EN
Ricerca libera
Cerca nelle pubblicazioni scientifiche
per professionisti
Vai alla ricerca scientifica
Cerca nelle pubblicazioni divulgative
per pazienti
Vai alla ricerca divulgativa

Testamento biologico, fattore giuridico di civiltà

  • Condividi su
  • Condividi su Facebook
  • Condividi su Whatsapp
  • Condividi su Twitter
  • Condividi su Linkedin
22/03/2017

Tratto da:
Enzo Bianchi, La dignità del fine vita, La Repubblica, 21 febbraio 2017

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

«Ognuno di noi non è solo “una vita” determinata da parametri biologici, ma è una persona con relazioni, comunicazione, affetti, e c’è una qualità della vita che non può essere ridotta a quantità dei giorni… Nessuno dovrebbe essere obbligato a redigere il proprio testamento biologico, ma la legge sappia accogliere chi vuole dichiarare anticipatamente questa scelta e garantisca cure palliative specialistiche e di qualità accessibili a tutti, indipendentemente dal reddito o dal luogo di residenza».
Con queste forti parole Enzo Bianchi, fondatore di Bose, riepiloga la sua riflessione sul testamento biologico e sulle cure palliative: due pilastri etici della medicina moderna che non dovrebbero mancare in un paese civile, e che invece in Italia sono tuttora oggetto di sterili polemiche, il primo, e di una legislazione carente e disattenta, le seconde.
La testimonianza di Bianchi ci aiuta anche a capire gli orientamenti autentici del cristianesimo rispetto al dolore e alla morte, a dispetto di certe posizioni ufficiali che tradiscono le istanze di umanità e compassione che dovrebbero animare chi si dice ispirato dal vangelo. Dettare le proprie volontà sul termine della vita e rinunciare all’accanimento terapeutico non significano procurare la morte, ma accettare di non poterla impedire. Al tempo stesso, esigere valide cure palliative significa rifiutare la logica perversa che vede nel dolore uno strumento di “redenzione” per sé e per l’umanità, un dono gradito a Dio, come sostiene – contro ogni evidenza biblica – una millenaria tradizione spirituale.
In questo contesto, e qui il richiamo a recenti fatti di cronaca si fa stringente, «la sedazione palliativa continua, quando sono state tentate senza successo tutte le risorse mediche disponibili, è moralmente possibile perché l’obiettivo è l’alleviamento del dolore, non l’eutanasia». E’ stata questa la scelta di Dino Bettamin, di Montebelluna, rispetto alla quale Alessandra Graziottin ha scritto il 6 marzo scorso un intenso articolo (Voglio morire dormendo, dopo un addio consapevole) e Giuseppe Battimelli, vicepresidente nazionale dell’Associazione Medici Cattolici, ha affermato con chiarezza: «La sedazione palliativa profonda continua nell’immanenza della morte, se praticata con metodi rigorosi, è deontologicamente, legalmente e moralmente lecita perché rientra fra i trattamenti medici e non è una pratica eutanasica».
Quando Samuel Huntington teorizzò lo “scontro di civiltà”, osai preconizzare che nel nostro paese non ci sarebbe stato questo scontro, ma che avremmo vissuto invece uno scontro di etiche: fino a qualche decennio fa, infatti, l’etica cristiana cattolica era in larga parte ispiratrice anche dell’etica laica, ma nell’epoca del pluralismo sono apparse nella nostra società etiche diverse. Così in questi anni assistiamo a un confronto aspro, segnato da ideologie e privo di quella serenità che sarebbe auspicabile per compiere un cammino di umanizzazione condiviso da appartenenti e non appartenenti a religioni diverse.
Nel nostro paese lo scorso anno il tema divisivo era quello delle unioni civili e il mondo cattolico militante ha dato battaglia fino all’ultimo, subendo poi l’esito di una legge da esso ritenuta in contrasto con l’etica cattolica. Attualmente lo scontro sta avvenendo, almeno per ora con toni meno accesi, attorno alla prevista legislazione sul testamento biologico e sui trattamenti di fine vita. Un confronto, va detto con chiarezza, che resta difficile in un paese dove manca una cultura dell’alleviamento del dolore, dove l’accesso alle cure palliative resta lacunoso e in alcune aree praticamente assente, in una società in cui non c’è informazione né educazione sul morire e dove si è ormai smarrita la sapienza e la naturalezza con cui in passato si affrontava questa sfida. I militanti del diritto all’eutanasia così come quelli della vita da conservare a ogni costo per ora non sembrano impegnati a fornire un discorso convincente e articolato, ma paiono preoccupati gli uni che ci sia una legge in materia, gli altri che questa invece non sia assolutamente emanata.
Quando si ascolta “la gente”, si constata una paura sorda e muta nell’affrontare questo argomento. C’è sì rimozione della morte, ma soprattutto timore grande per ciò che potrà accadere, per mancanza di fiducia nei medici e nelle strutture sanitarie: i più temono un’estensione abusiva del diritto all’eutanasia, una sorta di pratica della morte procurata per ragioni economiche, cioè contro le persone anziane a carico della collettività; ma fa paura anche l’idea di finire nelle mani di persone che decidono senza ascoltare le ragioni del paziente e dei famigliari e che vogliono prolungare le cure secondo il loro giudizio o per interessi estranei al morente. Oggi c’è coscienza del diritto a morire con dignità, soffrendo il meno possibile e questa, unita alla centralità acquisita dal soggetto umano nella nostra cultura, richiede sia il testamento biologico sia una normativa sui trattamenti di fine vita.
