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Antigone, la tragedia di una donna generosa e inflessibile

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11/07/2012

Tratto da:
Sofocle, Antigone, 441-501
In: Sofocle, Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone, a cura di Dario Del Corno, trad. di Raffaele Cantarella, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1982, pp. 287-291

Selezione del brano, guida alla lettura e biografia a cura di Emanuela Aliquò

Guida alla lettura

L’Antigone è stata rappresentata nel 442 a.C. e da allora, per l’inesauribilità del suo messaggio e per il fuoco dei dilemmi che solleva, non ha mai smesso di farci sentire il suo grido; di fatto, a distanza di venticinque secoli, il dibattito critico-culturale, incentrato sull’interpretazione, anche evolutiva, della tragedia di Sofocle, è sempre aperto e continua a donarci appassionanti motivi di approfondimento e di riflessione.
Nata dal matrimonio incestuoso tra Edipo e sua madre Giocasta, Antigone vive a Tebe, dove hanno trovano la morte, l’uno per mano dell’altro, i suoi due fratelli, Eteocle e Polinice, in duello per il potere sulla città (l’azione del dramma si collega esattamente al finale dei “Sette a Tebe” di Eschilo).
Creonte (fratello di Giocasta e padre di Emone, promesso sposo di Antigone), nelle cui mani è passato il potere, così decreta: Eteocle, caduto in difesa della patria, sarà seppellito con tutti gli onori; Polinice, invece, reo di aver assalito con le armi la propria città, sarà lasciato insepolto, «pasto ad uccelli e cani, vergogna a vedersi» (vv. 205-206). E per essere sicuro che nessuno osi contravvenire ai suoi ordini, dispone alcune sentinelle a guardia del cadavere. In merito alla questione della sepoltura dei traditori, rigorosamente proibita in territorio attico, pare che tale divieto non necessariamente sarebbe dovuto giungere «all’estremo di proibire o di impedire la sepoltura ad una considerevole distanza dalla città» (M.C. Nussbaum, La fragilità del bene, Il Mulino, Bologna 1996, p. 139).
Antigone, unica sopravvissuta (insieme alla sorella Ismene) della sua sciagurata famiglia, non accetta che Polinice rimanga insepolto (nella cultura antica, la mancanza di onori funebri destinava il defunto a vagare senza patria) e trasgredisce quell’editto: il suo amore e i suoi doveri sono uguali per ambedue i fratelli.
Sorpresa dalle sentinelle mentre, straziata dal dolore, officia i riti funebri per Polinice, «curva su di lui come il cielo sulla terra», e intenta a «versare d’un sol colpo tutto il vino di un grande amore», la fanciulla viene catturata e condotta alla presenza di Creonte (M. Yourcenar, Fuochi, Bompiani, Milano 1984, pp. 33-34).
Sono questi gli sviluppi della vicenda che precedono il passo che proponiamo, tratto dal secondo episodio della tragedia. I versi presi in esame s’incentrano sul celebre scontro tra il nuovo sovrano di Tebe e la figlia di Edipo, irremovibili nelle loro posizioni e nelle loro particolari visioni del mondo, verso cui mostrano un attaccamento esclusivo e assoluto: «Sia Creonte che Antigone – evidenzia la Nussbaum – sono unidirezionali e limitati quando stabiliscono ciò che è importante. Nell’orizzonte di ciascuno dei due sono presenti valori che l’altro non considera» (M.C. Nussbaum, op. cit., p. 157).
Antigone, presa veramente solo dalla “philía” per i suoi morti e «completamente chiusa a ogni considerazione che sia in contrasto con i legami di sangue» (ed è per questo che «rifiuta la vita») difende le sue ragioni in nome di quelle leggi “non scritte e incrollabili degli dei” (vv. 454-455), non abrogabili ed eterne, che trascendono ogni autorità umana e che le impongono di compiere, nei confronti del “fratello dilettissimo” (v. 81), la più antica delle opere di misericordia corporale: la morte, che tra l’altro le appare anche come una liberazione, non è nulla rispetto alla sofferenza che le sarebbe derivata dal mancato compimento del rito sacro (G. Guidorizzi [a cura di], Il mito greco, vol. II, Gli Eroi, Arnoldo Mondadori Editore, I Meridiani, Milano 2012, p. 825).
Il richiamo a Zeus e a Dike, la Giustizia, nominata semplicemente come una delle divinità che abitano il mondo sotterraneo, pare evocare la dimensione spaziale dell’efficacia normativa, e quindi la vigenza universale delle “leggi non scritte” (gli “agrapta nomima”). In tal modo – è stato evidenziato – la fanciulla «abbraccia il cosmo in tutta la sua estensione: il cosmo cui essa appartiene, alle cui leggi obbedisce, e che spazia dall’Olimpo all’Ade» (A. Sestili [a cura di], Sofocle, Antigone, vol. LXVIII, Società Editrice Dante Alighieri, Città di Castello 2001, p. 232).
Per contro, il sovrano di Tebe, per il quale la sicurezza e l’ordine della polis costituiscono il bene supremo, sordo ad ogni ragione che non sia quella di Stato e deciso a cancellare, dall’esercizio del potere, le tradizioni sacre e ogni forma di pietà e di considerazione degli affetti, difende con ostinazione il valore assoluto delle leggi della polis; e nei confronti di chi appare come “un ostacolo da vincere”, usa immagini disumanizzanti come “lavorare i metalli, domare i cavalli, possedere schiavi” (M.C. Nussbaum, op. cit., p. 148). Forte è, inoltre, in Creonte, la preoccupazione di difendere “l’oltraggiata virilità”, nonché d’impedire l’inversione di quello che per lui è l’ordine naturale per il genere maschile e per quello femminile: «Io non sono un uomo, ma l’uomo è costei, se quest’audacia le rimarrà impunita» (vv. 484-485).
