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Vivere la malattia mortale

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25/03/2008

Tratto da:
Enzo Bianchi, AIDS. Vivere e morire in comunione, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI), 1997, p. 60-66 - Per gentile concessione delle Edizioni Qiqajon

Guida alla lettura

I cristiani non conoscono strade che aggirino il dolore: ciò che Dio offre loro è la possibilità di attraversarlo al suo fianco, consapevoli che la sofferenza e la morte non sono l’ultima parola per l’uomo. Da questa certezza nasce la possibilità di accettare e affrontare la malattia, senza cedere alle diverse tentazioni dell’eroismo prometeico e disumano, della rassegnazione paludata di devozionalismo, della rivolta e della disperazione. La risposta del cristiano autentico è duplice: resistenza e sottomissione. Due strategie apparentemente opposte, ma Enzo Bianchi ci spiega come si possano conciliare alla luce della fede, aprendoci alla capacità non solo di accettare il dolore nella nostra personale esistenza, ma anche – sull’esempio di Cristo – di com-patire e farci prossimi di chi è ferito.

Quando sopraggiunge una malattia mortale l’uomo si trova di fronte a un bivio: attribuire un senso alla malattia oppure negarglielo. E vi sono essenzialmente quattro vie per negare il senso alla malattia, per rifiutarsi di viverla: la prima è quella dell’eroismo. E’ l’atteggiamento di chi dichiara giusto il dolore perché esalta la grandezza dell’uomo; è l’arroganza di chi si vanta di soffrire perché la grandezza della propria sofferenza mostra agli altri la misura della propria forza. In realtà questo atteggiamento titanico che si obbliga a non temere il dolore è un cammino di rimozione della malattia e non una sua interpretazione. Non solo, ma sovente questo atteggiamento porta a un misconoscimento dell’ altro, a una colpevolizzazione di chi non assume la stessa eroica resistenza: l’altro cessa di essere un termine di relazione e diventa strumentale all’affermazione della propria forza. Nel caso dell’AIDS è questo l’atteggiamento che con più frequenza si ritrova tra i sieropositivi.
Il secondo percorso, a lungo praticato e predicato nel cristianesimo ma assolutamente estraneo all’evangelo, è quello della rassegnazione. Ma di fronte ai malati Gesù non ha mai esortato alla rassegnazione, non ha mai chiesto di “offrire a Dio la propria sofferenza”. In realtà questo atteggiamento corrisponde a una visione fatalista della vita in cui la malattia viene subita passivamente senza essere affrontata: è un atteggiamento di cinica demissione che può assicurare
per un certo tempo un relativo equilibrio psicologico ma che finisce per provocare un crollo progressivo e totale.
C’è poi la via della rivolta, di chi nega l’evidenza e afferma: “Non può essere vero! Se è cosi, nulla ha senso!”. Di fronte alla malattia che ci contraddice c’è spazio solo per il rifiuto, la sterile ribellione, la negazione di qualsiasi senso. Ma questo finisce per dichiarare “insensata” e “intollerabile” non solo la malattia ma la vita stessa. È il terreno fertile in cui nascono i pensieri di suicidio come possibilità magari ambigua di impedire che il comportamento nella malattia smentisca una vita intera, o che il giudizio esterno sulle cause della malattia usi violenza all’intimo della coscienza.
E infine esiste la via della disperazione: la malattia frustra ogni speranza e ogni apertura al futuro, in essa si scorge solo un abisso in cui precipitare, un tunnel senza uscita né speranza di luce. Si acconsente a che la libido mortis insita nell’uomo prenda il sopravvento, sottraendosi cosi, anche in questo caso, al confronto reale con la malattia.
Se queste sono le vie per rifiutarsi di vivere la malattia, il cristiano deve però conoscere una via di assunzione della malattia che le attribuisca un senso: è il cammino della resistenza e della sottomissione. Malattia e dolore sono provocazioni inferte alla radice del senso della nostra vita, ma di fronte a queste realtà il cristiano non si arrende, bensì oppone resistenza in una lotta che è pazienza, preghiera, perseveranza nell’invocazione e nel dialogo con il Signore. Anche nella malattia e di fronte ai malati o ai morenti occorre ricordare che l’appello che Dio rivolge in Cristo a ogni uomo è una chiamata alla vita.
