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Ritorno a casa

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24/02/2010

Tratto da:
Oliver Sacks, L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi Edizioni, Milano, 2007

Guida alla lettura

In questo coinvolgente brano Oliver Sacks racconta la storia clinica e umana di Bhagawhandi, una giovane indiana affetta da un tumore cerebrale maligno. Dopo una prima manifestazione durante l’infanzia, superata grazie a un riuscito intervento chirurgico, il male riesplode quando la ragazza ha diciotto anni. La prognosi appare subito estremamente critica, operare non è più possibile, e la terapia farmacologica si limita a contenere la progressione del cancro. Ma nel corso delle cure, Bhagawhandi inizia a manifestare strani momenti di assenza, durante i quali ha dolci e rassicuranti visioni del paese natio: «Le pianure, i campi, le risaie vicino al villaggio e la dolce distesa ondulata delle colline fino al limite dell’orizzonte». Come spesso accade nei racconti di Sacks, il fenomeno non è pienamente inquadrabile all’interno di alcuna ipotesi clinica: ma la realtà di queste visioni, di questi ritorni a «un’infanzia teneramente amata e ricordata», placa poco per volta la frustrazione dei medici e accompagna la giovane verso una morte vissuta con un cuore pienamente pacificato, come un sereno ritorno a casa.
La vicenda è tratta da uno dei libri più celebri di Sacks, “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”, un’opera che in tante pagine memorabili ci insegna come, anche quando la guarigione in senso tecnico è impossibile, il paziente possa imparare qualcosa dalla malattia, possa trascenderla con coraggio e spirito di adattamento, sino a trarne un imprevedibile beneficio. E questo, va detto con chiarezza, senza alcuna indulgenza alla rassegnazione, al fatalismo, al dolorismo di tanta filosofia e spiritualità occidentale: ciò che rende questi racconti particolarmente suggestivi, e forse preziosi per chi debba attraversare il deserto della malattia e della disabilità, è che il recupero di una dimensione “altra” rispetto alla sofferenza avviene sempre facendo leva su inimmaginate risorse fisiche, psichiche ed emotive personali, così che – al termine non evitabile della vita o nella convivenza quotidiana con il male – è sempre la persona nella sua integrità e dignità a emergere come protagonista, come vittima non vinta.
Bhagawhandi P., una ragazza indiana di diciannove anni, fu ricoverata nel nostro ospedale nel 1978 per un tumore cerebrale maligno. Il tumore, un astrocitoma, si era presentato una prima volta quando la ragazza aveva sette anni, ma essendo allora di scarsa malignità e ben circoscritto, permise una resezione completa e una completa ripresa funzionale, consentendo a Bhagawhandi di tornare a una vita normale.
La tregua durò dieci anni, durante i quali Bhagwhandi visse intensamente la sua vita, con gratitudine, e con la piena consapevolezza (era una ragazza intelligente) di avere in testa una “bomba a orologeria”.
All’età di diciott’anni il tumore si ripresentò, molto più invasivo e maligno, e non più asportabile; fu perciò effettuata una decompressione per permetterne l’espansione. Tale era la situazione al momento del ricovero, cui si accompagnavano debolezza e insensibilità del lato sinistro del corpo, saltuari attacchi convulsivi e altri problemi.
In un primo tempo Bhagawhandi si mostrò serena, pareva accettare pienamente la sorte che l’attendeva, ma cercava la compagnia degli altri, voleva fare, divertirsi, vivere ogni esperienza finché era possibile. Col progredire del tumore verso il lobo temporale e il graduale rigonfiamento del cuoio capelluto sopra la breccia decompressiva (le somministrammo steroidi per ridurre l’edema cerebrale), gli attacchi divennero più frequenti – e più strani.
Gli attacchi originali, che si ripresentavano ora di tanto in tanto, erano convulsioni da grande male. I nuovi attacchi avevano caratteristiche completamente diverse. La ragazza non perdeva coscienza, ma assumeva un’aria “sognante” (e così si sentiva); fu facile accertare (e confermare con un EEG) che ora aveva frequenti attacchi a livello temporale, i quali, come insegna Hughlings Jackson, sono spesso caratterizzati da “stati sognanti” e “reminiscenze” involontarie.
Presto questo vago stato di sogno assunse un carattere più definito, più concreto e più visionario: prese la forma di visioni dell’India, paesaggi, villaggi, case, giardini, nei quali Bhagawhandi ritrovava subito i luoghi conosciuti e amati nella sua infanzia.
«Se questo ti turba», le dicemmo «possiamo cambiare farmaco».
«No» rispose con un sorriso calmo. «Mi piacciono questi sogni, mi riportano a casa».
A volte c’erano persone, di solito familiari o vicini; talvolta si parlava o si cantava o si danzava; una volta si trovò in una chiesa, un’altra volta in un cimitero; ma per lo più c’erano le pianure, i campi, le risaie vicino al villaggio e la dolce distesa ondulata delle colline fino al limite dell’orizzonte.
Si trattava sempre di attacchi temporali? In un primo tempo parve di sì, ma poi non ne fummo più cosi sicuri, perché gli attacchi temporali tendono ad avere forma piuttosto fissa: una singola scena o canzone, ripetuta senza variazioni, cui corrisponde un focolaio corticale altrettanto fisso. I sogni di Bhagawhandi invece non avevano tale fissità, ma le offrivano panorami e distese di paesaggi sempre diversi. Che si trattasse allora di allucinazioni da intossicazione provocata dalle dosi massive di steroidi che le venivano somministrate? Ciò era plausibile, ma non potevamo ridurre gli steroidi, perché altrimenti sarebbe entrata in coma e sarebbe morta in pochi giorni.
Inoltre, la cosiddetta “psicosi da steroidi” presenta spesso eccitazione e disorganizzazione, mentre Bhagawhandi era sempre lucida, serena, tranquilla. Che fossero fantasie o sogni, in senso freudiano? Oppure quel tipo di follia onirica (onirofrenia) che può talvolta presentarsi nella schizofrenia? Anche di questo non potevamo essere sicuri, perché, sebbene vi fosse una specie di fantasmagoria, i fantasmi erano senza dubbio dei ricordi. Essi si presentavano parallelamente a uno stato normale di lucidità e coscienza, ed evidentemente non erano oggetto di una catessi troppo marcata né carichi di impulsi passionali. Parevano piuttosto somigliare a certi dipinti o poemi sinfonici, talvolta lieti, talvolta tristi, evocazioni, rievocazioni, ritorni di un’infanzia teneramente amata e ricordata.
Di giorno in giorno, di settimana in settimana, i sogni, le visioni si presentarono sempre più spesso, e con un’intensità sempre crescente. Non erano più sporadici, ma occupavano la maggior parte della giornata. Bhagawhandi ci appariva rapita, come in trance, gli occhi a volte chiusi, a volte aperti ma ciechi al mondo esterno, le labbra increspate in un lieve sorriso misterioso. Se qualcuno veniva a chiederle qualcosa, come dovevano fare le infermiere, rispondeva subito, con lucidità e gentilezza, ma l’impressione di tutti, anche delle infermiere meno inclini alle fantasie, era che si trovasse in un altro mondo dal quale non dovevamo distoglierla. Io condividevo questa sensazione e, benché curioso, ero restio a indagare. Una volta, una volta sola, chiesi: «Bhagawhandi, che cosa succede?».
«Sto morendo» rispose. «Sto andando a casa. Torno da dove sono venuta; è il mio ritorno, se vuole».
Passò un’altra settimana: ormai Bhagawhandi non rispondeva più agli stimoli esterni, ma pareva completamente avvolta in un suo mondo e, benché avesse gli occhi chiusi, conservava sul viso il lieve sorriso di felicità. «Sta ritornando a casa» dicevano le infermiere. «Presto sarà arrivata». Tre giorni dopo Bhagawhandi morì. O forse dovremmo dire “arrivò”, giunse al termine del suo passaggio in India?

