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La morte di Gesù nel Vangelo secondo Matteo

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13/02/2013

Tratto da:
Luciano Manicardi, L’umano soffrire, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI) 2006, p. 141-146

Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Proseguiamo la pubblicazione del commento di Luciano Manicardi ai quattro racconti evangelici della morte di Cristo. Nell’articolo precedente abbiamo affrontato il testo di Marco, rilevando la durezza delle dinamiche umane che si instaurano durante l’agonia di Gesù, la solitudine e il disprezzo che lo circondano, ma anche la coerenza con cui egli continua ad amare Dio e gli altri, invocando il perdono per i suoi aguzzini e pregando nel momento in cui anche il Padre sembra averlo abbandonato. Tutto ciò, concludevamo, costituisce un insegnamento prezioso per tutti, anche per i non credenti, perché – indipendentemente dai valori in cui ci riconosciamo – indica che il vero senso della vita riposa nella libertà con cui compiamo le nostre azioni e nell’amore che sappiamo dare e ricevere, anche nei momenti più dolorosi.
Questa settimana Manicardi commenta il racconto di Matteo. Il resoconto, nelle prime battute, è molto simile a quello di Marco, ma poi se ne distacca nettamente, assumendo toni fortemente connotati in senso profetico e teologico, e come tali eloquenti soprattutto, se non esclusivamente, per i credenti. La morte di Cristo è infatti seguita da eventi portentosi – il terremoto, le rocce spezzate, la resurrezione di molti morti e la loro apparizione in Gerusalemme – che certamente non vanno intesi in senso storico, ma che esprimono con grande efficacia la lettura escatologica che l’evangelista fa di quella morte: vittoria della vita sul dolore e sul nulla, compimento delle profezie veterotestamentarie, rivelazione del senso profondo della storia e, come tale, “apocalisse” (dal greco “apokalúptō”: rivelo).
In questo senso, osserva Manicardi, Matteo si pone in una prospettiva opposta e complementare rispetto a Marco: là era la debolezza di Gesù che portava alla conversione («Il centurione, che era presente di fronte a lui, vedendo che spirò così, disse: Veramente quest’uomo era figlio di Dio» cf Mc 15,39); qui è la potenza di Dio che la suscita. Ma, aggiunge Manicardi, «siamo sempre di fronte all’unico e medesimo mistero della debolezza della croce che rivela il mistero della salvezza».
Un’ultima annotazione. Matteo descrive il momento esatto della morte di Gesù con singolari parole: «Lasciò andare lo spirito» (Mt 27,50). Anche questa espressione ha dense valenze teologiche, ma innanzitutto suggerisce che la morte può essere vista come gesto di obbedienza, in cui si restituisce puntualmente la vita alla sorgente che l’ha trasmessa: Dio, per i credenti; la natura, per chi ha una visione materialistica dell’esistenza; il flusso inesauribile dell’essere, il tutto a cui apparteniamo, per chi aderisce ad altre filosofie. Pensare alla propria morte come a un appuntamento da accettare con serenità, oltre ogni delirio di onnipotenza medica e ogni pretesa di eterna giovinezza, è forse l’insegnamento più forte di questo testo così difficile per la nostra mentalità, un insegnamento capace – se assimilato in profondità – di trasformare le nostre paure in un senso rinnovato del valore del tempo e in un’adesione sana alla vita.
Il racconto di Matteo
Dall’ora sesta si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona. Verso l’ora nona Gesù gridò a gran voce, dicendo: «Elì, Elì, lemà satachtàni?», cioè: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Alcuni di coloro che erano là presenti, udito ciò, dicevano: «Costui chiama Elia». E subito uno di loro, andato di corsa a prendere una spugna e avendola inzuppata di aceto e posta su una canna, gli dava da bere. Ma gli altri dicevano: «Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!». Ma Gesù, avendo di nuovo gridato a gran voce, emise lo spirito. Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso e la terra fu scossa, le rocce furono squarciate, i sepolcri furono aperti e molti corpi di santi addormentati risuscitarono e, uscendo dai sepolcri, dopo la sua resurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti. Ora, il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, vedendo il terremoto e ciò che accadeva, furono presi da grande timore e dicevano: «Veramente questi era figlio di Dio» (Matteo 27,45-54).

