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Vivere sotto minaccia

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08/04/2008

Tratto da:
Bruno Chenu, Dio e l'uomo sofferente, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI), 2005, p. 57-62 - Per gentile concessione delle Edizioni Qiqajon

Guida alla lettura

Una malattia potenzialmente mortale ci apre gli occhi sulla realtà della nostra finitezza. Il tempo diventa improvvisamente prezioso, si sente l’esigenza di andare all’essenziale. Sono queste le reazioni che vive e ci racconta Bruno Chenu, sacerdote francese, dopo la diagnosi di tumore.
La sua funzione lo porta a condividere con noi anche una lettura della malattia alla luce della fede. Chenu non ha dubbi, e lo sottolinea con forza: il male è uno scandalo, la sofferenza non ha valore in sé, e chi afferma che Dio si compiace del nostro dolore è un bestemmiatore. Tutta la vita di Cristo è una lotta per l’integrità dell’uomo, una missione di guarigione e di riscatto.
Se la sofferenza può assumere un significato, questo risiede nel “come” la si vive: aprendosi agli altri, integrandola in un percorso coerente di crescita umana, e riuscendo – in ultima istanza – a porre ogni fiducia non nelle proprie sole forze, ma anche e soprattutto in un Dio che, attraverso il Figlio crocifisso, ci è “compagno nella prova”.
La mia condizione – ma è poi così singolare? – consiste nel vivere sotto minaccia. Questo, cosa cambia?
a) In questa situazione mi rendo conto di essere mortale. Mi direte che questo è evidente per tutti. Sì, però finché siamo in buona salute non ce ne rendiamo pienamente conto. Spingiamo più in là l’assunzione di un termine terreno al nostro itinerario. La prova vi rimette davanti agli occhi e alla coscienza la possibilità di una fine vicina, ineluttabile. Ciò che era dietro, rispetto a una chiara coscienza, appare ora davanti. L’irrompere della morte in questa piena consapevolezza dev’essere integrato.
b) Questa appropriazione personale del carattere finito della nostra esistenza mi invita personalmente a non dilapidare il tempo che passa. Ogni istante diventa il più prezioso. Non si può più dire: “Ho un mucchio di anni davanti”. Tutto sta per finire presto. Al contempo non si tratta di gettarsi in un iperattivismo come se si avesse ancora qualcosa di importante da fare. Non si tratta di redditività, di nuova missione da compiere. Si tratta piuttosto di gustare l’istante che passa e che, forse, non potrà ripetersi. Si tratta di essere totalmente se stessi, più nella gratuità riconoscente che nell’eccitazione attivista.
c) Vivere sotto minaccia invita necessariamente ad andare all’essenziale. E l’essenziale non è un oggetto, una conquista, un impegno, ma un disimpegno, un certo modo di porsi nella vita di fronte a Dio e in mezzo agli altri, nel cavo di una rimessa in causa della salute personale. Cito Maurice Bellet: «La mia dignità consiste nel non rassegnarmi».  «Vorrei davvero, vorrei proprio da questa traversata aver conseguito almeno una cosa: avere perso il gusto delle cose vane».
d) Nel momento della prova si può gettare uno sguardo all’indietro. Come osserva Maurice Bellet: «Si è di fronte alla totalità della propria vita. Voglio dire che si pensa: ecco ciò che sarà stata la mia vita. Anche se c’è un seguito, un prolungamento (ah, come cercherò di viverlo bene), la vita è già compiuta per la sua maggior parte, è passata. Si, io sarò stato questo».  Ma, da parte mia, questa constatazione non suscita alcuna amarezza. Lo sguardo che ricapitola tutto ciò che si è cercato di fare è anche un gesto eucaristico, con il suo rito penitenziale, il suo gesto di offerta e la sua azione di grazie.
e) Vivere sotto minaccia, infine, significa accettare che il cancro possa tornare, possa un giorno riattaccarci. La spada di Damocle è là, anche se, fortunatamente, non ci si pensa tutti i giorni. L’unico rischio è di preoccuparsi a ogni minimo dolore avvertito, a ogni minima anormalità momentanea. Non bisogna passare il proprio tempo ad auscultarsi.
Si potrebbero prolungare queste osservazioni con una riflessione sul senso cristiano della sofferenza. Ho scritto in proposito in una stagione in cui non ero direttamente minacciato. Ma sono ancora d’accordo con quanto ho scritto “in teoria” alcuni anni fa. E ora lo riprendo.
