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28/12/2011

Tratto da:
Umberto Saba, Il Canzoniere, Einaudi, Torino, 1961, p. 516

Selezione del brano, guida alla lettura e biografia a cura di Emanuela Aliquò

Guida alla lettura

Nei versi che abbiamo scelto, appartenenti a una delle ultime sezioni del Canzoniere, intitolata “Mediterranee”  (1946), sono racchiusi, come un dono, i tratti salienti della poetica di Umberto Saba: la predilezione per le parole semplici; la volontà di esprimere cose comuni e antiche in modo non banale (rischio sempre incombente); l’amore per le verità più profonde; il desiderio di comunicare con il lettore; la rinnovata fiducia, al termine della vita, nei risultati della propria opera.
La lirica è composta da tre strofe di diversa lunghezza, due quartine e un distico; per la grande assonanza con quella che, in altre pagine di questa rubrica, è stata definita “la sofferenza strutturale dell’esistere” (Roberto Mancini, La responsabilità di comprendere), la nostra attenzione si focalizzerà sulla seconda quartina (vv. 5-8), che tanto può suggerire ed evocare su «quella tensione profonda che fa del nostro essere un divenire».
La verità – ci ricorda Saba – non appartiene alla superficie delle cose, ma si trova nei fondali, come un tesoro sprofondato nel buio, come un sogno precipitato e dimenticato: il cuore le si avvicina con timore ma, una volta scoperta, non l’abbandona più. Certo, prima occorre scendere in profondità, e il cammino è impegnativo e faticoso.
Nella poesia si evidenzia, in particolare, che è il dolore a renderci così nudi e attenti da farci riscoprire “amica” la verità. Non vogliamo in alcun modo giustificare la sofferenza secondo il criterio dell’utilità; tuttavia, non possiamo non sentire che, tante volte, sono proprio le grandi prove della vita, specie se poi elaborate, ad affinare maggiormente il nostro sguardo, così da trasfigurarlo e renderlo refrattario ad ogni esteriorità, e a tutto ciò che è non necessario. Nei momenti di sofferenza, inoltre, le realtà che contano – espressione di quella verità “che giace al fondo” – possono rappresentare un’importante sorgente di consolazione e di aiuto.
In questi giorni di festa, in cui i ritmi del tempo convenzionale meno ci assillano, prendiamoci lo spazio interiore per riflettere su ciò che è essenziale per la nostra vita e che, spesso, lasciamo dimorare in luoghi lontanissimi da noi. Il pensiero allora corre veloce anche ai versi di un grande poeta spagnolo, Federico Garcìa Lorca, che c’invita a sederci “nella radura del tempo”, per riconoscere ciò che più vale e merita le nostre migliori energie: «Mi sono seduto / in una radura del tempo. / Era uno stagno di silenzio, / di un bianco silenzio. / Formidabile anello, / dove le stelle / cozzavano con i dodici galleggianti / numeri neri» (L’eco dell’orologio, da "Poesie sparse", in “Tutte le poesie”, volume II, Garzanti Editore, 1982, p. 783).
Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.

Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l’abbandona.

Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.

Biografia

Umberto Poli nasce il 9 marzo 1883 a Trieste, a quell’epoca ancora parte dell’impero asburgico. Suo padre, Ugo Edoardo Poli, un commerciante veneziano di religione cattolica, abbandona la moglie Rachele Coen, ebrea triestina, durante la gestazione: il figlio soffrirà profondamente per questa lacerazione.
Nei primi anni di vita, Umberto viene affidato a una balia slovena, Peppa Sabaz, con cui avrà sempre un intenso rapporto affettivo; frequenta poco le scuole e lascia gli studi ancora adolescente, per lavorare come commesso. A vent’anni decide di dedicarsi alla letteratura e si trasferisce a Pisa, e poi a Firenze, per seguire alcuni corsi universitari. Nel 1907, in quanto cittadino italiano, compie il servizio militare a Salerno: l’esperienza lo avvicina alla vita quotidiana, che da allora in poi costituirà lo sfondo costante della sua poesia. Tornato a Trieste, nel 1909 sposa Carolina (Lina) Wölfler che gli darà l’unica figlia, Linuccia: l’anno dopo pubblica a proprie spese la raccolta “Poesie”, nella quale usa per la prima volta lo pseudonimo Saba (in ebraico “saba” significa pane, ma la parola richiama anche il cognome – Sabaz – dell’amata nutrice); l’opera successiva è “Trieste e una donna” (1912).
Allo scoppio della prima guerra mondiale è richiamato nell’esercito ma, per ragioni di salute, viene impiegato solo in servizi amministrativi. Alla fine del conflitto torna a Trieste, dove apre una libreria antiquaria. Ben presto riprende a scrivere e a pubblicare poesie. Nel 1921 pubblica la prima edizione del “Canzoniere”, che raccoglie la produzione poetica di un ventennio. Nel 1923 stringe una profonda amicizia con il critico Giacomo Debenedetti, e nel 1928 ottiene il primo riconoscimento importante: la rivista “Solaria” gli dedica un numero monografico, e lo propone come maestro ad alcuni giovani scrittori, fra cui Giovanni Comisso, Sandro Penna e, più tardi, Carlo Levi. In quegli anni, tuttavia, vanno aggravandosi anche le crisi depressive, germinate dal dolore mai superato per l’abbandono paterno.
Nel 1938 viene colpito dalle leggi razziali: costretto a cedere la proprietà della libreria, si trasferisce a Parigi. Allo scoppio della guerra trova rifugio a Firenze, dove vive in condizioni drammatiche, nascosto per mesi e mesi, con il solo sollievo delle visite di Montale.
Con il passare degli anni, intensifica la produzione letteraria: cura una nuova edizione del Canzoniere (1945), cui ne seguono altre due, nel 1948 e nel 1957, e una postuma nel 1961; pubblica le raccolte “Ultime cose” (1944), “Mediterranee” (1946), “Uccelli. Quasi un racconto” (1951) e le prose “Scorciatoie e raccontini” (1946); scrive inoltre il romanzo incompiuto “Ernesto” (1975, postumo). Ottiene alcuni importanti riconoscimenti ufficiali, come il premio dell’Accademia dei Lincei (1951) e la Laurea honoris causa dell’Università di Roma. Dal 1950, però, la sua malattia va ulteriormente aggravandosi: muore a Gorizia nell’agosto del 1957, pochi mesi dopo la moglie Lina.
L’opera di Saba, figura solitaria e straordinaria nel panorama del Novecento italiano, è contraddistinta dalla limpidezza della parola, dalla musicalità del verso, dalla sincerità morale, dalla chiarezza interiore, dai colori del simbolismo, dai significativi apporti della cultura europea.
Pur ricorrendo a parole comuni e semplici, “povere” solo in apparenza, il poeta triestino ha saputo trattare temi in grande sintonia con gli interrogativi e le speranze dell’uomo contemporaneo: il conflitto tra l’individuo e la realtà che lo circonda, le sofferenze della psiche, il desiderio, quasi sempre deluso, di un rapporto solidale con gli altri: «Soffersi il desiderio dolce / e vano / d’immettere la mia dentro la calda / vita di tutti / gli uomini di tutti i giorni».
Parole chiave di questo articolo
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Il dolore e la cultura

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