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16/06/2010

Tratto da:
Marie de Hennezel, La morte amica, RCS Libri, Milano, 2007

Guida alla lettura

«Penso che il coma sia una sorta di rifugio quando tutto diventa troppo intollerabile, ma è ancora troppo presto per morire... Ho avuto spesso l’impressione che le persone in coma offrissero in quel modo ai loro cari il tempo di prepararsi alla separazione definitiva». E’ l’interpretazione che ci propone Marie de Hennezel, psicologa presso un reparto di cure palliative a Parigi: una lettura forse non ortodossa secondo la medicina dell’evidenza, ma certamente stimolante perché frutto di un lungo lavoro di supporto emotivo accanto ai malati terminali. D’altronde, le due situazioni narrate nel brano – la morte di un uomo subito dopo la visita della figlia, la commovente vicenda di Valérie – sembrano confermare come l’incoscienza profonda del coma, in taluni casi, possa essere davvero «uno stato misterioso» e come occorra essere «sufficientemente umili per accettare di rispettare quello che non si riesce a comprendere».
In ogni caso, la riflessione di Marie de Hennezel ci insegna con forza una verità valida in tutte le situazioni: bisogna saper lasciare andare le cose belle della nostra vita – siano esse una persona che muore, una casa amata, un sogno a lungo coltivato e non realizzato. Non è rassegnazione a basso prezzo, ma assunzione consapevole – e quanto faticosa – del limite che contraddistingue il nostro essere: solo così potremo pacificare il nostro cuore e guarirlo dalle ferite del tempo.
Qualche mese fa ho ricevuto nel mio studio, in ospedale, una collega psicoanalista. Una donna della mia età, la cui figlia sta morendo di AIDS, nel nostro reparto. Valérie ha ventitré anni. Contagiata anni fa da un giovane tossicomane che aveva cercato di salvare per amore, è arrivata da noi in coma, dopo otto mesi di agonia.
Genitori, fratelli e sorelle, amici, l’hanno accompagnata durante questi lunghi mesi, e secondo la madre quell’esperienza li ha tutti profondamente sconvolti e trasformati. Abituata com’è, per professione, ad accompagnare le crisi esistenziali di chi è in analisi, confessa di essere stata profondamente segnata dal cambiamento che si è prodotto in tutti quelli che sono stati vicini a Valérie in questo periodo: «Ci ha condotti tutti molto lontani, ognuno sulla propria via, ci ha fatto crescere in pochissimo tempo, è un’iniziatrice senza averne coscienza».
Questa donna viene da me perché non capisce come mai sua figlia non riesca a morire. Che cosa succede? Che cosa aspetta? Racconto allora a questa collega la mia esperienza accanto a chi muore. Il coma è uno strano stato. Ne sappiamo molto poco, ma le persone che ne sono uscite sostengono di aver sentito tutto ciò che si diceva intorno a loro e di aver percepito la qualità affettiva delle parole e dei gesti. Sembra anche che un lavorio interiore prosegua nei sotterranei dell’essere. E’ uno stato misterioso che si cerca di rispettare, perché vi accadono forse cose assai importanti e bisogna essere sufficientemente umili per accettare di rispettare quello che non si riesce a comprendere.
Per quanto mi riguarda, avanzo alcune ipotesi. Penso fra l’altro che il coma sia una sorta di rifugio quando tutto diventa troppo intollerabile, ma è ancora troppo presto per morire, perché non tutto è sistemato. Ho avuto spesso l’impressione che le persone in coma offrissero in quel modo ai loro cari il tempo di prepararsi alla separazione definitiva. Alcuni aspettano anche la visita di qualcuno, oppure una riconciliazione non ancora avvenuta.
Racconto alla donna che mi sta di fronte come un uomo abbia atteso per tre mesi, in coma profondo, la visita della figlia di quattordici anni, a cui la famiglia impediva di andare a trovarlo, temendo che il mutamento fisico del padre la impressionasse troppo. Quell’uomo era morto il giorno dopo che la figlia era venuta a dirgli addio. Come non interpretare quel coma come una lunga attesa? Altri aspettano semplicemente che un essere caro dia loro il permesso di morire.
Riferisco queste mie osservazioni alla madre di Valérie, che si chiede appunto perché sua figlia, che tre settimane fa esprimeva il desiderio di morire, proprio prima di sprofondare nel coma, sia ancora in vita.
«C’è qualcuno tra voi che non è pronto alla morte di Valérie?».
La donna sembra cercare, ma non trova. È convinta che tutti si siano preparati a lungo, durante questi otto mesi così intensi, a tratti così dolorosi. Le dico semplicemente che si crede a volte di essere pronti, mentre qualche cosa in noi trattiene colui che amiamo. Non è forse terribile per una madre vedere morire una figlia così giovane? Si ha un bel prepararsi, una parte di noi rifiuta e resiste. La mia interlocutrice lo sa bene, poiché ha imparato, come me, ad ascoltare l’inconscio.
Il giorno dopo questa conversazione, Valérie è sempre addormentata. Non reagisce più da molto tempo, né quando la si chiama per nome né quando la si tocca. Sembra essere davvero in coma profondo. A mezzogiorno arrivano suo padre e sua madre, accompagnati da un volontario che si era affezionato molto a lei negli ultimi tempi. Insieme, si avvicinano al capezzale di Valérie. La madre si rivolge alla figlia, con calore, con emozione: «Amore mio, siamo qui accanto a te, ti vogliamo bene. Ci hai dato nella tua vita, e soprattutto negli ultimi tempi della tua malattia, così tante cose che non potremo mai ringraziarti abbastanza. Sii benedetta e vai per il tuo cammino. Restiamo con tutte le cose preziose che ci hai lasciato e che ci aiuteranno a continuare il nostro cammino senza di te. Va’, adesso».
In quel momento, Valérie è uscita dal coma. Ha aperto gli occhi guardando i suoi genitori. Poi ha fatto loro un piccolo cenno con la mano, dicendo “ciao” in quel suo modo disinvolto. Il suo respiro è rimasto sospeso su quell’ultimo commiato.

