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La compassione come atto di libertà

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La compassione come atto di libertà
05/07/2023

Tratto da:
Guy Vanhoomissen, Malattia e guarigione, Edizioni Qiqajon 2014, p. 83-84

Guida alla lettura

I due episodi della vita di Gesù che Guy Vanhoomissen rievoca in questo brano sono molto noti e, insieme ad altri, contribuirono ad alimentare il conflitto fra il Messia e le autorità religiose del suo tempo: un conflitto che portò, unitamente all’accusa di volersi fare re di Israele a discapito del potere romano, alla condanna a morte per crocifissione.
Nel corso della sua vita pubblica, Cristo prende spesso di mira il legalismo degli uomini religiosi, il loro formalismo, la loro apparente inappuntabilità che cela, come una tomba ripulita solo all’esterno, il marciume della mancanza di compassione, di solidarietà, di amore per le creature nel comune cammino in questa vita. Un’antologia di questi passi metterebbe davvero in luce, con estrema concentrazione, le infinite ipocrisie di coloro che si autoproclamano, ancora oggi, “pastori del gregge”.
Tornano alla mente le parole di Antigone che, proclamando il valore immortale delle “ágrapta nómina”, delle leggi non scritte dell’amore e del rispetto della vita, si oppone a prezzo della vita alla legge civile di Creonte, pur necessaria alla sopravvivenza della pólis.
Ma di questa ipocrisia vogliamo qui ricordare la manifestazione più attuale: l’atteggiamento inflessibile in tema di patologie incurabili, e la negazione del diritto di un malato di decidere della propria sorte quando nulla possa più lenire il dolore e restituire un orizzonte di futuro. La retorica della vita come dono, non richiesto ma irrinunciabile, quando per molti essa non è altro che una trappola infernale, è forse l’espressione più forte di ciò che Gesù intende quando, nel Vangelo di Luca, afferma: «Guai a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!» (Lc 11,46).
Anche i laici non si sottraggono alla tentazione di irrigidire l’esistenza altrui nelle maglie d’acciaio delle loro leggi: si pensi al dibattito attualissimo intorno ai salvataggi dei migranti alla deriva nel Mar Mediterraneo. Per quanto criminale sia l’azione dei trafficanti che, a prezzo di cifre enormi e di fatto estorte, imbarcano uomini, donne e bambini su gusci malfermi, per quanto il problema delle migrazioni debba e possa essere affrontato con un’azione politica internazionale di lungo periodo, che non prescinda da un serio piano di crescita delle nazioni africane, nel momento in cui quei disperati si affacciano alle coste d’Europa, e non di rado fanno naufragio, è preciso dovere di ogni Europeo (perché è in Europa che essi si dirigono) accorrere in soccorso, anche quando le norme approvate da questo o quel parlamento prevedano il contrario. La chiamano “legge del mare”: per Gesù era, più semplicemente e più ampiamente, legge della coscienza e della comune appartenenza all’umanità – che si deve poi allargare con pari e dovuto amore agli animali, agli alberi, ai prati, ai fiumi, ai monti e ai loro ghiacciai, al pianeta azzurro e bellissimo in cui viviamo, agiamo e moriamo.
Più dei sentimenti di Gesù si devono osservare i gesti. E questi non ingannano. Se i malati vengono da Gesù, se a lui portano gli infermi, è perché qualcosa sta cambiando. Davanti a chi soffre Gesù non rimane senza emozioni. Nemmeno senza agire.
Tipica è la reazione che ha in una sinagoga di sabato. Vedendo un uomo seduto con una mano paralizzata, Gesù lo chiama: «Alzati, vieni qui in mezzo» (Mc 3,3). Lo osservano per vedere quello che fa, e allora lui interroga coloro che vogliono coglierlo in fallo perché è sabato: «E’ lecito in un giorno di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o ucciderla?» (v. 4). Un’altra volta, sempre in una sinagoga di sabato, Gesù previene e guarisce donna curva da diciotto anni: «Donna, sei liberata dalla tua malattia» (Lc 13,12). Davanti alle proteste del capo della sinagoga egli risponde come se fosse un’evidenza: «Di sabato, ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva esser liberata da questo legame nel giorno di sabato?» (vv. 15-16).
Chiusi nel loro universo legalista, i sani hanno forse ragione. Una mano paralizzata non è una questione di vita o di morte. Ugualmente, con una donna inferma da diciotto anni si potrebbe attendere ancora qualche ora per guarirla. Ma davanti alla miseria umana Gesù reagisce diversamente. Manifesta la sua libertà e rifiuta di farsi rinchiudere in una legge, anche in una legge religiosa. Quando si vede soffrire e si può fare qualcosa, bisogna agire; davanti alla miseria si deve mettere in opera tutto e senza indugio.
Per Gesù guarire è un dovere di umanità da cui non ci si può dispensare, se si è in grado di agire; e il sabato è secondario in rapporto a tale obbligo.

Biografia

Guy Vanhoomissen (1945), gesuita belga, ordinato presbitero nel 1977, ha trascorso molti anni in India. Dal 1984 insegna Sacra Scrittura al centro “Lumen vitae” di Bruxelles, dove è anche responsabile della biblioteca.
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