Antigone contro Creonte: chi ha ragione, chi ha torto? Sofocle non lo dice, non dà risposte, e i numerosissimi studi evidenziano quanto sia difficile trovare un punto fermo. Per il costituzionalista Zagrebelsky, occorre superare l’orientamento “classico” secondo cui Creonte “rappresenta il male della forza cieca” e Antigone “il bene della legge morale”; come anche quello “hegeliano”, in base al quale «entrambi, per la loro parte, pur nel contrasto mortale, sono nel giusto». Per lo studioso è importante scendere più in profondità e riflettere su una terza interpretazione, che è quella del “dialogo carente”: Creonte dovrebbe chiedersi la ragione per la quale la «città è con Antigone e non con lui; […] Antigone, dal canto suo, deve rendersi cosciente delle conseguenze, per sé e per gli altri, della violazione della legge. L’uno e l’altro devono aprirsi». Si delinea così una nuova prospettiva, che dà luce e respiro, che ammette, anzi richiede, «il darsi da fare per sfuggire alla morte e aprire una possibilità di vita. Di più: un darsi da fare insieme» (G. Zagrebelsky, Il diritto di Antigone e la legge di Creonte, in I. Dionigi (a cura di), La legge sovrana, BUR, Milano 2006, pp. 31-44).
Quanto al finale, Antigone, la cui «irriverenza ai valori della città implicata dal dare sepoltura ad un nemico è molto meno grave della violazione religiosa implicata nell’atto di Creonte» (Nussbaum, op.cit., p. 156), sarà condannata a rimanere rinchiusa in una grotta, segregata da tutti, e s’impiccherà. Emone si ucciderà sul corpo dell’amata e, come se non bastasse, alla notizia della morte del figlio, si toglierà la vita anche Euridice, la moglie di Creonte, che sconsolato verrà condotto dai servi nel palazzo.
Davvero tanti gli spunti di riflessione offerti da questa pagina, a partire dal delicato equilibrio tra diritto naturale e legislazione positiva (per usare categorie attuali), e, più in generale, dalla importante constatazione che, in uno Stato, le tensioni, anche aspre e distruttive, e i diversi volti della tirannia, possono ripresentarsi tutte le volte in cui il legislatore non tenga conto della dimensione etica, del comune sentire, del patrimonio culturale, della logica, dei valori presenti all’interno del gruppo sociale di riferimento.
C’è, poi, l’eterno e ineluttabile conflitto (per gli antichi Greci, il “pólemos” è re e padre di tutte le cose”), tra «uomini e donne; vecchi e giovani; individuo e communitas; vivi e defunti; mortali e divinità» che, oggi come allora, nelle sue molteplici declinazioni, continua a interpellarci, a stimolarci, a offrirci varianti sempre nuove, a istruirci sulla nostra relazione con l’alterità (G. Steiner, Le Antigoni, op. cit., p. 260).
La dialettica tra queste polarità, l’una riferimento irrinunciabile dell’altra, e di cui abbiamo bisogno per crescere, per arricchirci, per maturare uno sguardo sempre più globale sulla vita, è infatti luogo e occasione di “definizione reciproca”: per arrivare a noi stessi e agli altri. «Dalla tragedia – scrive ancora la Nussbaum (Op. cit., p.157) – impariamo a non eliminare il conflitto nel modo sbagliato attaccandoci in modo esclusivo ad un valore trascurando gli altri».
Ma al di là di tutto questo mare di ricchezza e di significati, potenzialmente davvero infiniti, Sofocle ci offre l’opportunità di riflettere sulle nostre modalità decisionali e sul nostro stile relazionale, nonché sulle conseguenze, anche irreparabili (per la nostra vita e per quella altrui), che potrebbero derivare dalla mancanza di empatia, dall’incapacità di ascolto, dalla dismisura, dalle semplificazioni, dall’assenza di flessibilità, dalle visioni solitarie che non si aprono al confronto, dall’applicazione rigida dei principi; insomma, dal non saper essere saggi nella concretezza delle situazioni: la “saggezza pratica”, infatti, importantissimo monito della tragedia sofoclea (cfr. vv. 1347-1348), e di cui non si ha traccia nello scontro tra i due protagonisti, molto si nutre del «desiderio e della curiosità di conoscere il punto di vista degli altri, e le loro possibili ragioni» (G. Cucci, L’etica, ragion d’essere della politica: la tragedia di Antigone nell’interpretazione di Paul Ricoeur, in P. Bovati et al., Le ragioni di Antigone, Cittadella Editrice, Assisi 2011, p. 104).
[Creonte] [ad Antigone] A te dico, a te che inclini il volto a terra: ammetti o neghi di averlo fatto?
[Antigone] Confermo di averlo fatto e non lo nego.
[Creonte] […] E tu rispondi, senza molte parole, ma in breve: sapevi che era stato proclamato di non fare questo?
[Antigone] Sapevo: e come non avrei potuto? Era chiaro.
[Creonte] E dunque hai osato trasgredire questa legge?
[Antigone] Ma per me non fu Zeus a proclamare quel divieto, né Dike, che dimora con gli dèi inferi, tali leggi fissò per gli uomini. E non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli dèi. Infatti queste non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono, e nessuno sa da quando apparvero. E di esse io non volevo scontare la pena al cospetto degli dèi, per paura della volontà di alcun uomo: sapevo di dover morire, e come no?, anche se tu non l’avessi proclamato. E se morrò prima del tempo questo io lo chiamo un guadagno: chiunque, come me, vive fra tante sventure, come non riporta guadagno se muore? Così, per me, avere questa sorte non è dolore, per nulla; ma se il figlio di mia madre, dopo la sua morte, avessi lasciato insepolto cadavere, di tale fatto avrei sofferto: di questo invece non soffro. E se a te sembra che io ora agisca da folle, questa follia la devo, forse, ad un folle. […].
[Creonte] Ma sappi che una volontà troppo dura cade più facilmente e anche il ferro più indurito, cotto dal fuoco e temperato, spesso lo puoi vedere spezzato e infranto. Destrieri imbizzarriti, io lo so, vengono regolati da un piccolo morso: e non può fare il superbo chi è soggetto ad altri. Costei sapeva bene, allora, di commettere una colpa, violando le leggi stabilite; e dopo averlo fatto, la seconda colpa è di vantarsi e deridere tali leggi. Davvero io non sono un uomo, ma l’uomo è costei, se quest’audacia le rimarrà impunita […].
[Antigone] Mi hai preso: che vuoi di più che uccidermi?
[Creonte] Io, null’altro: ora che ho questo, ho tutto.
[Antigone] Che aspetti allora? Delle tue parole nulla mi piace, e possa non piacermi mai; e così anche a te tutto di me riesce sgradito […].

