EN
Ricerca libera
Cerca nelle pubblicazioni scientifiche
per professionisti
Vai alla ricerca scientifica
Cerca nelle pubblicazioni divulgative
per pazienti
Vai alla ricerca divulgativa

Il ragazzo di nome David

  • Condividi su
  • Condividi su Facebook
  • Condividi su Whatsapp
  • Condividi su Twitter
  • Condividi su Linkedin
05/11/2008

Tratto da:
Enzo Biagi, Testimone del tempo, Società Editrice Internazionale, Torino, 1970, p. 104-107

Guida alla lettura

David Rubinowicz nacque alla fine degli anni Venti in una modesta famiglia ebraica di lattai nel villaggio di Krajno, presso Bodzentyn, nella Polonia centrale. Come gli altri ebrei polacchi, dopo l'invasione tedesca del 1939, subì le pesanti discriminazioni imposte dal nazismo, venendo costretto a lasciare la scuola ed affrontando enormi difficoltà nella vita quotidiana. L’intera popolazione ebraica di Bodzentyn fu sgomberata nel 1942. Il 21 settembre partirono i vagoni piombati che l’indomani giunsero al campo di sterminio di Treblinka dove, con ogni probabilità, David fu ucciso in una camera a gas poche ore dopo il suo arrivo.
David compose il suo diario (pubblicato in Italia da Einaudi) su cinque quaderni scolastici. Gli appunti, a cadenza irregolare, vanno dal 21 marzo 1940 al 1° giugno 1942. In essi il ragazzo riporta, con precoce maturità, una precisa e spesso emotivamente distaccata documentazione della tragedia della sua piccola comunità.
La rievocazione che proponiamo è stata scritta da Enzo Biagi in uno dei suoi libri più famosi, “Testimone del tempo”. In una prosa scarna ed evocativa, il giornalista lascia parlare le immagini del paesino e i ricordi dei protagonisti.
Uno dei vertici emotivi del racconto si tocca con una frase della sua vecchia maestra: «David, se voleva, poteva salvarsi. Era biondo come un tedesco». Perché scelse di non salvarsi? Perché non rimase nascosto nel bosco di Krajno, dove pure aveva trovato rifugio durante un precedente rastrellamento? Forse perché David «avverte ogni angoscia del dramma, e trova, nella purezza dei sentimenti, la rassegnazione per accettarlo». Forse fu questa rassegnazione semplice e pura che lo spinse a condividere il destino dei genitori e della sorellina. Con una determinazione che ci ricorda Edith Stein quando, alla vigilia della deportazione ad Auschwitz, disse alla sorella: «Andiamo, per il nostro popolo».
Dedichiamo questa pagina a tutti i bambini che, oggi come allora, soffrono ogni giorno per l’odio razziale, l’ingiustizia sociale, la fame, la guerra, e ci insegnano con le loro esistenze silenziose che – anche se l’abisso del male può aprirsi, all’improvviso, di fronte a noi – nel nostro cuore possiamo trovare la forza di affrontarlo e attraversarlo con dignità.
Andai nel ghetto di Varsavia, gli uccelli e il vento hanno lasciato cadere qualche seme fra le macerie, da una finestra spuntavano le foglie di un susino. C’è anche un monumento con nastri, corone e una lapide che dice: «Il popolo ebraico ricorda il sangue dei suoi martiri». Mezzo milione di persone – pensavo – vivevano di là da questi muri diroccati; quanti ne ospita adesso la città? «Forse cinquemila, forse mille di più» fu la risposta «ma è difficile saperlo. Moltissimi ebrei hanno cambiato nome, non vogliono essere riconosciuti».
Mi venne in mente David Rubinowicz, e la sua maestra, la grassa e mite signora Florentyna Krogolec. «David» diceva la dolce signora «se voleva poteva salvarsi. Era biondo come un tedesco». Pensavo con tristezza: «Ci sono ancora idee che dividono, basate sul colore degli occhi o dei capelli, c’è ancora chi ha paura perché si chiama Isacco, o Rachele».
Per questo vorrei raccontarvi la storia di David Rubinowicz, un bambino che morì soltanto perché il suo nome era David. È la storia di un ragazzino di dodici anni, figlio di un lattaio, scomparso nell’autunno del 1942: un treno partì dalla stazione di Suchedniowo, forse fermò a Belsen, o a Dachau, o ad Auschwitz, o a Buchenwald, c’erano quasi duecento stazioni di transito prima di arrivare a Dio. Di lui è rimasto ben poco: una pagella, alcuni quaderni, la fotografia di una gita scolastica. Il volto di David, nell’immagine un po’ confusa, si perde tra quegli altri bambini di campagna, che portano il berretto di pezza, e la borsa legata con le cinghie alla schiena.
Sono andato a cercare il ricordo di questo piccolo polacco sulle colline del suo villaggio, nel bosco dove trovò rifugio durante un rastrellamento, dove raccolse i funghi e la legna, e vide la volpe che gli faceva paura, ho visto la vecchia scuola, dove imparò a leggere, e a osservare la vita, ora il tetto è coperto di muschio, ho osservato, dalla soffitta dove si nascondeva, i ragazzi che pescavano, come allora, sul ponticello di Bodzentyn e mettevano i pesci ancora vivi nei vasetti della marmellata, ho visto le carrette dei contadini sulla piazza, attorno alle ruote che pompano l’acqua, ho ritrovato la vicina di casa dei Rubinowicz, Franciszka Szlufik, è una donna precocemente invecchiata, gestisce l’emporio di Krajno, vende lucido, cordelle, candele, salumi affumicati, ho incontrato Tadeusz Janiki, il compagno di banco di David, ha la faccia segnata, e i capelli grigi. Oggi David avrebbe trentatrè anni, sarebbe anche lui un piccolo commerciante. «Gli piacevano tanto le favole» mi ha detto la sua maestra «ed era molto bravo a fare i conti».
