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La donna, il suo corpo e la medicina d'oggi

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06/03/2008

Prof.ssa Alessandra Graziottin
Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Articolo pubblicato su:
KOS, La donna, Anno XXV, n. 263, gennaio-febbraio 2008, pag. 21-32
Editrice San Raffaele, Milano

Come è cambiato il rapporto tra la donna, il suo corpo e la medicina d'oggi?

Lo scenario è articolato, con divari enormi tra mondo ad alto e basso reddito. Al punto che, viaggiando in continenti diversi, è possibile rileggere trasversalmente tutta la storia delle donne e del loro doloroso rapporto con la medicina, in un percorso che è nello stesso tempo un viaggio a ritroso di millenni.
In Occidente, in particolare, la centralità del corpo si radica nella tradizione greco-latina e continua nel Cristianesimo, religione che si fonda sull’Incarnazione di Dio, sul farsi carne, assumendo così il corpo come paradigma dell’essere sulla terra, nella gioia, nella convivialità e nel dolore (vedi La cura del corpo nel Cristianesimo). Un corpo che nella lettura cristiana ha poi vissuto alterne vicende: innanzitutto, in rapporto a diverse influenze culturali e storiche, con fasi di disciplina dei desideri e di negazione dei bisogni fino all’ascetismo, e fasi di integrazione tra corpo e anima, in cui l’uno viene letto come il tempio vivente dello spirito. In secondo luogo, in rapporto al genere, maschile o femminile. Il corpo della donna ha infatti conosciuto una maggiore repressione e inibizione, maggiori condizionamenti culturali, specie nella sua espressione sessuale, e maggiori limitazioni sul fronte morale. Oggi, in Occidente, soprattutto a livello mediatico, il corpo femminile è trionfante, esaltato nella sua carnalità e sensualità, con risonanze profonde nei vissuti personali, nella relazioni interpersonali e nel lavoro. E con esasperazioni che culminano nell’uso strumentale del corpo come mezzo per ottenere vantaggi diversi: professionali, economici e di status, a tutti i livelli. Nella medicina contemporanea, la centralità evidente del corpo è tuttavia soggetta a dinamiche che da un lato risentono di condizionamenti antichi, e dall’altro di un’esasperazione tecnologica che fa del corpo un freddo oggetto d’indagine, senza emozioni. Il rapporto tra la donna, il suo corpo e la medicina d’oggi verrà qui analizzato dalla prospettiva dei vissuti femminili, del dolore e del piacere.

La donna di ieri, res procreativa o res nullius

Per secoli, il valore essenziale della donna è stato procreativo-riproduttivo: con la sterilità sempre attribuita “con colpa” alla donna, anche se sappiamo che le cause sono ugualmente distribuite tra i due sessi. Nelle classi agiate, storicamente, l’attenzione al figlio, in quanto erede, era molto più forte di quanta ne venisse dedicata alla donna, come persona e come moglie. Nelle classi povere, donna e figli partecipavano alla stessa vicenda di effimero destino, di poco valore, l’una e gli altri vulnerabili alla morte precoce per malattie, infettive soprattutto, per indigenza o carestie. In molte regioni dell’Africa la mortalità materna per parto e aborto è ancora oggi la cause principale di morte di una donna in età fertile, primato oggi insidiato dalla morte per AIDS. Una morte spesso randagia, senza alcuna assistenza medica. In India, le donne partoriscono ancora in ospedali fatiscenti, due per letto, con gli altri figli piccoli cacciati sotto la branda, in condizioni igieniche disastrose. La donna e il suo corpo valgono zero, quasi “res nullius”, quanto più le sue condizioni economiche sono povere. La sua morte per parto è un mero accidente, “nella natura delle cose”. I sentimenti dei figli piccoli che restano, e che spesso finiscono sulla strada (20.000.000 di bambini indiani vivono abbandonati, senza famiglia, sopravvivendo di espedienti) sono irrilevanti. Senza peso e senza significato, come animaletti sperduti. Solo nelle classi agiate dei Paesi a basso reddito il corpo della donna ha un valore diverso, e un diverso rapporto con la medicina. Meno oggetto, meno reificato, e più soggetto di cure.