Da parte mia ritengo necessario e urgente che ai cittadini sia consentito di redigere un “testamento biologico” o una “dichiarazione anticipata” avente rilevanza legale che precisi le condizioni auspicate per il proprio fine vita. Purtroppo finora una procedura di questo tipo ha avuto forti opposizioni da alcuni settori della chiesa italiana, ma si dovrebbe prendere atto che invece i vescovi delle conferenze episcopali sia della Germania sia della Svizzera hanno invitato i loro fedeli a redigere un biotestamento cristiano, ispirandone addirittura le modalità: si tratterebbe in particolare di specificare se si accetta o meno la somministrazione di farmaci per lenire il dolore, anche quando questi avessero come effetto collaterale di abbreviare la vita del paziente, e di indicare se si desidera che i trattamenti per il prolungamento della fase terminale della vita siano tralasciati o sospesi quando la loro efficacia fosse ridotta al semplice ritardare il momento del decesso.
La contrapposizione tra il considerare la nutrizione e l’idratazione artificiale quale sostegno vitale da somministrarsi sempre e comunque e, d’altra parte, il ritenerle cure che possono essere sospese, è a mio avviso radicalizzata e artificiosa. Sappiamo tutti che nutrizione e idratazione sono sostegni vitali, ma in alcune circostanze – come quando richiedono un intervento chirurgico o un atto medico invasivo – possono diventare gravose, sproporzionate e causa di ulteriori sofferenze, fino a configurarsi come accanimento terapeutico, cosa che richiederebbe la loro sospensione. A questo punto vi è il rischio di introdurre una casistica – tra l’altro soggetta a conoscenze terapeutiche e risorse tecniche in continua evoluzione – nella quale la morale non considererebbe innanzitutto il soggetto morente né il suo dolore, bensì la pertinenza di un trattamento specifico rispetto alla legge generale. L’etica cristiana dice no a cure mediche sproporzionate, ben sapendo che la legge non può normare tutte le situazioni, presenti e future. Si tratterà invece di valutare caso per caso, con attenzione alla situazione complessiva del malato, ascoltando la sua volontà e la propria coscienza. Già Pio XII, in un’allocuzione ai medici cattolici nel 1957, distingueva tra mezzi “ordinari” e “straordinari” per conservare la vita e dichiarava diritto del malato la rinuncia all’accanimento terapeutico. Per questo anche il Catechismo di Giovanni Paolo II afferma che «l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima… Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire» (CCC 2278). Ne consegue che il ricorso alla sedazione palliativa continua, quando sono state tentate senza successo tutte le risorse mediche disponibili, è moralmente possibile perché l’obiettivo è l’alleviamento del dolore, non l’eutanasia, che è sempre precisa volontà di mettere fine alla vita del paziente.
Appare evidente a tutti che qui il confine tra etica cristiana ed etica laica è davvero sottile e si può innestare da entrambe le parti la tentazione dell’ipocrisia che scatena il giudizio e la condanna. Per questo risulta importante l’alleanza tra il paziente, il suo fiduciario, il medico e i familiari: il malato non sia lasciato solo a decidere la propria sorte – con l’eventualità di innescare il ricorso al suicidio assistito – ma interagiscano con lui innanzitutto il medico, che può discernere “con scienza e coscienza” le reali possibilità di vita e di morte del malato, e poi i familiari, le persone vicine al paziente, a cominciare da chi il malato ha eventualmente indicato come suo rappresentante nel testamento biologico. Un’alleanza nella quale il malato deve avere la priorità, con la sua sofferenza e il suo desiderio espresso anche anticipatamente, e dove entrano in gioco la coscienza dei medici e dei familiari. Ognuno di noi non è solo “una vita” determinata da parametri biologici, ma è una persona con relazioni, comunicazione, affetti, e c’è una qualità della vita che non può essere ridotta a quantità dei giorni.
Certo, nessuno dovrebbe essere obbligato a redigere il proprio testamento biologico o a tratteggiare la “pianificazione anticipata delle cure”, ma la legge sappia accogliere chi vuole dichiarare anticipatamente questa scelta, favorisca l’alleanza medico-paziente-fiduciario che lascia spazio alla coscienza e garantisca cure palliative specialistiche e di qualità accessibili a tutti, indipendentemente dal reddito o dal luogo di residenza. Ne va della qualità della vita di ciascuno, malato o sano che sia.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. E’ stato priore dalla fondazione del monastero sino al 25 gennaio 2017: gli è succeduto Luciano Manicardi. La comunità oggi conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.

Vuoi far parte della nostra community e non perderti gli aggiornamenti?

Iscriviti alla newsletter