Biografia

Oliver Sacks, nato a Londra nel 1933, è professore di Neurologia presso l’Università di California a Los Angeles (UCLA) e svolge da molti anni attività clinica privata a New York.
Medico colto e sensibile, ha scritto numerosi libri sui suoi pazienti, sviluppando e approfondendo un genere letterario – quello delle storie cliniche – risalente alla tradizione del XIX secolo. In essi, Sacks descrive non solo le patologie neurologiche, ma anche e soprattutto l’esperienza personale delle persone affidate alle sue cure.
Quando un caso risulta incurabile, il racconto si focalizza sul modo in cui la persona riesce ad adattarsi alla sua malattia, facendo forza sulla proprie risorse affettive, culturali, morali, ma spesso anche grazie alla “plasticità” del cervello, ossia alla sua capacità di minimizzare gli effetti di un danno localizzato chiamando sinergicamente in azione altre aree intatte.
Attraverso queste storie esemplari, Sacks scolpisce ritratti talvolta inquietanti, sconvolgenti, ma sempre indimenticabili e profondamente umani; e dimostra come la medicina, pur nell’assoluto rigore scientifico che la deve ispirare, non debba mai dimenticare che una persona non si identifica con la sua malattia, e ha sempre una forza interiore e una dignità che trascendono anche le condizioni di sofferenza più inspiegabili e crudeli.
Fra i suoi libri più celebri, oltre a “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”, ricordiamo “Emicrania” (1970), “Musicofilia” (2007) e soprattutto “Risvegli” (1973), da cui è stato tratto un film con Robin Williams e Robert De Niro.

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