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Una mente aperta e ricettiva, primo requisito per aiutare il malato

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18/05/2011

Tratto da:
Frank Ostaseski, Saper accompagnare. Aiutare gli altri e se stessi ad affrontare la morte, Oscar Mondadori 2006, p. 25-28

Guida alla lettura

In questo splendido brano Frank Ostaseski, maestro buddhista e fondatore dello Zen Hospice Project (ZHP) di San Francisco, spiega il significato di uno strano insegnamento orientale: “Coltiva una mente che non sa”. Non significa certo trascurare la competenza tecnica, fondamento irrinunciabile in tutte le professioni, e a maggior ragione in quelle di cura e di aiuto. Significa piuttosto impedire alle conoscenze acquisite di formare una sorta di “gabbia” che renda sordi ai bisogni reali del malato, e incapaci di cogliere strade innovative ed efficaci per soddisfarli.
Una mente che non sa, spiega Ostaseski, è «aperta e ricettiva»: una mente che non si arrende alle idee preconcette, che resta in ascolto, e soprattutto rimane «quanto più possibile aderente all’esperienza», in quel cammino sempre diverso e irto di difficoltà che è l’accompagnamento del malato e del morente. Solo così si evita di “intralciarsi” il cammino, perché «la capacità di essere realmente di aiuto agli altri è proporzionale alla capacità di vivere il presente come qualcosa di sempre nuovo».
Quello di Ostaseski è un vibrante appello all’umiltà, ma anche alla flessibilità, alla creatività, e a un corretto ed equilibrato esercizio dell’intuito. Un appello che tutti possono fare proprio con profitto: chi si dedica alle cure palliative dei malati terminali, innanzitutto; poi i medici e gli altri professionisti della salute, che negli ospedali lottano quotidianamente per la guarigione dei loro pazienti; ma anche – e questo è lo stimolante corollario della tesi di Ostaseski – tutti noi, perché ciascuno di noi ha il diritto di affrontare la propria vita «con grande compassione e generosità», senza strategie rigide e precostituite, ma nell’ascolto profondo delle proprie ferite, delle proprie paure e dei propri sogni.
“Coltiva una mente che non sa”: questo è uno di quegli insegnamenti zen che a prima vista sembrano non avere senso. Cosa vuol dire? Dal mio punto di vista, “una mente che non sa” è una mente aperta e ricettiva. Una mente che non è limitata. Suzuki Roshi (1904-1971), il fondatore del San Francisco Zen Center, amava ripetere: «Nella mente del principiante ci sono molte possibilità, in quella dell’esperto, poche».
Quando entriamo nella stanza di una persona che sta morendo con il nostro bagaglio di nozioni, la prospettiva si restringe, si riduce a misura delle nostre idee preconcette. Ciò può creare una distanza fra noi e la persona che serviamo. Immaginate di poter entrare in quella stanza con una mente che non sa, guardando tutto con occhi nuovi, liberi da obiettivi prestabiliti, aspettative o limitazioni: come cambierebbe il vostro modo di vivere la situazione?
C’è un altro insegnamento zen che si collega a questo, e cioè: «Non sapere è massima intimità». Quando non sappiamo, dobbiamo restare quanto più possibile aderenti all’esperienza. Dobbiamo lasciare che le nostre azioni scaturiscano dalla situazione in cui ci troviamo. È come entrare in una grotta buia senza una torcia. Per farci strada, dobbiamo procedere a tentoni rasente alle pareti. Lo stesso vale nel rapporto con la persona che sta morendo. Cerchiamo di restare aperti, senza preconcetti, procedendo a tentoni, passo dopo passo, attimo per attimo, ricettivi, flessibili, osservando attentamente i bisogni mutevoli dell’altro e al tempo stesso prestando ascolto alla nostra voce interiore, riconoscendo i nostri impulsi, fidandoci del nostro intuito.
Nei giorni precedenti la sua morte, John era caduto in uno stato semicomatoso. Una sera vidi che aveva il volto molto teso e la testa rovesciata all’indietro, con i muscoli della gola duri e contratti. Ogni respiro gli costava uno sforzo terribile. Ricordo che passai la serata seduto accanto a lui, senza sapere cosa fare. Un famoso maestro spirituale, che aveva esperienza in materia, mi aveva spiegato che lo spirito di John stava cercando di lasciare il corpo, per cui avrei dovuto mostrargli la strada mettendo una mano sulla sua testa. Cosa che feci, ma senza risultato. Parlai con il medico curante, il quale mi consigliò di aumentare leggermente la dose di morfina per facilitare la respirazione. Feci anche questo, ma senza risultato. A sera inoltrata, un esperto di terapie corporee mi suggerì di premere su certi punti specifici dei piedi, usati in agopuntura per alleviare la tensione. Provai, ma senza risultato. Il sapere, in questo caso, non era stato di alcun aiuto.
Quindi rimasi lì, seduto accanto a John, sentendomi un po’ inutile. A un certo punto avvertii un impulso, una specie di bisogno istintivo di abbracciarlo. Mi stesi sul letto e circondai John con le braccia. Cominciai a cullarlo, e mentre lo facevo mi venne spontaneo cantargli una ninnananna sottovoce. Non una filastrocca per bambini, ma una di quelle che si inventano strada facendo, una serie di suoni e parole in libertà, senza alcun senso compiuto. Suoni d’amore, come li chiamo io. Semplicemente quello che un qualunque genitore farebbe con un figlio malato o spaventato. E mentre gli sussurravo all’orecchio e lo baciavo in fronte, le mie mani cominciarono a muoversi con sicurezza, anche se non avevo in mente nessun obiettivo. Le mie dita gli accarezzavano la gola e il volto, poi le mani cominciarono molto delicatamente a fare gesti circolari all’altezza del suo cuore. Perdemmo il senso del tempo. Sentivo il suo corpo affondare nel mio, che avvolgeva morbidamente quel che restava della sua forma scheletrica. Alla fine, la sua gola cominciò a rilassarsi, e la testa si raddrizzò. John aprì gli occhi, e sembrava sollevato.
In seguito, mi chiesi se avevo fatto la cosa giusta. Lo avevo forse richiamato da uno stato di premorte, interrompendo il processo con cui lo spirito abbandona il corpo? Non saprei. A posteriori mi resi conto che tutte le strategie tentate fino a quel momento avevano un denominatore comune, ossia l’idea che ci fosse qualcosa di negativo nella condizione di John, e si riproponevano sostanzialmente di alleviare i suoi sintomi. E in tutto ciò, John sembrava essersi perduto. Dovetti arrivare al punto di non poterne più delle strategie per potermi arrendere, e mettere da parte le idee preconcette sui risultati da ottenere. Fu allora che la mente e il cuore cominciarono ad aprirsi, facendomi intravvedere possibilità che fino a quel momento non avrei saputo riconoscere. Da quel punto in poi agii spontaneamente, libero da interferenze; non dovevo fare altro che restare in ascolto e smettere di intralciarmi il passo.
In certe circostanze, la disponibilità a non sapere è la risorsa più importante. La capacità di essere realmente di aiuto agli altri è proporzionale alla capacità di vivere il presente come qualcosa di sempre nuovo.
Ho visto morire centinaia di persone, e ho visto i loro cari sopraffatti dall’angoscia e dalla confusione perché per la prima volta si trovavano a esplorare il proprio rapporto con la sofferenza, il dolore, la paura, la perdita. Non c’è bisogno di aspettare la morte di una persona cara o di trovarci in punto di morte. Possiamo affrontare la nostra vita a viso aperto subito, con grande compassione e generosità.

