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La luna e i falò: il dramma dell'assenza di radici

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01/04/2015

Tratto da:
Cesare Pavese, La luna e i falò. In: Opere, Giulio Einaudi Editore 1968

Guida alla lettura

Questo brano è tratto dalle pagine iniziali di “La luna e i falò”, una delle opere più belle e significative di Cesare Pavese, l’ultima scritta prima di morire. Il protagonista, che conosciamo con il soprannome di Anguilla, torna nelle Langhe dopo tanti anni trascorsi in America. Trovatello, non ha radici e non ha una vera famiglia, da sentire come sua. Adottato per cinque lire al mese da contadini che abitavano nella cascina della Gaminella («Su queste colline quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospedale, oltre ai figli che avevano già»), a tredici anni si era trasferito alla ricca cascina della Mora, dove aveva stretto amicizia – nei limiti consentiti dalle distanze sociali del tempo – con le figlie del padrone: Silvia, Irene e Santa. Il ritorno al paese è amaro, e durerà poco: Anguilla scoprirà che il mondo della sua memoria non esiste più, apprenderà le sventure che hanno sconvolto la vita delle tre sorelle e assisterà sgomento alla fine violenta della Gaminella, data alle fiamme dal nuovo padrone reso folle dalla povertà e dall’ignoranza. Anguilla riparte senza aver trovato quello che cercava: «Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Il racconto della guerra, dei suoi orrori e della tragica fine di Santa chiude un romanzo di straordinaria bellezza narrativa, in cui il tempo del presente e il tempo dei ricordi si alternano con sapienza.
Nelle prime pagine, che qui proponiamo, Anguilla narra con dolente malinconia il suo essere senza radici, e il trauma del ritorno. L’incipit è secco e ci introduce immediatamente nel dramma del protagonista: «Non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere”». Il senso di solitudine è profondo, e il nostro pensiero corre a tutto coloro che, anche oggi, sono senza un luogo che possa raccogliere i loro ricordi, o che quel luogo hanno perso per sempre, sradicati dalla povertà, dalla guerra, dalle carestie.
Il contatto con il vecchio podere della Gaminella è ancora più duro: il casotto è sempre lo stesso, ma intorno gli alberi e la terra sono cambiati. E soprattutto non c’è più il noccioleto della sua infanzia: «M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato… ma non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito». Quegli alberi amati erano la sua vera e sola radice, ma una radice fragile e insufficiente: «Capii lì per lì che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi». E il paese a lungo desiderato appare improvvisamente come una stanza di città, che si affitta e poi si abbandona, senza che nulla rimanga nell’aria e nel cuore.
Nell’assenza di radici Pavese addita il lato più drammatico della solitudine e della miseria. In quest’epoca di nuove povertà, facciamo il possibile per essere l’uno radice dell’altro, perché la crisi che sembra assediare ogni elemento di certezza materiale delle nostre esistenze non porti via anche ciò che materiale non è e che conta più di ogni bene concreto: gli affetti, le speranze e i ricordi.
C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove san nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.
Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c’è più, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l’ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colline quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospedale, oltre ai figli che avevano già. C’era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po’ cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene. Padrino aveva allora il casotto di Gaminella – due stanze e una stalla –, la capra e quella riva dei noccioli. Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno più di me; e soltanto a dieci anni, nell’inverno quando mori la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello. Da quell’inverno Angiolina giudiziosa dovette smettere di girare con noi per la riva e per i boschi; accudiva alla casa, faceva il pane e le robiole, andava lei a ritirare in municipio il mio scudo; io mi vantavo con Giulia di valere cinque lire, le dicevo che lei non fruttava niente e chiedevo a Padrino perché non prendevamo altri bastardi.
Adesso sapevo ch’eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi dell’ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime. Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall’orecchio della nostra capra come le ragazze.
L’altr’anno, quando tornai la prima volta in paese, venni quasi di nascosto a rivedere i noccioli. La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendio così insensibile che alzando la testa non se ne vede la cima – e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri –, era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce. Dalla straduccia che segue il Belbo arrivai alla spalliera del piccolo ponte e al canneto. Vidi sul ciglione la parete del casotto di grosse pietre annerite, il fico storto, la finestretta vuota, e pensavo a quegli inverni terribili. Ma intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita, ridotta una stoppia di meliga. Dalla stalla muggì un bue, e nel freddo della sera sentii l’odore del letame. Chi adesso stava nel casotto non era dunque più così pezzente come noi. M’ero sempre aspettato qualcosa di simile, o magari che il casotto fosse crollato; tante volte m’ero immaginato sulla spalletta del ponte a chiedermi com’era stato possibile passare tanti anni in quel buco, su quei pochi sentieri, pascolando la capra e cercando le mele rotolate in fondo alla riva, convinto che il mondo finisse alla svolta dove la strada strapiombava sul Belbo. Ma non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. La novità mi scoraggiò al punto che non chiamai, non entrai sull’aia. Capii lì per lì che cosa vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci già mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di colture non importi. Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline, potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato padrone, l’avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto adesso mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta, si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti.

