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Restare aperti alle ferite del mondo

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06/08/2008

Tratto da:
David F. Ford, Dare forma alla vita, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI), 2003, p. 215-220

Guida alla lettura

In questa intensa e commovente pagina, David Ford ci guida alla lettura di alcune riflessioni del filosofo e teologo Nicholas Wolterstorff sulla morte del figlio Eric, perito a venticinque anni durante una scalata.
Di fronte al dramma, Wolterstorff non cerca facili consolazioni in una fede che pure è forte e ben radicata. Nelle sue domande angosciate può riconoscersi chiunque di noi abbia perduto un figlio, un fratello, una persona teneramente amata. Dirà in un altro passo del suo libro: «Eric se n’è andato, qui ed ora egli se n’è andato; adesso non posso parlare con lui, adesso non posso vederlo, adesso non lo posso abbracciare, adesso non lo posso ascoltare mentre parla dei suoi progetti per il futuro. Questo è il mio dolore. Io credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha risuscitato Gesù Cristo. Credo anche che la vita di mio figlio è stata spezzata nel fiore degli anni. Non riesco a tenere insieme questi elementi».
Poi, poco per volta, affiora una risposta: invece di spiegare la nostra sofferenza, Dio la condivide. E gli afflitti, che Cristo proclama “beati”, sono coloro che intuiscono il divario fra il mondo di Dio e il nostro, attraversato dal male e dal dolore, e ne soffrono. Sono “visionari dolenti”, che però non dimenticano l’insegnamento di Gesù: «Affliggetevi per l’afflizione dell’umanità, versate lacrime sulle ferite dell’umanità, straziatevi per lo strazio dell’umanità. Fate questo, però, nella gioiosa speranza che un giorno di pace sta per venire».
Possono essere risposte non soddisfacenti. Certamente, però, non sono risposte di comodo, confezionate a misura di una spiritualità ingenuamente ottimistica. E soprattutto non sono risposte edificanti “per gli altri”, ma nascono da un immenso dolore personale e dalla ricerca di un senso a questo dolore. Come tali sollecitano una riflessione, una risposta critica: non le si può liquidare frettolosamente, senza porsi in qualche modo in confronto con esse.

Il lutto è forse la forma più universale della sofferenza, dato che la mortalità umana è del cento per cento. Di conseguenza è una delle esperienze che plasmano più in profondità la vita umana. Cosa significa avere la propria vita plasmata da un dolore portato davanti a Dio?
In Lamento per un figlio, Nicholas Wolterstorff cerca di dare risposta a questo interrogativo, con straziante onestà. Descrive la terribile trasformazione avvenuta nella sua vita con la morte di suo figlio, Eric. Il passato ne è stato cambiato: la gioia di bei ricordi è diventata una fonte di dolore. Sentiva in sé l’imperativo a ricordare, a resistere all’amnesia, ma questo accresceva lo strazio. Ogni cosa si caricava della possibilità di diventare un ricordo di Eric. C’erano anche i rimpianti e il bisogno di perdono. Nel presente, svaniva il gusto di vivere, sotto il peso terribile, sfiancante del dolore.

«I giorni peggiori, adesso, sono le festività: il Ringraziamento, Natale, Pasqua, Pentecoste, i compleanni, i matrimoni: tutti quei giorni destinati a essere feste di felicità e gioia ora sono giorni di lacrime. Troppo grande è lo scarto tra la giornata e il cuore». Guardando al futuro, «è la consapevolezza del mai a essere così dolorosa. Mai più qui con noi: mai a sedere con noi a tavola, mai a viaggiare con noi, mai a ridere con noi, mai a piangere con noi, mai ad abbracciarci partendo per la scuola, mai a vedere i suoi fratelli e le sue sorelle sposarsi. Per tutto il resto delle nostre vite dobbiamo vivere senza di lui. Solo la nostra morte può mettere fine al dolore della sua morte».

