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Morte di una donna: la gelosia che spegne la vita

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18/02/2015

Tratto da:
Cesare Pavese, Poesie del disamore. In: Opere, Giulio Einaudi Editore 1968

Guida alla lettura

In questa dolente lirica, datata nel manoscritto 2-3 novembre 1937, Cesare Pavese ritrae con parole semplici e terribili la morte di una donna uccisa per gelosia. Il poeta è efficacissimo sia nel descrivere la psicologia dell’assassino, sia nella costruzione drammatica della composizione.
L’uomo, un uomo vecchio, «ha la terra» e «ha una donna»: da subito emerge una logica non di amore, ma di possesso, premessa quasi obbligata di ogni relazione che finisca per soffocare la libertà, fino a negare la vita. Questa donna è piacevole da scoprire e da guardare, supina, come la terra: di fronte a sé l’uomo non vede una persona dotata di soggettività e di libertà, ma un oggetto da contemplare a lungo, in un fascio d’ombra che impedisce alla luce di filtrare e illuminare lo spazio dei corpi e dei sentimenti.
Di fronte agli occhi chiusi di lei, l’uomo capisce all’improvviso che il suo sorriso è segno di «un altro ricordo», ossia di un altro uomo – non sappiamo se presente o passato: la gelosia esplode senza freni, proprio come quando la terra è infranta da un intruso, sino a che la stretta del vecchio spegne per sempre quel sorriso intollerabile.
Anche dal punto di vista strutturale, questa lirica è un piccolo capolavoro: la tensione ci afferra e ci inquieta a poco a poco, ma la violenza non è mai descritta, e solo l’ultimo verso rivela l’atroce verità. Incessanti richiami alimentano il crescendo del pathos, creando parole-simbolo (terra, donna, stretta) che ricorrono con angosciante frequenza: il continuo parallelo fra la donna e la terra; la stretta dei ricordi nella mente della donna e la stretta degli uomini sul suo corpo da sempre indifeso; la stretta dell’altro uomo sul corpo vivo della donna, invisibile e perciò tanto più intollerabile per l’amante accecato dall’odio, e la stretta di questi, visibile finalmente (quanta amarezza, in questo semplice avverbio) sul corpo della donna morta.
Negli appunti originari di Pavese, la lirica è intitolata “Cattiva annata”: titolo eloquente, che ben riassume la mentalità di un uomo che pone sullo stesso piano la terra avara di frutti e la donna che si sottrae all’abbraccio soffocante e incapace di vero amore. Tanti, troppi uomini continuano a pensare e ad agire così: lo conferma, quasi ogni giorno, la triste statistica dei femminicidi. Alle donne vittime di questa violenza dedichiamo i versi immortali di Pavese, e il nostro impegno per un futuro finalmente libero dalla prigionia e dalla morte.
L’uomo vecchio ha la terra di giorno, e di notte
ha una donna ch’è sua – ch’era sua fino a ieri.
Gli piaceva scoprirla, come aprire la terra,
e guardarsela a lungo, supina nell’ombra
attendendo. La donna sorrideva occhi chiusi.

L’uomo vecchio stanotte è seduto sul ciglio
del suo campo scoperto, ma non scruta la chiazza
della siepe lontana, non distende la mano
a divellere un’erba. Contempla tra i solchi
un pensiero rovente. La terra rivela
se qualcuno vi ha messo le mani e l’ha infranta:
lo rivela anche al buio. Ma non c’è donna viva
che conservi la traccia della stretta dell’uomo.

L’uomo vecchio si è accorto che la donna sorride
solamente occhi chiusi, attendendo supina,
e comprende improvviso che sul giovane corpo
passa in sogno la stretta di un altro ricordo.
L’uomo vecchio non vede più il campo nell’ombra.
Si è buttato in ginocchio, stringendo la terra
come fosse una donna e sapesse parlare.
Ma la donna distesa nell’ombra, non parla.