La prima parte della narrazione della morte di Gesù secondo Matteo è piuttosto simile a quella di Marco. Matteo, che a differenza di Marco non aveva annotato l’ora della crocifissione di Gesù (cf. Mc 15,25), ora indica le ore della durata delle tenebre: tre ore da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Tre ore di silenzio, di immobilità, in cui l’evangelista non registra né parole né azioni. “Verso” le tre Gesù grida con voce forte le parole che danno inizio al Salmo 22. Questo grido paradossale esprime bene il senso della relazione con Dio da parte del credente ebreo, dunque anche di Gesù. Noi siamo abituati a definire il rapporto con Dio una “fede” il cui soggetto è l’uomo: un uomo crede, oppure no, in Dio. Ma il rapporto con Dio come emerge nei Salmi (e Gesù sta pregando un Salmo) e in genere nella preghiera biblica, è diverso. Là, il soggetto è Dio. E il rapporto con Dio sgorga da Dio stesso. Sicché anche quando l’uomo dispera di Dio, non può staccarsi da lui. Qui Gesù si sente abbandonato da Dio, e il suo grido dice tale angoscia, ma al tempo stesso egli non può far altro che rivolgersi a quello che rimane il suo Dio. Gesù si manifesta come credente anche nel momento supremo della sofferenza e della morte.
E si manifesta anche come obbediente. Così appare dall’espressione utilizzata per indicare il morire di Gesù: «Emise (letteralmente, lasciò andare) lo spirito» (Mt 27,50). La morte come gesto di obbedienza! Questa espressione può significare semplicemente il morire di Gesù, ma dato che il termine “pneûma” (spirito) in Matteo non ha mai valore antropologico, non si può escludere un riferimento allo Spirito santo e a un senso teologico dell’espressione non distante da quello che troveremo nella narrazione della morte di Gesù secondo Giovanni (Gv 19,30). Questa valenza teologica della morte di Gesù e l’eventuale dono dello Spirito sono in linea con la valenza rivelativa di tale morte che Matteo mette in luce. Morte che comunque è preceduta, come in Marco, dall’incomprensione del grido di Gesù che viene inteso come invocazione di salvezza da parte di Elia (Mt 27,47-49) [1].
Ma ecco la parte più originale della narrazione di Matteo: la morte di Gesù è accompagnata da una serie di eventi sconvolgenti. Se la lacerazione del velo del tempio era già ricordata da Marco, non così gli altri segni: la terra scossa; le rocce spezzate; i sepolcri aperti; la resurrezione di molti santi (i giusti dell’Antico Testamento) morti (il testo usa l’eufemismo “addormentati”); la loro uscita dalle tombe e la loro apparizione in Gerusalemme. Anzitutto va rilevato che i verbi greci usati per descrivere questi eventi sono al passivo: si tratta di una forma linguistica particolare per indicare che il vero soggetto di quanto avviene è Dio. Nella morte di Gesù avviene qualcosa di divino, dice Matteo. La morte di Gesù è l’“ora” finale della storia, è l’evento escatologico per eccellenza. In effetti Matteo riesce a radunare con mirabile sintesi, nel momento della morte di Gesù, sia la menzione della sua resurrezione che della resurrezione dei giusti. Nel momento della morte ecco i segni della vittoria della vita; al cuore della tenebra si fa strada la luce. La terra intera è riguardata da ciò che avviene sulla croce. Come la nascita di Gesù secondo Matteo (Mt 2,1-11) era stata salutata da una stella, così la sua morte è accompagnata dallo scuotimento della terra. Come al momento del battesimo di Gesù nel Giordano si erano aperti i cieli (Mt 3,16), ora, al momento della sua morte, si aprono