Guida alla lettura
Inizia così questo straordinario episodio tratto da “Il sergente nella neve”. Un episodio che ci insegna come, anche nella fase più drammatica di una guerra mostruosa, l’essere umano possa restare tale, e conservare il senso di una solidarietà salda e profonda con il proprio simile. E come sia stata una donna, un’umile e silenziosa donna della desolata steppa russa, a rendere possibile questo miracolo semplice e grande: con i gesti essenziali di chi sa offrire al nemico un mestolo di zuppa e un favo di miele.
Nulla nel suo atteggiamento tradisce odio, paura o rassegnazione, e neppure ostentazione e orgoglio. E così quel piatto di minestra, da possibile oggetto di violenza o strumento di umiliazione, diviene un bene assoluto, che placa i timori del sergente Rigoni Stern, acquieta i soldati russi, crea «un’armonia che non è solo un armistizio», e alimenta un ricordo struggente e colmo di speranza.
Dedichiamo il brano a tutte le donne che la guerra priva dei figli, dei fratelli e degli sposi, in ogni parte del mondo, e che nell’infinito dolore sanno conservare un’infinita capacità di compassione. E alle tante donne non toccate dalla guerra, perché nei nuovi ruoli da loro conquistati nella società moderna sappiano conservare ed esprimere questa vocazione antica alla condivisione e alla riparazione.
Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. – Mnié khocetsia iestj [vorrei mangiare], – dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. – Spaziba [grazie], – dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. – Pasausta [prego], – mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco.
Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere.
Biografia
Nel 1938 si arruola alla Scuola Centrale Militare di Alpinismo di Aosta. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, combatte prima al confine con la Francia, e poi in Albania, Grecia e Russia, dove vive la tragedia della ritirata. Fatto prigioniero dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, viene deportato in un lager della Prussia orientale, da cui ritorna nel maggio 1945.
Insignito della medaglia d’argento al valor militare, ha sempre saputo coniugare il coraggio in combattimento con una profonda generosità verso gli altri, senza distinzione fra amici e nemici, tanto che numerosi civili russi riuscirono a sopravvivere grazie al suo aiuto: fra questi Nikolaj Sanvelian, allora bambino, e diventato in seguito uno dei più famosi scrittori russi della seconda metà del Novecento.
Dopo il rilascio Rigoni Stern torna ad Asiago, dove vivrà sino alla morte nella casa da lui stesso costruita. Nel 1946 sposa Anna, dalla quale ha tre figli. Esordisce come scrittore nel 1953, con il libro autobiografico “Il sergente nella neve”, in cui racconta la sua esperienza nella ritirata di Russia. Successivamente pubblica altri romanzi ispirati alla guerra e alla natura, fra cui “Il bosco degli urogalli” (1962), “Ritorno sul Don” (1973), “Uomini, boschi e api” (1980), “Il libro degli animali” (1990), “Inverni lontani” (1999), “I racconti di guerra” (2006) e “Quel Natale nella steppa” (2006).
Tornato un giorno nella steppa, dirà: «Il momento culminante della mia vita non è stato quando ho vinto premi letterari, o ho scritto libri, ma quando la notte dal 15 al 16 sono partito da qui sul Don con settanta alpini e ho camminato verso occidente per arrivare a casa, e sono riuscito a sganciarmi dal mio caposaldo senza perdere un uomo... quello è stato il capolavoro della mia vita».
Muore ad Asiago il 16 giugno 2008.