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Il potere della musica

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21/03/2012

Tratto da:
Oliver Sacks, Musicofilia. Racconti sulla musica e il cervello, traduzione di Isabella Blum, Adelphi Edizioni, Milano 2009, p. 431-432

Selezione del brano, guida alla lettura e biografia a cura di Emanuela Aliquò

Guida alla lettura

«Se è vero che la musica influenza tutti noi – ci può calmare, animare, dare conforto, emozionare, o contribuire a organizzarci e sincronizzarci nel lavoro o nel gioco –, è vero anche che può rivelarsi particolarmente efficace e avere un immenso potenziale terapeutico in pazienti con affezioni neurologiche assai diverse». Così scrive il neurologo Oliver Sacks nella prefazione a “Musicofilia”, termine che indica quella sonorità interiore che ci abita e che ci rende inclini e suscettibili alla musica, anche in condizioni gravemente debilitate e compromesse: «Non si è mai davvero senza niente, mai una tabula rasa», dirà successivamente Sacks.
Nel brano proposto, che ritroviamo nell’ultimo capitolo del volume e che tanto può illuminarci sul concetto di promozione della qualità della vita, Sacks condivide con il lettore il senso di meraviglia e lo sbalordimento per la risposta, a più livelli, che la musicoterapia può suscitare nei pazienti con demenza, «anche quando ormai quasi nient’altro riesce a toccarli».
In particolare, si evidenzia come la musica familiare, che per sua natura custodisce i tesori del passato, possa far ritrovare a questi e queste pazienti la “grazia sognante” di un mondo apparentemente perduto, per usare una bella espressione di Proust, l’artista che dei ricordi involontari (“le improvvise intermittenze del cuore”) provocati da un suono, da un colore, da un profumo, da un sapore, ha fatto il motivo dominante della sua monumentale opera.
Nella demenza, la carica emotiva e affettiva delle vecchie canzoni (che agirebbero, quindi, come una sorta di “madeleine” o “petite phrase” della Sonata di Vinteuil, per citare due celebri episodi della Recherche), oltre a favorire il riemergere di pensieri e ricordi biografici, può innescare reazioni in grado di concorrere, per quanto possibile, al miglioramento complessivo delle condizioni di vita: la «musica di un certo tipo» può stimolare il senso d’identità; creare atmosfere intense e vitali; favorire il sorgere di legami; far sperimentare il calore della condivisione e dello stare insieme; invitare al canto, che nel setting di musicoterapia collettiva è in grado di generare momenti di altissima bellezza; e «restituire chi è perso nella demenza, seppure soltanto per poco, a se stesso e agli altri».
La maggior parte dei pazienti con demenza (…) conserva facoltà e gusti musicali anche quando la maggior parte delle altre capacità mentali sono gravemente compromesse. Questi soggetti riescono a riconoscere la musica e a rispondere ad essa emotivamente anche quando ormai quasi nient’altro riesce a toccarli. Ciò spiega come mai, per questi pazienti, sia tanto importante avere accesso alla musica, sia attraverso esecuzioni dal vivo o registrate, sia tramite una musicoterapia strutturata. A volte la musicoterapia è collettiva, altre volte individuale. E’ sbalorditivo vedere individui muti, isolati e confusi riscaldarsi in presenza della musica, riconoscerla come qualcosa di familiare, e cominciare a cantare e a stabilire un legame con il terapeuta. Ancora più sbalorditivo è vedere come una decina di persone – affette da demenza grave, chiuse in mondi (o non mondi) tutti loro, apparentemente incapaci di qualsiasi reazione coerente, per non parlare di interazioni – risponda alla presenza di un musicoterapeuta che comincia a suonare di fronte a loro. C’è un’attenzione improvvisa: dieci paia di occhi distratti si fissano sul suonatore. I pazienti torpidi diventano vigili e consapevoli, quelli agitati si calmano. Che sia possibile guadagnarsi l’attenzione di pazienti di questo tipo e conservarla per qualche minuto è già di per sé un fatto straordinario. Al di là di questo, c’è spesso un coinvolgimento specifico con quanto viene suonato (di solito, in questi gruppi, si eseguono vecchie canzoni che tutti, di quella generazione conoscono).
La musica familiare agisce come una sorta di proustiano aiuto mnemonico, suscitando emozioni e associazioni da tempo dimenticate, e consentendo, ancora una volta, l’accesso a stati d’animo e ricordi, pensieri e mondi, in apparenza completamente perduti. I volti si animano di espressione mentre i pazienti riconoscono la vecchia musica e ne avvertono il potere emozionale. Una o due persone, forse, cominciano a cantare, altre poi si uniscono, e ben presto l’intero gruppo – molti elementi del quale erano pressoché privi della parola – canta insieme, nella misura in cui può farlo.
«Insieme» è una parola fondamentale, perché qui fa presa il senso della comunità, e questi pazienti, che sembravano irrimediabilmente isolati dalla malattia e dalla demenza sono in grado, almeno per un po’, di riconoscere gli altri e stabilire dei legami.

Biografia

Oliver Sacks, nato a Londra nel 1933, è professore di Neurologia presso l’Università di California a Los Angeles (UCLA) e svolge da molti anni attività clinica privata a New York.
Medico colto e sensibile, ha scritto numerosi libri sui suoi pazienti, sviluppando e approfondendo un genere letterario – quello delle storie cliniche – risalente alla tradizione del XIX secolo. In essi, Sacks descrive non solo le patologie neurologiche, ma anche e soprattutto l’esperienza personale delle persone affidate alle sue cure.
Quando un caso risulta incurabile, il racconto si focalizza sul modo in cui la persona riesce ad adattarsi alla sua malattia, facendo forza sulla proprie risorse affettive, culturali, morali, ma spesso anche grazie alla “plasticità” del cervello, ossia alla sua capacità di minimizzare gli effetti di un danno localizzato chiamando sinergicamente in azione altre aree intatte.
Attraverso queste storie esemplari, Sacks scolpisce ritratti talvolta inquietanti, sconvolgenti, ma sempre indimenticabili e profondamente umani; e dimostra come la medicina, pur nell’assoluto rigore scientifico che la deve ispirare, non debba mai dimenticare che una persona non si identifica con la sua malattia, e ha sempre una forza interiore e una dignità che trascendono anche le condizioni di sofferenza più inspiegabili e crudeli.
Fra i suoi libri più celebri, oltre a “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” (1986), ricordiamo Risvegli (1987), da cui è stato tratto un film con Robin Williams e Robert De Niro; Vedere voci (1990); Su una gamba sola (1991); Emicrania (1992); Un antropologo su Marte (1995); L’isola dei senza colore (1997); Zio Tungsteno (2002); Musicofilia (apparso per la prima volta nel 2007; la nuova edizione riveduta e ampliata è del 2009); L’occhio della mente (2010).
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