La prima convinzione che va ricordata è che la sofferenza è uno scandalo, e che la fede cristiana non è un’abile trovata per ridurre questo scandalo. Tutto il ministero di Gesù, infatti, è uno scacco alla sofferenza, una lotta per l’integrità dell’uomo, una pratica di guarigione. E il recupero della salute non è solo una parabola della salvezza spirituale: vuole rendere manifesto che il regno di Dio definitivo non conoscerà “né lutto, né lamento, né sofferenza” (Ap 21,4). Anche per Gesù la passione è uno scandalo, ed egli prega perché “questo calice passi” da lui (cf. Mt 26,39; Mc 14,36; Lc 22,42).
In termini più precisi, e contrari a una deriva della tradizione spirituale, l’atteggiamento di Gesù significa che la sofferenza non ha valore in sé. Essa destruttura e disumanizza. Apre una falla in tutte le relazioni e innanzitutto all’interno di se stessi. Trascina verso il basso più che verso l’alto.
È quindi una bestemmia dire che Dio si rallegra della sofferenza o la manipola come strumento di punizione dell’umanità peccatrice. Dio non trova alcun piacere sadico in una realtà che offusca la sua immagine umana. Lungo tutta la Bibbia, egli si rivela come un Dio di vita e non di morte, di liberazione e non di frustrazione. Nei confronti della sofferenza non chiama al compiacimento ma alla resistenza. Il dolore degli uomini è sempre una prova per la loro immagine di Dio.
Che farne allora di questa sofferenza senza valore intrinseco che pure appare come ineluttabile lungo il percorso di una vita umana? Se ci si lascia ispirare dal comportamento di Gesù, appare che la sofferenza prende senso a partire da qualcosa di altro da se stessa. Il suo significato è sempre un valore aggiunto alla nuda esperienza. E vorrei esporre un’esperienza teologale:
a) Uno degli effetti più immediati della sofferenza è il ripiegamento se non la chiusura su se stessi. L’essere umano è solo al mondo. E, ancora peggio, ha l’impressione che nessuno ne voglia sapere di lui. Gesù non esprime forse qualcosa di questa angoscia nel suo grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Allora l’esperienza di una prossimità umana è una boccata d’aria pura – ritornerò su questo più avanti. Chi è in buona salute deve sapere che chi soffre lo attende con impazienza, senza poter sempre formulare questa attesa. Il movimento verso l’altro costituisce l’umanità di tutti.
b) Se il dolore ci incatena a noi stessi, ci immerge anche nell’abisso del presente. Il futuro si tinge di morte. Lo scoraggiamento rode anche i caratteri più saldi: ci si confessa sconfitti e ci si arrende. Un’operazione salutare sarà quella di riannodare le fila della propria storia, di ritrovare il cammino della fiducia nella vita. Gesù non ha forse ridato speranza al buon ladrone?
c) Ma è possibile che il gesto più difficile da compiere sia quello di spogliarsi di se stessi e di rimettersi nelle mani di Dio. «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Un atteggiamento di fede, dopo l’amore e la speranza. Dio non è il committente della sofferenza, ma il compagno nella prova. Nel suo Figlio crocifisso garantisce la propria presenza accanto a tutti quelli che soffrono e il limite che ha posto al potere della morte. L’ultimo nemico è sì la morte, ma anch’essa sarà distrutta (cf. 1Cor 15,26).
Bruno Chenu (1942-2003), religioso della congregazione degli Agostiniani dell’Assunzione (noti come “Assunzionisti”), fu professore di Teologia all’Institut Catholique di Lione, caporedattore per la religione del quotidiano La Croix e copresidente del Gruppo di Dombes (che riunisce una quarantina di teologi cattolici e protestanti di lingua francese per il dialogo fra le diverse chiese cristiane).
Ammalato di tumore, morì due mesi dopo aver scritto “Dio e l’uomo sofferente”, in cui si interroga sulla presenza di Dio nel mistero del dolore e illustra con sereno realismo la sua esperienza della malattia.
Un’esperienza che, insieme con la fede e il limpido sguardo sulla vita, lasciò intatto il suo senso dell’umorismo, che il 28 agosto 2001 gli faceva scrivere ai fratelli e alle sorelle del Gruppo di Dombes: «Nel mese di maggio ho avuto quello che si chiama un “linfoma del testicolo”. Forma di cancro ben nota, perché è quella da cui è stato afflitto il ciclista Lance Armstrong. Quindi, aspettatevi di vedermi sulle strade del Tour de France il prossimo anno!» (Dio e l’uomo sofferente, p. 79-80).
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