Biografia

Con Eschilo, che lo precede, e con Euripide, che gli è contemporaneo, Sofocle, nato nel 497/496 a Colono presso Atene, è l’interprete più alto della tragedia classica.
Di famiglia agiata, godette di un’ottima formazione, culturale e sportiva, e non si allontanò mai da Atene, partecipando attivamente alla vita pubblica della città dell’età di Pericle, e vedendone anche il declino, iniziato con la guerra del Peloponneso. Morì nel 406/405 a.C., a 92 anni, poco prima che Atene venisse definitivamente sconfitta dalla rivale Sparta.
Della sua opera (circa 130 drammi, compresi i drammi satireschi), a noi rimangono 7 tragedie integre e, parzialmente, un dramma satiresco (I cercatori di tracce, o Segugi). Le tragedie giunte a noi sono: Aiace; Antigone (442 a.C.); Edipo Re; Elettra; Trachinie; Filottete (409 a.C.); Edipo a Colono (407 a.C. circa).
Pur nella diversità dei temi e degli eventi, l’opera sofoclea, che non s’inoltra nelle contese e nei problemi sociali del suo tempo, rappresenta il destino dell’uomo segnato dall’infelicità e dalla fragilità, contro cui s’infrange la nobiltà delle intenzioni e l’altezza del sentimento.
Per Eschilo, la sofferenza era stata un veicolo necessario alla conoscenza e comunque era motivata dalla colpa: la successione fatale colpa-pena era destinata a comporsi, se pure nel solco delle generazioni, nell’approdo pacificante alla giustizia di Zeus. In Sofocle, tale linearità religiosa pare mancare: i personaggi, infatti, non riescono a spiegarsi l’esistenza del male e dell’ingiustizia nel mondo; i progetti divini rimangono oscuri, anche se accettati con rispettosa venerazione; l’infelicità, spesso immeritata, è considerata come costitutiva della condizione umana. Del tutto estranea al mondo di Sofocle è poi l’analisi inquieta di Euripide, dubbiosa quando non apertamente scettica nei confronti del divino, specie delle credenze tradizionali.
Quanto ai rapporti tra individuo e collettività, nelle tragedie di Sofocle i personaggi, dissociati ed estranei al contesto della polis, sono soli nell’agire e nel patire, e la loro vita, orientata in una direzione privata e intima, è disgiunta dalla dimensione comunitaria: la comunità non riesce più a contenere l’individuo, né questi si considera parte della totalità; da qui, il ricorso a gesti disperati e solitari.
Sofocle è considerato un maestro della parola poetica: per l’eleganza naturale dell’espressione, per la fantasia delle immagini, per la limpidezza della scrittura.
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