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«M'uccide uno sottil pensero». Angoscia d'amore all'alba della nostra lirica

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19/02/2014

Tratto da: Guido Cavalcanti
In: Mario Oliveri e Terenzio Sarasso, Antologia della letteratura italiana, volume primo, Paravia, Torino 1965, p. 120-121

Guida alla lettura

In questa ballata Guido Cavalcanti parla di una sventura – con ogni probabilità, l’esilio a Sarzana – che ha strappato dal suo animo ogni pensiero d’amore e la stessa immagine della donna amata: egli contempla desolato il suo animo distrutto, il cuore che «dolente giace» come in una immobilità mortale; e grida il suo tormento con accenti disperati: «Ven che m’uccide uno sottil pensero, / che par che dica ch’i’ mai no la veggia; / questo è tormento disperato e fero, / che strugge e dole, e incende ed amareggia».
I versi, raffinati e levigatissimi, non sono alieni da alcune oscurità: e la stessa parafrasi che proponiamo mostra come, in generale, sia difficile trasferire nella nostra lingua moderna le eleganti figure e la potenza di sintesi di questo antico stile. Come accade per una lingua straniera, è meglio impadronirsi della sua musicalità e dei suoi significanti, e godere la bellezza dell’originale.
Cavalcanti, dunque, canta il dolore che coglie gli innamorati quando la lontananza li separa. Ma l’esilio che rappresentò l’occasione esteriore del componimento è ancora la triste realtà di molti uomini e molte donne costrette ad emigrare per sfuggire la guerra e la fame, per scampare dagli eccidi, per cercare condizioni di vita più umane. Quante persone, ancora oggi, soffrono e temono di non poter mai più rivedere i loro familiari, il loro amore? A tutte loro dedichiamo questa ballata purissima, nella speranza che il momento del ricongiungimento venga un giorno per tutti.
(Versione originale)
La forte e nova mia disaventura
m’ha disfatto nel core
ogni dolce penser ch’i’ avea d’amore.
Disfatto m’ha già tanto de la vita,
che la gentil piacevol donna mia
da l’anima distrutta s’è partita,
sì ch’i’ non veggio là dov’ella sia.
Non è rimasa in me tanta balìa,
ch’io de lo su’ valore
possa comprender nella mente fiore.
Ven che m’uccide uno sottil pensero,
che par che dica ch’i’ mai no la veggia;
questo è tormento disperato e fero,
che strugge e dole, e incende ed amareggia.
Trovar non posso a cui pietate cheggia,
mercé di quel signore
che gira la fortuna del dolore.
Pieno d’angoscia, in loco, di paura
lo spirito del cor dolente giace
per la fortuna che di me non cura,
c’à volta morte dove assai mi spiace;
e da speranza, ch’è stata fallace,
nel tempo ch’e’ si more
m’ha fatto prender dilettevol ore.
Parole mie disfatte e paurose,
là dove piace a voi di gire andate;
ma sempre sospirando e vergognose
lo nome de la mia donna chiamate.
Io pur rimagno in tant’aversitate
che qual mira di fore
vede la morte sotto al meo colore.

(Parafrasi in lingua corrente – A cura della nostra redazione)
La grave e inaudita mia sventura mi ha distrutto nel cuore ogni dolce pensiero d’amore. E ha disfatto già tanta parte della mia vita, che la gentile e piacente donna mia ha abbandonato la mia anima distrutta, così che non riesco più a scorgere dove ella sia. E non è rimasto in me abbastanza vigore da poter conservare nella mente e nella memoria un poco della sua potenza.
Sorge in me un pensiero sottile che mi uccide, il quale par che dica che non la rivedrò più; ed è un tormento disperato e feroce, che mi consuma e addolora, e incendia e amareggia.
Non trovo a chi chiedere pietà in nome d’Amore, che distribuisce il dolore a capriccio. Nella sua sede naturale, lo spirito del cuore, pieno d’angoscia e di paura, giace dolente per il destino incurante che lo fa morire; e che mi ha fatto attingere ore piene di diletto da una speranza poi mostratasi fallace.
Parole mie angosciate e paurose, andate laddove più vi piace; ma sempre, sospiranti e rispettose, invocate il nome della mia donna. Io rimango prigioniero di un travaglio tanto profondo che chi guarda al mio aspetto, sotto il mio pallore, vede l’immagine della morte.

Biografia

Guido Cavalcanti nasce nel 1259, a Firenze, da una nobile famiglia guelfa. Il padre, Cavalcante dei Cavalcanti, esiliato dopo la battaglia di Montaperti (1260), rientra in patria solo dopo la battaglia di Benevento (1266): il matrimonio concluso tra Guido fanciullo e Beatrice, figlia del ghibellino Farinata degli Uberti, suggella la pacificazione tra le due fazioni. Ormai adulto, Guido partecipa attivamente e con accanimento alle vicende politiche di Firenze, ricoprendo cariche civili e militari e parteggiando animosamente per i Cerchi (guelfi bianchi) contro i Donati (guelfi neri). Nel giugno del 1300, durante il priorato di Dante Alighieri, Guido, insieme con gli esponenti più irrequieti dei bianchi e dei neri, viene confinato a Sarzana. Richiamato in patria poco dopo, muore nell’agosto dello stesso anno, consumato dalle febbri malariche.
Filosofo, uomo di studio, sospetto di tendenze razionalistiche e quasi eretiche, Guido ci ha lasciato un canzoniere di una cinquantina di componimenti – fra sonetti, canzoni e ballate – quasi tutti di carattere amoroso, che fanno di lui, con Guido Guinizelli e lo stesso Dante, il più importante esponente del Dolce Stil Novo: una scuola originata dalle esperienze poetiche provenzali, siciliane e siculo-toscane e che celebra, in una lingua elegante e ricercata, l’amore come sorgente di perfezione morale, attraverso la mediazione della donna vista come essere angelico, e la coincidenza perfetta di nobiltà d’animo (“gentilezza”), amore e virtù. In Cavalcanti, però, a questi motivi si affianca talora un senso tragico e oscuro dell’amore, visto come un tiranno feroce di fronte al quale il poeta rimane sbigottito, dominato da un cupo sentimento di morte.
Dante considerò Cavalcanti il suo primo e più grande amico, e gli dedicò la “Vita nova”, celebrandolo come colui che aveva sottratto a Guinizelli la “gloria della lingua”. Il Boccaccio, in una sua novella (Decameron VI, 9), lo ritrae prode e cortese, sprezzante della gente volgare. Autore di rara e aristocratica eleganza, è oggi ricordato, studiato e amato come il primo grande lirico italiano.
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