La donna d'oggi, res erotica o res cogitans

Nel mondo occidentale, ad alto reddito, cui l’Italia con molti chiaroscuri appartiene, la donna protagonista della propria vita si pone in modo molto diverso rispetto al medico curante. Più è colta ed economicamente agiata, più desidera e pretende un rapporto paritario, da soggetto a soggetto. E’ informata, ha una propria cultura e una propria pragmatica della salute, e un rapporto prioritario di cura e di attenzione al proprio corpo. Si aggiorna, vuole sapere i pro e i contro di una terapia, sceglie interlocutori diversi, ricerca un rapporto di qualità. Gli studi epidemiologici ci dicono, per esempio, che la probabilità di una donna di fare una terapia ormonale sostitutiva dopo la menopausa (indicatore questo di ricerca di un invecchiamento di qualità, attento all’aspettativa di salute, prima ancora che all’aspettativa di vita) è di sette volte superiore nelle donne ricche e colte rispetto alle altre. Tuttavia, anche nell’ambito della fascia economica privilegiata, il rapporto con il corpo e la medicina varia a seconda del motivo per cui la donna chiede il consulto medico. E’ tanto più soggetto e protagonista, in un rapporto di ricercata simmetria con il/la professionista, quanto più la consulenza si muove nel campo cosmetico e della prevenzione.
E’ esplosiva, in Italia, in tutte le fasce sociali, la richiesta di chirurgia estetica, finalizzata ad esaltare e mantenere nel tempo l’attrattività erotica. Con esasperazione dei segnali di richiamo sessuale (bocca, seno, glutei, e addirittura la nuova cosmesi genitale) e ricerca ossessiva della negazione del passare del tempo. Una richiesta che rispecchia l’esaltazione dell’erotismo e del piacere come valori cardinali di una società che sembra aver smarrito le priorità spirituali, e l’attenzione a valori meno effimeri della bellezza.
Più la patologia è seria, più la donna “si arrende” invece ad un rapporto più tradizionale, più asimmetrico, in cui è il medico che decide e lei segue, spesso del tutto passivamente e rassegnatamente, come succede in ambito oncologico. Di nuovo oggetto impaurito, corpo da tagliare, irradiare, bonificare: “mammella che cammina”, se ha un tumore al seno, o “utero che cammina”, se ha un tumore all’utero. Nel senso che tutto il suo valore, di donna e di persona, si esaurisce nel diritto di quell’organo di essere paradigma di tutto il suo essere. E pazienza se nel percorso di cura chemioterapica va incontro ad una menopausa precoce, se ha sintomi invalidanti, se l’insonnia la tormenta, se la depressione le toglie la gioia di vivere, se perde la memoria, se la sua sessualità è devastata. Se la sua vita, per la quale tutti invocano la teoria della qualità, trova pochi medici che davvero perseguano poi la pragmatica dell’attenzione alla qualità dell’esistenza dopo il tumore, al di là dell’interesse prioritario alla sopravvivenza. Soprattutto oggi, in cui molte malattie oncologiche sono nella maggioranza croniche e non più fatali, grazie agli straordinari progressi dell’oncologia nella cura di molti, ma non tutti, i tumori. Per esempio, secondo l’American Cancer Society, dopo un tumore alla mammella, muore il 12% delle donne entro i primi 5 anni, l’8% tra i 5 e i 10, il 9% tra i 10 e i 15, e un altro 8% tra i 15 e i 20. Con una tendenza che, nei tumori della mammella, non ha mostrato cambiamenti radicali negli ultimi 50 anni, a parità di stadio alla diagnosi, nonostante cure mediche, farmacologiche, molto più aggressive e pesanti, rispetto al passato. Basti dire che curiamo con cure “antiormonali” (tamoxifene o inibitori delle aromatasi) cento donne per salvarne dalla morte due (!), mentre con la chemioterapia ne trattiamo cento per salvarne una in più, rispetto al non trattamento. In sostanza il 37% muore nell’arco in 20 anni, con un 63%, dunque la maggioranza, ancora ben vivo dopo un arco di tempo certamente apprezzabile. Vivo, ma spesso con una vita in grigio, appesantita da una diagnosi che è rimasta come un marchio di infelicità, nonostante una prognosi per molte eccellente, e da terapie i cui effetti collaterali pesano in modo crescente sull’aspettativa di salute residua. Una scelta – tra rischi e benefici, tra costi, anche di salute a lungo termine, e vantaggi – che non viene esplicitata, in quanto i protocolli di cura sono presentati come l’unica strada per sopravvivere.
Il percorso da oggetto a soggetto di cure è ben esemplificato anche dai cambiamenti lessicali, quando si parli del modo in cui un/a paziente segua le cure. Dall’oggi obsoleto “compliance”, che sottolineava il modo con cui il paziente “obbediva” passivamente alla prescrizione medica, al più moderno “aderenza” (adherence) che vuole sottolineare la condivisione della scelta e un’adesione che nasca dal dialogo, dalla partecipazione, dalla comprensione del razionale terapeutico, dei suoi vantaggi ma anche dei suoi effetti collaterali e dei suoi rischi.