Di David Rubinowicz non sapremmo nulla, forse nemmeno che c’è stato un bambino che si chiamava cosi, perché la sua casa fu incendiata, la sinagoga, dove nei giorni d’obbligo andava a pregare, fu buttata per aria, adesso è diventata il cortile di un’officina, ingombro di bidoni di latta e di ferri arrugginiti, di tutti i Rubinowicz è rimasta solo una cugina di David, che vive in Israele; ma il caso ha voluto che il ragazzo sopravvivesse alla sua sorte. Per due anni, ogni giorno, egli ha annotato i suoi “strani pensieri”, e le vicende di due paesi, Krajno e Bodzentyn, sotto l’occupazione tedesca: la piccola cronaca, l’andamento delle stagioni, le ore animate dalla speranza, o segnate dalla morte. David non è Anna Frank, è un contadino, forse non ha mai visto il cinematografo, o ascoltato un pianoforte, la sua fantasia si è sperduta soltanto nei magici racconti dei cartelloni murali, appesi dietro la cattedra della signora Krogolec, non ha intuizioni precoci, ma narra con semplicità, e con distacco, i terribili eventi di cui è protagonista, e la sua coscienza li giudica. Non scopre, come Anna, l’amore, e non ha il linguaggio che Shakespeare offrì a Giulietta, ma avverte ogni angoscia del dramma, e trova, nella purezza dei sentimenti, la rassegnazione per accettarlo. Il giorno che uccidono una ragazza «che era un fiore», è sgomento, l’offesa è tanto grave che non può esservi salvezza: «Ormai» scrive «verrà la fine del mondo». Quando gli portano via il padre, non sa rendersi ragione: «Forse» annota «se lo sarà meritato da Dio». Ma ciò che accade è troppo difficile da capire, è troppo ingiusto perché lo si possa spiegare.
«La colpa di tutto è Abramo» scrive David, che va a cercare nella severità crudele della Bibbia una qualche ragione. Riempie, con una calligrafia paziente, quattro quaderni, e li lascia in un cassetto, perché arrivano le “guardie” (lui, le SS, le chiama così), e lo mettono in colonna con tutti gli altri ebrei di Bodzentyn, perché c’è un treno che li attende. I quaderni dalle larghe righe finiscono in un ripostiglio, e quando tutto è finito, una donnetta che vuol rimettere un po’ d’ordine li butta via, ma passa una madre e pensa: «Forse li ha perduti qualcuno dei miei figli», li raccoglie, così capitano sul tavolo di una scrittrice, poi di un editore, e le parole del bambino del lattaio di Krajno vengono stampate in tutte le lingue del mondo. L’ultima data del diario è il 1° giugno 1942; la pagina comincia con questa frase: «Giornata di felicità». “Felicità” è una parola troppo difficile per David. Arrivano “le guardie”. Il 21 settembre di David Rubinowicz si perde ogni traccia.
«Era un bimbo curioso» mi diceva la signora Krogolec, «io lo ricordo benissimo. Biondo, con gli occhi azzurri, bellino, un po’ smarrito. Quando i tedeschi proibirono agli alunni ebrei di frequentare la scuola, pianse. Lo trovai, nell’ora della ricreazione, in un angolo del cortile. Si sentiva solo, isolato. Tornò più tardi, venne in classe a comperare i quaderni sui quali ha raccontato la sua vicenda. Avevo altri quattro scolari ebrei, spariti, tutti spariti. David era molto educato, ricordo. Nei suoi esercizi di composizione c’erano sempre osservazioni strane, il gracchiare dei corvi gli faceva paura, gli facevano paura i topi che rubavano il fieno e le barbabietole nelle greppie delle stalle. Chi sa che paura ha avuto su quel treno».
«Io» mi diceva Tadeusz Janiki «l’ho in mente come se lo incontrassi adesso. Era un bambino molto pulito, portava i pantaloni alla zuava, e si pettinava con la riga a destra. L’ho visto l’ultima volta sul ponte di legno di Bodzentyn, era solo, stava guardando i ranocchi che si nascondevano tra i giunchi. Gli dissi se voleva venire a giocare ai “grosci”, è un gioco che si fa con le monetine, vince chi si avvicina di più al muro, disse di no. Lui, forse, le monetine non le aveva più. Sapevo che teneva un diario, ne avevo uno anch’io, mi fece leggere qualche pagina. Aveva paura per suo padre e per sua madre, ogni giorno portavano via qualcuno, e si sentiva sparare. Gli ebrei erano umiliati, tagliavano la barba ai vecchi rabbini, costringevano gli uomini a fare il saluto nazista, li prendevano a calci per farli salire sui camion, perché facessero in fretta, dicevano parole volgari alle ragazze, portavano via tutto. Le patate, la segala, le galline, un giorno requisirono tutte le pellicce, e anche David rimase senza, e dovette andare d’inverno a spalare la neve sulle strade, in cima alla collina spazzata dal vento. Qualcuno svenne, David ha raccontato quella giornata».
«I Rubinowicz» raccontava Franciszka Szlufik «erano dei buoni vicini. lo andavo a scuola con Manja, la ragazza, non c’erano differenze fra noi, solo Manja non veniva alla lezione di religione. La madre di David si chiamava Tabu, era una bellissima donna, lo possono dire tutti: il padre aveva nome Josek. Guadagnava poco, si arrangiava con qualche affaruccio; la vendita del foraggio o delle fascine. Erano molto uniti, una famiglia per bene, gente di chiesa; ogni venerdì andavano alla preghiera. Li portarono via una mattina, la casa di legno prese fuoco; adesso, vede, è diventata campo, abbiamo seminato l’erba medica. Addio, disse Manja; addio, disse David. Il camion sparì in fondo alla discesa, laggiù, dietro la grande betulla».