Biografia

Cesare Pavese nasce nel 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo. Il padre, cancelliere del tribunale di Torino, muore nel 1914: questa perdita, e il rigido carattere della madre, incideranno profondamente sull’indole del ragazzo, che crescerà scontroso e introverso, amante dei libri e della natura.
Allievo di Augusto Monti al liceo “D’Azeglio”, il giovane Pavese legge le opere di Gramsci e Gobetti, e frequenta Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Giulio Einaudi, Massimo Mila: ma si trova a suo agio anche nelle trattorie, con la gente comune che un giorno sarà la vera protagonista dei suoi romanzi.
Nel 1930 si laurea con la tesi “Sull’interpretazione della poesia di Walt Whitman”. Inizia a lavorare per la rivista “La cultura” ed esordisce come traduttore: nel corso degli anni affronterà, tra gli altri, Herman Melville, James Joyce, John Steinbeck, Daniel Defoe, Charles Dickens e William Faulkner. Nel 1932, per poter insegnare nelle scuole pubbliche si arrende alle insistenze della sorella e si iscrive al Partito Nazionale Fascista: una scelta che, in seguito, le rimprovererà aspramente.
Nel 1933 viene fondata la casa editrice Einaudi, al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo. Questi sono anche gli anni della tormentata relazione con Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca”, un’intellettuale impegnata nella lotta antifascista. Con molta imprudenza e per amore suo, lo scrittore accetta di far giungere al proprio domicilio lettere a lei indirizzate e gravemente compromettenti sul piano politico: scoperto, rifiuta di fare il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro, poi ridotti a pochi mesi. Al ritorno, scopre che la donna si è sposata: la delusione lo sprofonda in una grave crisi depressiva, che lo terrà a lungo avvinto alla tentazione del suicidio.
Nel 1936 pubblica la prima raccolta di poesie, “Lavorare stanca” e, nel 1941, il primo romanzo, “Paesi tuoi”, cui seguono “La spiaggia” (1942) e “Feria d’agosto” (1946). Chiamato alle armi, viene congedato perché malato di asma. Negli anni del conflitto, avverte una ripugnanza quasi fisica per la violenza: si rifugia nel Monferrato, dove vivrà per due anni “recluso tra le colline”, con l’umiliante sensazione di non saper partecipare alla vita attiva dei suoi compagni di ideali.
Al termine della guerra si iscrive al Partito Comunista, ma anche questa scelta si rivelerà priva di conseguenze pratiche. Il suo impegno è e resta letterario: scrive racconti, romanzi, articoli e saggi, contribuisce alla riorganizzazione dell’Einaudi, si interessa di mitologia, elaborando una teoria sul mito che esprimerà nei “Dialoghi con Leucò” (1947). In quello stesso anno pubblica “Il compagno” (1947); seguiranno, fra gli altri, “La bella estate” e “Prima che il gallo canti” (entrambi del 1949) e “La luna e i falò” (1950). Saranno invece pubblicate postume le “Lettere”, le straordinarie pagine del diario (“Il mestiere di vivere”) e la raccolta di liriche “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, in cui la donna è cantata attraverso i simboli da sempre più eloquenti della sua poetica: la terra, la vigna, il vento, la vita, la morte.
Nel gennaio 1950 conosce a Roma Constance Dowling, una giovane attrice americana di cui si innamora, ma che ben presto lo lascia tornando negli Stati Uniti. A questo nuovo abbandono non riesce a reagire. Scrive sul diario: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». E il 27 agosto si toglie la vita in un albergo di Torino, assumendo una forte dose di sonniferi. Sulla prima pagina dei “Dialoghi con Leucò”, posato sul comodino, annota: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
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