La cura del corpo nel Cristianesimo

“La maggior parte dei nostri contemporanei sono convinti che il cristianesimo faccia parte di quelle correnti che svalorizzano il corpo. Si deve riconoscere che un buon numero di testi (raramente di primo piano), di discorsi, di pratiche o di regole hanno, in passato, prestato il fianco a questo tipo di interpretazione. Ma uno sguardo più attento su ciò che costituisce l'essenziale del cristianesimo mostra che si trattava di deviazioni, di cattive interpretazioni e di malintesi, per lo più sotto l'influsso di filosofie esterne. Il cristianesimo infatti è la religione dell'incarnazione. E la speranza cristiana non attende solamente l'immortalità dell'anima, ma la resurrezione della carne. Niente meno!”. (1) (...)
“Si può e si deve affermare senza esitazione che il pessimismo nei confronti del corpo è del tutto estraneo alla Scrittura: questa gli riconosce anzi un valore che nessun'altra religione aveva ancora osato attribuirgli”. (2) (...)
“Avete notato quale importanza abbia il corpo nel Nuovo Testamento?... Proviamo a rileggere un testo capitale come l'evangelo detto del "giudizio finale", in Matteo 25: «Quando il Figlio dell'Uomo verrà», giusti e ingiusti saranno giudicati sulle loro azioni: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avere dato da bere; ero un forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, in carcere e siete venuti a trovarmi». Qual è il punto in comune tra tutte queste azioni? Tutte concernono il corpo: sono rivolte al corpo affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, carcerato”. (3) Un corpo da curare con amore.
 
Xavier Lacroix, Il corpo e lo spirito, Edizioni Qiqajon, 1996; (1) pag. 110; (2) pag. 116; (3) pag. 122