Biografia

Enzo Biagi nasce nel 1920 a Pianaccio di Lizzano in Belvedere, in provincia di Bologna. L’idea di diventare giornalista nasce in lui dopo aver letto Martin Eden, di Jack London. Nel 1937 scrive il suo primo articolo, per il quotidiano L’Avvenire d’Italia. Nel 1940 viene assunto dal Carlino Sera, pagina serale del Resto del Carlino, con l’incarico di correggere gli articoli dei reporter.
Nel 1942 viene chiamato alle armi, ma non parte a causa di problemi cardiaci che lo accompagneranno per tutta la vita. L’anno successivo si sposa con Lucia Ghetti, maestra elementare. Poco dopo aderisce alla brigata partigiana “Giustizia e Libertà”.
Terminata la guerra, viene assunto come inviato speciale e critico cinematografico al Resto del Carlino. Nel 1946 segue il Giro d’Italia; nel 1947 parte per l’Inghilterra e racconta il matrimonio della futura regina Elisabetta. È il primo di una lunga serie di viaggi all’estero. Nella sua lunga carriera, scriverà per periodici importanti come Epoca e L’Europeo, e per tutti i principali quotidiani nazionali: La Stampa, Corriere della Sera, La Repubblica.
Nel 1961 diventa direttore del Telegiornale, e l’anno successivo lancia il primo rotocalco della televisione italiana: RT-Rotocalco Televisivo. Nel 1975, collabora con Indro Montanelli alla creazione del Giornale.
Nei primi anni Novanta realizza importanti trasmissioni per la televisione, come Che succede all’Est?, dedicata alla fine del comunismo, e I dieci comandamenti all’italiana (apprezzata anche da Giovanni Paolo II). Segue le vicende di “Mani pulite”, con il Processo al processo su Tangentopoli (1993) e Le inchieste di Enzo Biagi (1993-1994).
Dal 1995 al 2002 conduce Il Fatto, programma di approfondimento sui principali fatti del giorno. Una giuria di critici televisivi voterà la trasmissione come il miglior programma giornalistico mai realizzato dalla Rai. Nell’aprile 2007 torna in ancora in tv con RT Rotocalco Televisivo, che riprende il titolo della sua prima trasmissione. Muore il 6 novembre dello stesso anno, a Milano. E’ ricordato come uno dei giornalisti più capaci, indipendenti e popolari del Ventesimo secolo.
Sullo stesso argomento per professionisti
Sullo stesso argomento per pazienti

Il dolore e la cultura

Il dolore e la spiritualità

Il dolore e la spiritualità

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Vuoi far parte della nostra community e non perderti gli aggiornamenti?

Iscriviti alla newsletter