Dov’è stesa occhi chiusi la donna non parla
né sorride, stanotte, dalla bocca piegata
alla livida spalla. Rivela sul corpo
finalmente la stretta di un uomo: la sola
che potesse segnarla, e le ha spento il sorriso.

Biografia

Cesare Pavese nasce nel 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo. Il padre, cancelliere del tribunale di Torino, muore nel 1914: questa perdita, e il rigido carattere della madre, incideranno profondamente sull’indole del ragazzo, che crescerà scontroso e introverso, amante dei libri e della natura.
Allievo di Augusto Monti al liceo “D’Azeglio”, il giovane Pavese legge le opere di Gramsci e Gobetti, e frequenta Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Giulio Einaudi, Massimo Mila: ma si trova a suo agio anche nelle trattorie, con la gente comune che un giorno sarà la vera protagonista dei suoi romanzi.
Nel 1930 si laurea con la tesi “Sull’interpretazione della poesia di Walt Whitman”. Inizia a lavorare per la rivista “La cultura” ed esordisce come traduttore: nel corso degli anni affronterà, tra gli altri, Herman Melville, James Joyce, John Steinbeck, Daniel Defoe, Charles Dickens e William Faulkner. Nel 1932, per poter insegnare nelle scuole pubbliche si arrende alle insistenze della sorella e si iscrive al Partito Nazionale Fascista: una scelta che, in seguito, le rimprovererà aspramente.
Nel 1933 viene fondata la casa editrice Einaudi, al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo. Questi sono anche gli anni della tormentata relazione con Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca”, un’intellettuale impegnata nella lotta antifascista. Con molta imprudenza e per amore suo, lo scrittore accetta di far giungere al proprio domicilio lettere a lei indirizzate e gravemente compromettenti sul piano politico: scoperto, rifiuta di fare il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro, poi ridotti a pochi mesi. Al ritorno, scopre che la donna si è sposata: la delusione lo sprofonda in una grave crisi depressiva, che lo terrà a lungo avvinto alla tentazione del suicidio.
Nel 1936 pubblica la prima raccolta di poesie, “Lavorare stanca” e, nel 1941, il primo romanzo, “Paesi tuoi”, cui seguono “La spiaggia” (1942) e “Feria d’agosto” (1946). Chiamato alle armi, viene congedato perché malato di asma. Negli anni del conflitto, avverte una ripugnanza quasi fisica per la violenza: si rifugia nel Monferrato, dove vivrà per due anni “recluso tra le colline”, con l’umiliante sensazione di non saper partecipare alla vita attiva dei suoi compagni di ideali.
Al termine della guerra si iscrive al Partito Comunista, ma anche questa scelta si rivelerà priva di conseguenze pratiche. Il suo impegno è e resta letterario: scrive racconti, romanzi, articoli e saggi, contribuisce alla riorganizzazione dell’Einaudi, si interessa di mitologia, elaborando una teoria sul mito che esprimerà nei “Dialoghi con Leucò” (1947). In quello stesso anno pubblica “Il compagno” (1947); seguiranno, fra gli altri, “La bella estate” e “Prima che il gallo canti” (entrambi del 1949) e “La luna e i falò” (1950). Saranno invece pubblicate postume le “Lettere”, le straordinarie pagine del diario (“Il mestiere di vivere”) e la raccolta di liriche “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, in cui la donna è cantata attraverso i simboli da sempre più eloquenti della sua poetica: la terra, la vigna, il vento, la vita, la morte.
Nel gennaio 1950 conosce a Roma Constance Dowling, una giovane attrice americana di cui si innamora, ma che ben presto lo lascia tornando negli Stati Uniti. A questo nuovo abbandono non riesce a reagire. Scrive sul diario: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». E il 27 agosto si toglie la vita in un albergo di Torino, assumendo una forte dose di sonniferi. Sulla prima pagina dei “Dialoghi con Leucò”, posato sul comodino, annota: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
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