Le ragioni della soddisfazione

Non c’è dubbio, molte cose sono cambiate in meglio, nella medicina occidentale d’oggi. I programmi di prevenzione primaria consentono di evitare l’insorgere di malattie, o comunque di posticiparne significativamente la comparsa, quando si tratti di forme con importante componente ereditaria, come per esempio il diabete o le complicanze aterosclerotiche dell’ipercolesterolemia familiare. Le diagnosi più precoci consentono terapie farmacologiche meno pesanti e più soddisfacenti, interventi chirurgici più conservativi, e la possibilità di ritrovare una buona armonia fisica, se non proprio l’ideale “restitutio ad integrum” . Molti ospedali, soprattutto nel Nord Italia, realizzano ambienti dignitosi, e a volte persino confortevoli. La soddisfazione cresce quanto più, nel rapporto interpersonale tra il medico (ma anche il paramedico) e il/la paziente, siano presenti competenza e umanità. Senza la prima, sfogarsi con il parrucchiere, che ti ascolta molto di più, è la stessa cosa, costa meno, e forse dà più soddisfazione, con meno rischi per la salute. Senza umanità, la competenza manca del nutrimento essenziale per motivare il paziente a stare meglio, a voler vivere, a impegnarsi nelle cure, ad avere fiducia e speranza nel futuro. “Basta che sia bravo”, lo si dice soprattutto per il chirurgo, di qualsiasi specialità, in cui di necessità il paziente sul tavolo operatorio è massimamente oggetto da operare e l’eccellenza tecnica è “conditio sine qua non” per la prognosi strettamente chirurgica. “L’importante è che sia anche umano” vale per tutte le specialità mediche, che seguono in primis l’arco della vita – la pediatria, la ginecologia, la geriatria – e le specialità con patologie ad alta cronicizzazione, quali la psichiatria, la neurologia, l’immunologia, l’oncologia medica. In tutti questi ambiti il rapporto interpersonale, la capacità del medico di stabilire un ponte emotivo e affettivo, di vivere l’empatia come intrinseca all’atto medico, sono fattori essenziali di soddisfazione e di motivazione all’aderenza alle cure e alla voglia di vivere. In questo dialogo di qualità, anche l’attenzione al corpo è prioritaria: dal contatto di occhi durante il dialogo clinico, alla stretta di mano, alla visita accurata in cui la mano che esplora nello stesso tempo può calmare, rassicurare, incoraggiare.
In positivo, il corpo della donna esce dall’alone dei tabù che l’hanno avvolto: oggi, per la donna occidentale, è possibile parlare con serenità di ciclo mestruale, di rapporti, di parti e di aborti, di sessualità, di contraccezione e di piacere. La riservatezza e il pudore che, malintesi, hanno alimentato una collusione del silenzio che ha reso inesplorabili anche i territori centrali della salute femminile, hanno iniziato a consentire una maggiore disinvoltura comunicativa e comportamentale.

Le ragioni dello scontento

Tutto in meglio? Non proprio. Anzi, di che cosa si lamentano le donne, nel loro rapporto con la medicina d’oggi? Di molte cose, e sostanziali, riassumibili in un conciso “cahier de doléances”.
La mancanza di ascolto, innanzitutto: l’anamnesi contratta, breve, minimalista, spesso indifferente nei modi e nei toni, priva il rapporto medico-paziente di due elementi essenziali perché possa sbocciare un rapporto fiduciario. Lo priva del racconto, ancorché breve, dei propri sintomi, della propria storia, che diano al professionista il senso della persona che ha davanti, e non dell’oggetto malato da riparare. E lo priva del tempo minimo di contatto emotivo, di sguardo e di attenzione, indispensabile per sentirsi di esistere, in quanto paziente, davanti agli occhi del medico. Come persona, come donna, e non come numero o fonte di reddito.
La mancanza di attenzione all’insieme della persona: il ginecologo, che etimologicamente dovrebbe essere il medico della donna, è nei fatti un “uterologo”, che pone la massima attenzione all’area genitale e procreativa, oggi come ieri. Con un disinteresse quasi sostanziale – con poche, lodevoli eccezioni – per tutto quanto interessi la salute extragenitale. Anche se sappiamo che gli ormoni sono una linfa che nutre tutto il corpo femminile e le cui alterazioni, o assenza, si ripercuotono in modo drammatico sull’intera salute della donna. Basti dire che una menopausa precoce, per asportazione chirurgica delle ovaie, aumenta del 46% il rischio di deterioramento cognitivo e di morbo di Alzheimer, e del 68% il rischio di parkinsonismo, rispetto alle donne con una menopausa naturale a cinquant’anni, come è stato recentemente pubblicato da W. Rocca e collaboratori, della Mayo Clinic, su Neurology di settembre 2007 e di gennaio 2008. E che i dolori articolari sono il secondo sintomo in menopausa, per frequenza, dopo le vampate di calore: peggiorano infatti nettamente in coincidenza con la premenopausa, fino a triplicare nelle donne dopo la menopausa, rispetto ai maschi di pari età. Una “scoperta” recente, questa, del rapporto tra carenza estrogenica e degenerazione articolare, perché il ginecologo non chiede “tutti” i sintomi comparsi con la menopausa e il reumatologo non chiede lo stato ormonale della donna. Per non parlare della sessualità, sistematicamente omessa dal dialogo clinico.
Lamentano, le donne, la mancanza di una visita degna del nome: l’esame obiettivo è quasi scomparso nella pratica clinica. Molti medici si limitano all’ecografia, o ad altri esami più sofisticati. Senza la visita, senza un rapporto di attenzione e di lettura dei molti segni che il corpo sa dare ad un medico attento, senza la decifrazione del codice che ogni malattia ha, innanzitutto dal punto di vista clinico, il medico perde le fondamenta del suo sapere: la semeiotica, l’arte di decifrare sintomi e segni. Sherlock Holmes clinico che ha smarrito se stesso, perde il gusto dell’“intelligenza indiziaria” che è il grande alleato di un medico di qualità. Moltiplica gli esami, senza un quesito clinico rigoroso che li ispiri. Monco della semeiotica, non riesce a collocare in un quadro unitario frammenti di sapere, parcellizzati in tanti esami, che solo una mente curiosa di indizi può collocare in un mosaico ricco di senso.
Lamentano la frammentazione in tante specialità: e il loro corpo torna ad essere un assemblaggio d’organi più o meno sani, più o meno malati, che nessuno sembra più interessato a ricomporre nel corpo vivo, sognante e desiderante, di una donna. Ed ecco il ricorso alle medicine alternative, e il loro successo: perché quel medico “altro” dedica all’ascolto uno spazio centrale e un’attenzione globale a quel corpo-soggetto di cure, che ospita emozioni e sentimenti, angosce e speranze, paura e desiderio di vita.
Lamentano i costi della medicina di qualità, sempre più privata, con un sistema sanitario pubblico demotivato e demotivante.