Biografia

Marie de Hennezel è nata a Lione nel 1946. E’ psicologa e psicoterapeuta, e da molto tempo si occupa di cure palliative. Incaricata del Ministero della Sanità francese per la diffusione di queste cure, è autrice di due rapporti ministeriali sull’accompagnamento delle persone in fin di vita. Oltre all’ascolto empatico e al supporto psicologico, pratica con i suoi pazienti una disciplina nota come “aptonomia”, che studia il contatto tattile affettivo.
Fondata oltre cinquant’anni fa da un medico olandese, Franz Veldman, e ancora poco nota in Italia, l’aptonomia insegna a mettersi in relazione con gli altri esseri umani attraverso il tatto. Questa tecnica fu a lungo applicata nel rapporto fra genitori e figli dal concepimento alla nascita, e nel periodo del puerperio. Da alcuni anni è utilizzata anche con i morenti, per rispondere ai loro bisogni emotivi e affettivi.
Spiega la stessa de Hennezel nel libro “La morte amica”: «Forse può sembrare ridicolo seguire un corso di formazione per sviluppare una facoltà del genere. Purtroppo, il mondo nel quale siamo tutti cresciuti e continuiamo a muoverci non favorisce il contatto affettivo spontaneo tra esseri umani. Certo, tocchiamo gli altri, ma con un’intenzione erotica. Oppure in un contesto oggettivo, come nell’universo medico, dove si maneggiano “corpi-oggetto”. Ci si dimentica di quello che può sentire la “persona”. E’ quindi importante sensibilizzare i professionisti della salute a una dimensione dell’approccio umano che comprenda l’incontro tattile... Si cura un piede, una gamba, un polmone, un seno, come un qualcosa di distinto, o si cura forse la persona che soffre in questo o quel punto del corpo ed esprime tale sofferenza con il suo modo personale di essere? Sappiamo in quale misura la qualità di una presenza e il grado di attenzione possano cambiare il modo in cui qualsiasi intervento medico, anche il più aggressivo, viene recepito dai malati... In un reparto di cure palliative, il senso del contatto è uno dei valori positivi della terapia... L’approccio tattile permette ai malati di sentirsi integri e pienamente vivi. Come se si avvolgesse la pelle dolorante di un corpo moribondo con una seconda pelle, più delicata... Una pelle psichica, una pelle dell’anima».
Nonostante il suo quotidiano impegno al fianco di chi affronta la morte, Marie rifugge da ogni idealismo compiaciuto e non ha timore di parlare con grande onestà etica e intellettuale di quello che chiama il suo “assillo segreto”: la sofferenza ha un senso?
Nel 2008 ha pubblicato “Il calore del cuore impedisce al corpo di invecchiare” e “Prendersi cura degli altri. Pazienti, medici, infermieri e la sfida della malattia”, editi entrambi da Rizzoli.
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