viene assunto dal Carlino Sera, pagina serale del Resto del Carlino, con l’incarico di correggere gli articoli dei reporter.
Nel 1942 viene chiamato alle armi, ma non parte a causa di problemi cardiaci che lo accompagneranno per tutta la vita. L’anno successivo si sposa con Lucia Ghetti, maestra elementare. Poco dopo aderisce alla brigata partigiana “Giustizia e Libertà”.
Terminata la guerra, viene assunto come inviato speciale e critico cinematografico al Resto del Carlino. Nel 1946 segue il Giro d’Italia; nel 1947 parte per l’Inghilterra e racconta il matrimonio della futura regina Elisabetta. È il primo di una lunga serie di viaggi all’estero. Nella sua lunga carriera, scriverà per periodici importanti come Epoca e L’Europeo, e per tutti i principali quotidiani nazionali: La Stampa, Corriere della Sera, La Repubblica.
Nel 1961 diventa direttore del Telegiornale, e l’anno successivo lancia il primo rotocalco della televisione italiana: RT-Rotocalco Televisivo. Nel 1975, collabora con Indro Montanelli alla creazione del Giornale.
Nei primi anni Novanta realizza importanti trasmissioni per la televisione, come Che succede all’Est?, dedicata alla fine del comunismo, e I dieci comandamenti all’italiana (apprezzata anche da Giovanni Paolo II). Segue le vicende di “Mani pulite”, con il Processo al processo su Tangentopoli (1993) e Le inchieste di Enzo Biagi (1993-1994).
Dal 1995 al 2002 conduce Il Fatto, programma di approfondimento sui principali fatti del giorno. Una giuria di critici televisivi voterà la trasmissione come il miglior programma giornalistico mai realizzato dalla Rai. Nell’aprile 2007 torna in ancora in tv con RT Rotocalco Televisivo, che riprende il titolo della sua prima trasmissione. Muore il 6 novembre dello stesso anno, a Milano. E’ ricordato come uno dei giornalisti più capaci, indipendenti e popolari del Ventesimo secolo.
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