Il tempo impaziente e i suoi costi

Quasi più di tutto, nella medicina d’oggi le donne lamentano la mancanza di tempo. Di un tempo dedicato e paziente. Nel tempo impaziente che caratterizza la vita contemporanea, come ben diceva Dietrich Bonhoeffer, nel tempo-monetizzato, anche dell’ospedale-azienda, c’è sempre meno spazio per l’ascolto, essenziale per una diagnosi vera, “conoscenza attraverso” il linguaggio – della parola e del corpo – che sempre meno noi medici sappiamo decifrare. Aumentano gli errori diagnostici, per la troppa fretta, per la disattenzione, per la superficialità. E aumenta il “doctor shopping”, il passare da uno specialista all’altro, alla ricerca di una diagnosi che comprenda i segni, che dia senso alla richiesta di aiuto che la donna – e il suo corpo – ci pongono. Eppure, anche in una prospettiva di contenimento di costi, è proprio una semeiologia rigorosa il modo più etico – centrato sul/la paziente e sulla verità dei suoi sintomi – per selezionare i pochi esami necessari e sufficienti per confermare una diagnosi già correttamente ipotizzata.

Il dolore negletto

Per la donna che soffre, che ha nel dolore che le tormenta il corpo il sintomo centrale per cui si rivolge al medico, l’insulto più pesante è la negazione della verità biologica del suo dolore. “Il dolore è tutto nella sua testa, signora”. “E’ ansiosa, depressa, vada in vacanza!”. “Si rilassi, beva una coppa di champagne (!), vedrà che le passa”. “E’ impossibile che senta male”. “Ma perché fa tutte queste storie? Tutte le donne hanno un po’ di dolore con le mestruazioni, non è il caso di farne una tragedia...”. “Ha dolore ai rapporti? Perché non prova a cambiare partner?”. “Ha il colon irritabile? E’ tutto stress!”. “Ha tanto dolore alla articolazioni? Ma cosa vuole, alla sua età! Porti pazienza!”.
Il risultato? Tra inizio dei sintomi dolorosi e la diagnosi corretta della patologia seria che sottende il dolore, c’è un ritardo medio di 4 anni e otto mesi, in caso di vestibolite vulvare, il cui sintomo principe è il dolore ai rapporti (“dispareunia”); di 5-7 anni per la cistite interstiziale; di ben 9 anni e tre mesi per l’endometriosi, il cui sintomo principe è proprio il dolore mestruale (“dismenorrea”). E così via. Anni di sofferenza, di visite, di giorni malati, senza orizzonti, senza luce, senza cure efficaci, con una famiglia sempre più stanca di sentirsi dire che il dolore che la donna lamenta “è psicosomatico” ed è “tutto nella sua testa”. Con conseguenze pesanti: sul fronte della patologia primaria, che diventa molto più grave e insidiosa; sul fronte del dolore, che da “nocicettivo”, ossia indicatore di danno in corso, diventa “neuropatico”, ossia malattia in sé, molto più difficile da curare; sul fronte della comorbilità, ossia delle altre patologie che compaiono in conseguenza alla trascuratezza della prima e alla mancata diagnosi dei comuni fattori che predispongono, precipitano e mantengono patologie tra organi vicini, come succede per esempio negli organi addomino-pelvici; sul fronte dei costi: quantizzabili, in cure mediche, ospedalizzazioni, interventi; e non quantizzabili, in termini di vita sprecata, di infelicità, di dolore, di depressione, di disperazione, di perdita di lavoro, di lacerazione di rapporti familiari...
Il corpo negletto nella verità del suo dolore resta allora il paradigma di quanto resti ancora da fare, oggi, in medicina, nel rapporto con il corpo femminile. Si parla apertamente di sessualità, di mestruazioni, di piacere, ma la spregiudicatezza verbale e comportamentale non è correlata, in medicina, a un diverso e più profondo senso del corpo, della sua forza, del suo valore, della sua verità, del suo essere paradigma visibile della verità della persona.