le tombe. Gli eventi elencati da Matteo non vanno intesi in senso storico, ma come segni del significato profondo dell’evento: la morte di Gesù è il crinale della storia umana; essa investe tutto il mondo e apre gli ultimi tempi, i tempi escatologici. E questa morte è indissolubile dalla resurrezione di Gesù («Dopo la sua resurrezione»: Mt 27,53) e dalla resurrezione dei morti. Caratteristica peculiare della narrazione matteana della morte di Gesù è dunque l’anticipazione della resurrezione dei morti. Tutta la storia umana, fino alla consumazione dei secoli (cf. Mt 28,20), trova la sua chiave di lettura nell’evento pasquale, nella morte e nella resurrezione di Gesù. Questa morte è giudizio e salvezza!
I fenomeni naturali elencati da Matteo sono posti in una sequenza logica: prima il terremoto, quindi la rocce che si spaccano, poi le tombe che si aprono, i santi morti che risuscitano, escono dalle tombe e sono visti nella città santa. Certamente Matteo sta affermando che nella morte di Gesù vi è il compimento di profezie veterotestamentarie. Forse vi è l’eco dell’annuncio di Daniele della resurrezione, negli ultimi giorni, di “molti che dormono nella polvere” (Dn 12,2), ma certamente vi è il riferimento alla profezia di Ezechiele 37,11-14. In quella pagina si parla di Dio che soffia il suo Spirito sulle ossa inaridite che rappresentano i figli d’Israele. Dio annuncia tramite il profeta: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele» (Ez 37,12). La morte di Gesù è evento che anticipa e rivela la fine della storia. In questo senso, è “apocalisse”, cioè, non tanto catastrofe o disgrazia, ma rivelazione, svelamento del senso profondo della storia [2]. Possiamo pensare che quando, più tardi, Ignazio di Antiochia scriverà che Gesù «fu veramente crocifisso e morì mentre quelli nei cieli, sulla terra e sotto terra stavano a guardare» [3], egli avesse presente la narrazione di Matteo che elenca in successione segni nei cieli (tenebre), sulla terra (velo del tempio, terra scossa e rocce spezzate) e sotto terra (tombe aperte e morti che escono). Coloro che deridevano Gesù attendendo la venuta di Elia per salvarlo, ora sono smentiti da una risposta di Dio infinitamente più potente. (…)
Non a caso il centurione e l’intero corpo di guardia fecero la loro confessione di fede in Gesù “Figlio di Dio” avendo visto il terremoto e tutto ciò che accadeva. La confessione di fede non è individuale, ma collettiva, e non nasce semplicemente dalla visione della morte di Gesù (come in Marco: Mc 15,39), ma dalla constatazione dei segni che hanno accompagnato tale morte. Il timore che si impadronisce di loro è tipico della reazione davanti al manifestarsi di Dio (Mt 27,54) e la loro confessione di fede parte dalla presa d’atto della potenza di Dio manifestatasi nella debolezza del crocifisso, mentre in Marco è l’esatto contrario. In Marco è la debolezza di Cristo («Vedendo che spirò così»: Mc 15,39) che svela la potenza di Dio. Ma siamo sempre di fronte all’unico e medesimo mistero della debolezza della croce che rivela la potenza di Dio e il mistero della salvezza.

Note dell'Autore

1) D. Senior, La Passione di Gesù nel vangelo di Matteo, Ancora, Milano 1990, pp. 134-147
2) Cf. R. A. Monasterio, Exegesis de Mateo 27,51b-53. Para una teologia de la muerte de Jesus en el evangelio de Mateo, Editorial Eset, Vitoria 1980
3) Ignazio di Antiochia, Ai Tralliani 9,1

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
Parole chiave di questo articolo
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