Tutto il tempo, quindi, passato, presente e futuro, è stato trasformato dal dolore. E’ un lamento, questo di Wolterstorff, e poiché lui è un filosofo e un cristiano il suo lamento prende la forma di un grido angosciato, che interroga Dio. Se nient’altro ci riesce, è la sofferenza che può rendere la nostra fede interrogativa. Wolterstorff solleva un interrogativo dietro l’altro, pagina dopo pagina:

«Il dolore del non è più peserà sempre più della gratitudine per ciò che una volta è stato?
Perché ha scalato quella montagna?
Questo frantumarsi dell’amore è al di là del senso, per noi, è l’infrangersi del senso, il mistero, il terribile mistero?
Si può trovare sollievo alla tristezza, o si può solo oltrepassarla, molto lentamente?
E’ avvenuto qualcosa di demoniaco, là, vicino alla vetta dell’Ellmauerhalt? O questa non è che una categoria di pensiero mitologica, che l’“uomo moderno” dovrebbe eliminare dalla propria mente?
Non c’è una musica adeguata alla nostra infermità? Come posso cantare in questa terra desolata, dove ne manca sempre uno?
Che cosa farò dei miei rimorsi, che Dio ha perdonato?
Si adatteranno i miei occhi a questa oscurità? Nel buio, la cosa migliore è attendere in silenzio?
M’illudo, nel credere che in Dio la domanda urlata dalle ferite del mondo trovi la sua risposta? M’illudo, nel credere che un giorno conoscerò la risposta? M’illudo, nel credere che, una volta che conoscerò la risposta, vedrò che l’amore ha vinto?
Perché non resusciti adesso mio figlio? Perché la tua vittoria sul peccato e sulla morte e sulla sofferenza dev’essere così dolorosamente lenta?
Perché permetti a te stesso di soffrire, o Dio? Se la morte del giusto ti costa cara (Sal 116,15), perché la permetti? Perché non tieni stretta la gioia? Che cosa significa per la vita, il fatto che Dio soffra? In quali aspetti noi riflettiamo Dio? Riflettiamo Dio anche nel nostro soffrire? La sofferenza è la nostra gloria?
Perché “beati coloro che piangono”? Perché egli acclama gli afflitti del mondo? Chi sono, allora, gli afflitti? Perché il senso delle cose non sta nell’Amore senza sofferenza? Perché il senso è l’Amore sofferente? Perché Dio sopporta la sua sofferenza? Perché non dà sollievo al suo strazio, sollevandoci nel contempo dal nostro?
Questa ferita spalancata nel mio petto guarisce?
La nostra sofferenza è sempre redentiva? Soffrire della morte – non vivere in pace con la morte, ma soffrire stando alla presenza della morte – può portare pace? Che la radiosità che emerge dal fare la conoscenza del dolore sia una benedizione per altri, è cosa nota, per quanto possa lasciare perplessi: come possiamo custodire questa radiosità, mentre combattiamo ciò che l’ha provocata? Come possiamo ringraziare Dio per ciò che la sofferenza produce, mentre nello stesso tempo li chiediamo che venga rimossa? Come sostenere il mio “no” alla morte precoce di mio figlio, accettando al tempo stesso con gratitudine l’opportunità offertami di divenire ciò che altrimenti non avrei mai potuto essere? Come ricevere la mia sofferenza quale benedizione, respingendo nello stesso tempo il pensiero osceno che Dio abbia sabotato la montagna per rendere migliore me?
Mi domando come andrà quando Dio farà risorgere lui e il resto di noi dai morti. Darci nuovi corpi non sembra essere un gran problema, ma in che modo ci farà stare tutti insieme nella sua città? Sentirò Eric esclamare un giorno, adesso voglio dire realmente: “Ehi, papà, sono tornato”?».

Lottando con tutte queste domande, Wolterstorff dà molte meno risposte, ma le risposte che dà distillano una sapienza che può dolorosamente espandere la fede, la speranza e l’amore. “Non distoglierò lo sguardo da Eric morto” è il realismo su cui si incentra la sua reazione. Egli rifiuta le molte scappatoie possibili dalla morte e dal dolore. Al cuore di tutto, c’è il suo rifiuto a distogliere lo sguardo da Gesù Cristo crocefisso. Egli segue (per la prima volta nella sua vita, dice) la linea che va dalla croce al cuore sofferente, compassionevole di Dio. Per molte delle sue domande non ha una risposta sicura, però confessa: “Attraverso il prisma delle mie lacrime ho visto un Dio che soffre”.
Ripensa a quale potrebbe essere il motivo per cui noi non possiamo vedere il volto di Dio e restare in vita: la pena su quel volto sarebbe troppa, per noi.