La sessualità e il piacere

Se il dolore è poco ascoltato, sessualità e piacere della donna sono addirittura ignorati nel dialogo clinico. Solo una desolante minoranza di medici italiani (il 4% secondo un recente survey internazionale) include nell’anamnesi almeno una domanda sulla sessualità femminile. Con un netto ritardo culturale rispetto ai maschi, per i quali la sessualità è già da anni entrata nel dialogo clinico, per lo meno a livello di urologi, andrologi, endocrinologi e medici di famiglia, per la sessualità delle donne, in medicina, domina ancora il silenzio.
Curiosamente, le domande sulla qualità della vita sessuale sono minime anche quando il ginecologo parli di contraccezione, come se persistesse una scissione culturale tra l’atto medico (prescrivere un contraccettivo) e le sue implicazioni sulla vita intima della donna. E quando la donna stessa apra la conversazione su problemi di tipo sessuale, viene immediatamente inviata ad uno psicologo, o al sessuologo, con una sostanziale omissione diagnostica delle possibili implicazioni biologiche – e quindi di stretta competenza medica – che possono concorrere al suo problema sessuale. Quest’omissione ha gravi ripercussioni perché impedisce che la disfunzione sessuale venga affrontata nella sua complessità e adeguatamente trattata. Nessuna psicoterapia, o psicoanalisi, o terapia di coppia può curare un blocco del desiderio da carenza di ormoni sessuali dopo ovariectomia, dopo menopausa precoce, da eccesso di prolattina o in conseguenza di terapie farmacologiche; e men che meno una caduta di desiderio secondaria a dolore ai rapporti, a secchezza vaginale da carenza estrogenica, o a distrofie vulvari. Non può curare né una scarsa o assente lubrificazione da carenza estrogenica né le cistiti che compaiono dopo i rapporti, e che richiedono invece, per essere risolte, un’appropriata estrogenizzazione vaginale (e quindi uretrale) e un rilassamento dei muscoli del pavimento pelvico mediante automassaggio, stretching, biofeedback elettromiografico o fisioterapia. La psicoterapia non può altresì curare le difficoltà orgasmiche da carenza di androgeni, da invecchiamento genitale, da alterazioni del tono del muscolo elevatore dell’ano, o da antidepressivi. Il corpo sessuato della donna non esiste ancora dal punto di vista medico, con l’eccezione di alcuni selezionatissimi ambiti di ricerca che tuttavia non si traducono in pratica clinica quotidiana.
In una società in cui la sessualità sembra essere diventata un paradigma di competenza esistenziale, la medicina resta arroccata su posizioni molto conservatrici, ancora una volta nettamente più chiuse nei confronti della donna rispetto all’uomo. Molto resta quindi da fare, a livello formativo, perché il medico sia in grado di diagnosticare e curare adeguatamente i problemi sessuali femminili, con la stessa semplicità di sguardo e la serenità con cui diagnostica un’ipertensione, una gastrite o una cisti ovarica.