Biografia

Frank Ostaseski ha fondato, nel 1987, lo Zen Hospice Project (ZHP) di San Francisco, il primo e più grande hospice buddhista statunitense. Il progetto nasce con l’obiettivo di coniugare la spiritualità e l’azione sociale, e di promuovere una maggiore sensibilità nell’assistenza ai malati terminali, attraverso una formazione del personale professionale e volontario mirata a coltivare saggezza e compassione attraverso il servizio.
Alle origini dello Zen Hospice Project c’è la comunità dello Zen Center di San Francisco, che da sempre si era occupata dei suoi membri in fase terminale, e aspirava ad estendere le stesse cure a chi ne aveva maggiormente bisogno: poveri e senza tetto colpiti da AIDS, cancro, morbo di Alzheimer e altre gravi patologie.
«Lo Zen Hospice Project – racconta Ostaseski nella postfazione del libro – partì con un’idea semplice. Non avevamo un piano dettagliato. Semplicemente, credevamo che ci fosse una naturale corrispondenza fra chi, impegnandosi nella pratica meditativa, coltivava la “mente che ascolta”, e chi, prossimo a morire, di quell’ascolto profondo aveva particolare bisogno. Eravamo convinti che la presenza di una persona serena nella stanza poteva bastare a cambiare le cose. Eravamo anche convinti che in un’offerta di assistenza il beneficio è reciproco. Prendendoci cura degli altri ci prendiamo anche cura di noi stessi. È un punto di vista che trasforma radicalmente la qualità del servizio offerto».
In diciassette anni, sotto la direzione di Ostaseski, lo ZHP cura il tirocinio di quasi mille volontari. Il modello organizzativo non è gerarchico: le decisioni vengono prese collegialmente; pazienti, familiari, professionisti e volontari svolgono tutti la loro funzione, ciascuno dalla propria specifica posizione. «Non c’era chi dava aiuto e chi lo riceveva – osserva ancora Ostaseski – Si imparava e si cresceva insieme alla presenza della morte. E a ciascuno è stata data l’opportunità di crescere attraverso l’incontro onesto e diretto con la morte».
Nel 2004 Ostaseski fonda l’Alaya Institute, derivazione dello Zen Hospice Project. L’istituto, di ispirazione buddhista, si propone di favorire il cambiamento individuale e socioculturale diffondendo approcci che accordino pieno riconoscimento alla dimensione spirituale del morire.
Colpito da un attacco cardiaco nel 2008, e sottoposto a un intervento di triplo bypass, Ostaseski tiene tuttora conferenze e ritiri di studio, anche in Italia, per chi è impegnato in attività di assistenza o lotta contro una grave malattia.
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