«Che grande mistero: per redimere la nostra infermità e mancanza d’amore il Dio che soffre con noi non ha colpito con la potenza della sua forza, ma ha inviato il suo figlio diletto a soffrire come noi per redimerci dalla sofferenza e dal male attraverso la sua sofferenza. Invece di spiegare la nostra sofferenza, Dio la condivide».

Essere a immagine di questo Dio vuol dire essere afflitti:

«Chi sono gli afflitti? Gli afflitti sono coloro che hanno colto un cenno del nuovo giorno di Dio, che dolorano con tutto il loro essere per la venuta di quel giorno, e che scoppiano in lacrime quando sono messi a confronto con la sua assenza. Sono quelli che si rendono conto che nel mondo di pace di Dio nessuno è cieco, e si addolorano nello scorgere qualcuno che non vede. Sono quelli che si rendono conto che nel mondo di Dio nessuno è affamato, e si addolorano nello scorgere qualcuno che soffre la fame. Sono quelli che si rendono conto che nel mondo di Dio nessuno è falsamente accusato, e si addolorano nello scorgere qualcuno che viene imprigionato ingiustamente. Sono quelli che si rendono conto che nel mondo di Dio nessuno manca di vedere Dio, e si addolorano nello scorgere qualcuno che non crede. Sono quelli che si rendono conto che nel mondo di Dio nessuno soffre l’oppressione, e si addolorano nello scorgere qualcuno che viene schiacciato. Sono quelli che si rendono conto che nel mondo di Dio nessuno è privo di dignità, e si addolorano nello scorgere qualcuno che viene trattato indegnamente. Sono quelli che si rendono conto che nel mondo di pace di Dio non c’è né morte né vi sono lacrime, e si addolorano quando scorgono qualcuno che versa lacrime sulla morte. Gli afflitti sono visionari dolenti...
Gli stoici dell’antichità dicevano: sii calmo. Distaccati. Non ridere e non piangere. Gesù dice: restate aperti alle ferite del mondo. Affliggetevi per l’afflizione dell’umanità, versate lacrime sulle ferite dell’umanità, straziatevi per lo strazio dell’umanità. Fate questo, però, nella gioiosa speranza che un giorno di pace sta per venire».

È questo l’aspetto espansivo del dolore. Può ampliare la nostra empatia, la nostra compassione e la nostra capacità tanto di gioire quanto di soffrire. Aumenta la nostra tensione dolente verso il nuovo giorno, nella consapevolezza che il vero balsamo per questa ferita richiede che la ferita resti aperta.

Biografia

David Frank Ford (Dublino, 1948) è anglicano e, dal 1991, è Regius Professor di Cristologia e Teologia fondamentale e contemporanea all’Università di Cambridge, primo laico a ricoprire questo ruolo. I suoi scritti sono ispirati principalmente dalla teologia post liberale e narrativa.
I suoi interessi più recenti vertono sull’interpretazione della Sacra Scrittura alla luce del dialogo ecumenico e interreligioso, e nel contesto dello scenario internazionale successivo all’11 settembre. Il suo impegno mira da sempre ad «attingere da ogni tradizione interpretativa di testi sacri non cristiani spunti adatti a ripensare la stessa lettura cristiana della Bibbia, nonché per promuovere cammini di incontro tra le diverse tradizioni religiose» (Dare forma alla vita, Prefazione, p. 6). Si occupa anche dei rapporti delle religioni con le culture e le tradizioni secolari.
Sposato, con tre figli, collaboratore delle comunità dell’Arche fondate da Jean Vanier, unisce alla competenza accademica una passione per tutto ciò che è umano e una spiccata attenzione per la dimensione poetica dell’esistenza. Il volume da cui è tratto il passo è il suo primo libro tradotto in italiano.
Nicholas Wolterstorff (1932, Minnesota, USA) è professore emerito di Teologia filosofica al Berkeley College, Università di Yale. Il libro da cui sono tratti i passaggi citati nel brano di Ford si intitola “Lament for a Son” (1987) ed è stato pubblicato in Italia nel 2002 con il titolo “Lamento per un figlio” (GBU Editore).
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