Conclusioni

“L’Io è innanzitutto un Io corporeo”, diceva Sigmund Freud. Questa affermazione contiene una verità profonda. Il nostro benessere fisico, che dal punto di vista neurobiologico si radica e si integra a livello del bulbo, del mesencefalo e delle strutture cerebrali profonde, regola gli stati emotivi e cognitivi superiori. Quando ci sentiamo bene, il nostro sguardo sul mondo si illumina. Quando stiamo fisicamente male, tutto il nostro rapporto con gli altri e con la vita subisce una deformazione in grigio.
Ascoltare il corpo, ridecifrarlo, assaporando il gusto – intellettuale e culturale ma anche emotivo e affettivo – di affinare una sublime intelligenza indiziaria, questa è l’arte antica dell’essere medico. In questo impoverimento contemporaneo, non è solo la donna – e il suo corpo – a soffrirne. Si impoverisce anche la base portante della soddisfazione nell’essere un buon medico, oggi sempre più spostata sulla dimensione economica.
La sfida è grande: riportare la donna, l’uomo, il vecchio, il bambino, e il loro corpo che soffre, al centro di un’attenzione semeiologica, che in quanto tale, non può prescindere dal giusto tempo, dall’ascolto, da una decifrazione attenta di sintomi e segni, da un rapporto interpersonale di qualità che, nell’assoluto rispetto del limiti professionali, sappia condividere il senso di un incontro che può essere banale, inconcludente, penalizzante oppure, auspicabilmente, gratificante e risolutivo. Sta a noi medici impegnarci di più e meglio in una medicina non per schiavi, ma per uomini – e donne – liberi, come diceva Platone (vedi Terapia del corpo e dell’anima).

Terapia del corpo e dell'anima

Non ci può essere cura, terapia nel senso profondo e antico, senza attenzione al corpo e allo spirito che lo abita. Nella donna come nell’uomo.
Platone, nel Gorgia, parla per la prima volta di terapia come “therapèia theòn”, cioè sollecitudine, attenzione, rispetto, cura degli dei e del divino. Successivamente Platone ritorna sull’argomento e parla della “Therapèia toù sòmatos, tès psychès”, “terapia del corpo e dell’anima”, in cui il medico dovrebbe avere, per il corpo e per l’anima, l’attenzione, la sollecitudine, la cura che merita la scintilla di divino che è in noi. Nella Repubblica, parla di due tipi di medicina: la prima è riservata agli schiavi, ai quali si cerca di togliere rapidamente il sintomo perché riprendano subito il lavoro; la seconda è la medicina per gli uomini liberi, ed è attenta al corpo, all’anima, e ai rapporti familiari. Questo diceva Platone. La medicina contemporanea, così concentrata a uccidere i sintomi, senza attenzione vera né per il corpo, né per l’anima, è una medicina da schiavi. E’ la medicina della sollecitudine, quella per gli uomini liberi, che merita riscoprire e valorizzare.

Bibliografia di riferimento

Alexander J.L. Dennerstein L. Woods N.F. Halbreich U. Kotz K. Richardson G. Graziottin A.
Arthralgias, bodily aches and pains and somatic complaints in midlife women: etiology, pathophysiology and differential diagnosis
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Graziottin A.
Il dolore segreto - Le cause e le terapie del dolore femminile durante i rapporti sessuali
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Graziottin A.
Effect of premature menopause on sexuality
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disponibile su: www.alessandragraziottin.it


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Contraccezione ormonale. Le ragioni forti della compliance e dell'aderenza alla terapia
Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 2007
disponibile su: www.alessandragraziottin.it
 
Lacroix X.
Il corpo e lo spirito
Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 1996


Platone
Gorgia
Editori Laterza, Bari-Roma, 2007
 
Platone
La Repubblica
Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2007
 
Manicardi L.
L'umano soffrire
Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 2006


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Increased risk of cognitive impairment or dementia in women who underwent oophorectomy before menopause
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Increased risk of parkinsonism in women who underwent oophorectomy before menopause
Neurology. 2008 Jan 15; 70 (3): 200-9


Verzé Don Luigi
Io e il Cristo
Bompiani, Milano, 2007

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