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La lacerazione di un'anima

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06/02/2019

Tratto da:
Nazim Hikmet, Poesie d’amore, Mondadori, 2016

Guida alla lettura

Questa lirica del poeta turco Nazim Hikmet riecheggia idealmente una poesia di Paul Verlaine che abbiamo già letto e commentato: «I singhiozzi lunghi / dei violini d’autunno / mi feriscono il cuore / con languore monotono / […] e me ne vado / nel vento ostile / che mi trascina / di qua e di là / come la foglia morta». C’è lo stesso tipo di nostalgia, di smarrimento, davanti a un evento della natura che è sempre un distacco, un separarsi, e che genera tristezza e malinconia.
Soprattutto emerge, nei versi di Hikmet, quel sentimento di lacerazione interiore che tante volte ci coglie di fronte a un avvenimento apparentemente lontano dal nostro mondo interiore, ma che mette in moto associazioni, suggestioni e ricordi che ci inducono alla mestizia. Non capiamo perché ciò avvenga, avremmo bisogno che qualcuno o qualcosa ci spiegasse il motivo remoto del nostro pianto: poi, a poco a poco, ci facciamo forza, e proseguiamo il nostro cammino nella vita.
Il linguaggio di Hikmet è semplice, quotidiano: ma sul piano retorico, il ricorso all’anafora – ossia alla ripetizione insistita di una parola, in questo caso l’avverbio «soprattutto» – crea un “climax”, un’espansione drammatica, di grande efficacia espressiva, una mimesi perfetta del gorgo di angoscia che progressivamente coglie il poeta, e lo lascia da solo, quasi senza forze, in quel viale illuminato dal sole.
Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
soprattutto se sono ippocastani
soprattutto se passano dei bimbi
soprattutto se il cielo è sereno
soprattutto se ho avuto, quel giorno, una buona notizia
soprattutto se il cuore, quel giorno, non mi fa male
soprattutto se credo, quel giorno, che quella che amo mi ami
soprattutto se quel giorno mi sento d’accordo con gli uomini e con me stesso
veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali, dei viali d’ippocastani.

Biografia

Nato nel 1902 a Salonicco, oggi principale città della Macedonia greca, ma fino al 1912, cioè fino alla prima guerra dei Balcani, sotto il controllo ottomano, Hikmet è in realtà turco perché figlio di un diplomatico, a sua volta figlio di un console turco. Si forma inizialmente nel liceo francese di Galatasaray, quartiere di Istanbul; poi, per adeguarsi all’alto lignaggio del padre e del nonno, viene orientato all’Accademia della Marina militare, che tuttavia lascia per motivi di salute.
Inizia a scrivere poesie a 14 anni, e a poco a poco introduce un’innovazione radicale: i versi liberi nella tradizione poetica turca. La sua vita assume presto una connotazione politica perché durante la guerra d’indipendenza in Anatolia si schiera inizialmente con Atatürk, padre della Turchia moderna, rimanendo presto deluso dagli ideali nazionalisti. Decide così di iscriversi al partito comunista e per un certo periodo insegna a Bolu, fra Ankara e Istanbul. Subisce una condanna per marxismo e nel 1922 va in esilio in Russia, anche per l’impossibilità di rimanere in patria dopo aver denunciato i massacri in Armenia. Si iscrive all’Università di Mosca, facoltà di Sociologia. Ed è proprio durante gli studi accademici che incontra letterati e scrittori russi, tra i quali uno dei suoi maestri, il poeta Majakovskij. A Mosca si sposa una prima volta: le nozze verranno annullate al rientro in Turchia nel 1928.
Ritorna in patria senza un regolare visto, finisce in prigione: circa cinque anni durante i quali scrive cinque raccolte di versi. Torna libero grazie all’amnistia generale del 1935. Oltre che alla poesia si dedica al romanzo, al giornalismo, e ad altri lavori letterari più umili come la correzione di bozze, perché deve mantenere la seconda moglie e la madre anziana e vedova.
La sua poesia comincia a essere invisa al regime. Nel 1937, accusato d’avere incitato, con le sue liriche, la Marina turca a ribellarsi, è di nuovo arrestato e subisce un’altra pesante condanna, oltre 28 anni di prigione, a causa anche di attività anti-naziste e anti-franchiste, e per l’opposizione alla dittatura nazionalista di Atatürk. Una commissione internazionale alla quale partecipano Jean-Paul Sartre e Pablo Picasso interviene per far ridurre la condanna e chiedere la scarcerazione, che avverrà comunque dopo 12 anni di prigionia.
In questo periodo scrive i versi più belli, che allargano la sua notorietà in molti Paesi del mondo. Liriche d’amore e d’impegno politico, tanto che Nazim Hikmet è definito il “comunista romantico”: «Nasceranno da noi / uomini migliori. / La generazione / che dovrà venire / sarà migliore / di chi è nato / dalla terra, / dal ferro e dal fuoco». E ancora: «I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi: / che tu venga all’ospedale o in prigione / nei tuoi occhi porti sempre il sole».
Durante il secondo periodo di prigionia divorzia ancora per sposare una traduttrice. Diventa padre di un figlio. Scarcerato nel 1949, subisce due attentati a opera di emissari del regime. Si salva, ma fugge di nuovo in Russia: su una barchetta, attraverso il Bosforo, rischia il naufragio per una tormenta, e viene salvato da una nave bulgara. La Turchia gli toglie la cittadinanza, ma diventa cittadino polacco per fama di poeta. A Mosca, nel 1960, divorzia ancora per sposare la giovane Vera Tuljakova, una giornalista russa. Da questo momento scrive quasi esclusivamente brevi poesie d’amore, di nostalgia, soprattutto quando è lontano dalla moglie per motivi letterari: «Sono cent’anni che non ho visto il suo viso».
Nazim Hikmet muore a 61 anni per un attacco di cuore. Solo 40 anni dopo, nel 2002, il governo turco, a seguito di una petizione firmata da mezzo milione di cittadini, gli restituisce la cittadinanza. Dopo una vita di sofferenze, di battaglie e di odio per motivi politici, Hikmet viene riabilitato.
L’amico poeta Pablo Neruda racconta così il trattamento riservato in carcere a Hikmet: «Condannato alle punizioni più terribili. Costretto a camminare sul ponte di una nave fino a sentirsi troppo debole per rimanere in piedi. Legato in una latrina dove gli escrementi arrivavano a mezzo metro sopra il pavimento… Il mio fratello poeta sente le sue forze mancare; resiste con orgoglio; comincia a cantare; all’inizio la sua voce è bassa, poi sempre più alta fino a urlare; canta tutte le canzoni, tutti i poemi d’amore che riesce a ricordare, i suoi stessi versi, le ballate d’amore dei contadini, gli inni di battaglia della gente comune; canta qualsiasi cosa che la sua mente ricordi; e così vince i suoi torturatori».
(Biografia a cura di Pino Pignatta)
Nazim Hikmet
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