Resistere significa allora confessare che siamo più grandi della malattia che viviamo, non nel senso che siamo degli eroi invincibili dal male, ma nel senso che la nostra verità è più profonda e più vasta della malattia che viviamo. Accanto a questa resistenza allora può nascere la sottomissione a Dio, l’adesione a Colui che può dar senso al mio soffrire come ha dato senso alla mia vita precedente trascorsa nella salute.
Ma il resistere al dolore e il sottomettersi a Dio implica che il cristiano abbia accettato di guardare in faccia la malattia e l’abbia assunta dandole il nome che solo ne svela il senso: la croce. La croce del Signore è una parola per il dolore umano, per la malattia, per il faccia a faccia con la morte. Il cristiano che nella fede pone la sua malattia in relazione con la croce compie un’operazione che non può essere improvvisata ma che richiede un lungo esercizio, una paziente preparazione durante tutta la vita. E croce non significa spiritualità doloristica ma apertura alla resurrezione: la croce proclama che il dolore, la sofferenza, la morte non sono l’ultima parola sull’uomo.
Affermare che la nostra vita, che la vita di ogni uomo è più grande della malattia che l’attraversa significa anche riuscire a fare del cammino verso la morte un cammino di solidarietà con gli altri: non solo con chi ci è caro e ci sta vicino, ma anche con quanti, lontani o sconosciuti, si trovano sulla stessa strada di sofferenza e di malattia. Se andiamo o prepariamo qualcuno ad andare verso la morte come verso un evento tragico che ci separa dagli altri, allora la morte resterà un evento doloroso e privo di senso; ma se cresciamo nella consapevolezza che il nostro essere mortali ci conduce, più di ogni altra realtà, alla solidarietà con tutti gli uomini, allora l’incamminarsi verso la morte può diventare la celebrazione della nostra intima unità con il genere umano. Anziché separarci dagli altri, la morte può allora unirci – in modo nuovo, inatteso, sorprendente – agli altri; può svelarci nuovi volti e nuove verità nelle persone che credevamo di conoscere; può essere occasione di esprimere una gratitudine che nel pieno delle nostre forze non ci sognavamo nemmeno.
Ho visto uomini e donne che, pur morendo senza fede, hanno saputo fare della morte un atto di amore e di gratitudine verso gli altri. Persone che, magari ormai solo a gesti, riuscivano ancora a proclamare con forza la loro gioia di essere nati, di aver vissuto con gli altri, di aver conosciuto dei volti amici; persone che hanno testimoniato come la gratitudine per la comunione che si è vissuta è sempre più forte del rimpianto per il fatto di doversi separare.
Se riuscissimo a far percepire questa verità di comunione ai morenti che accompagniamo non ci sarebbe bisogno di alcun annuncio esplicito delle verità cristiane: l’intensità del vissuto testimonierebbe da sola la sua durata per l’eternità. Il nostro sguardo sul morente cesserebbe allora di essere nostro e sarebbe lo sguardo stesso di Dio. A questo siamo chiamati come cristiani, ad amare l’altro fino a saperlo contemplare con gli occhi di Dio, perché questa è l’autentica contemplazione cristiana: guardare l’altro, il mondo intero con gli occhi di Dio. (...)
Ricorderò sempre uno degli ultimi dialoghi che ho avuto con un morente. Quasi volendo conservare una distanza mi disse: “Mi rincresce, ma non posso credere nel tuo Dio”; gli risposi: “lo sono qui per te, perché siamo della stessa carne, e tu non puoi essere un estraneo per me: non lo sei stato in vita, non sarà la morte a renderti tale!”. “Allora, se c’è un Dio non può essere che il tuo..”.

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele) e Ostuni (Brindisi).
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2008 è stato invitato, in qualità di “esperto”, alla XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
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