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Io sono il capitano della mia anima

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09/03/2012

Le vostre lettere alla nostra redazione

Gentile professoressa Graziottin,
è da tanto che volevo scriverle, e spero proprio che le arrivi il mio messaggio. Attendo sempre con gioia il suo articolo del lunedì sul Gazzettino, poiché capita spesso che tratti di un argomento sul quale, per i più vari motivi, mi trovo a riflettere durante la settimana. E capita altrettanto spesso che riesca, in poche righe, a trovare risposte o conferme al mio pensiero. Mi piace inoltre andare sul sito della sua Fondazione e leggere gli spunti culturali, soprattutto sul dolore e sulla morte. Ho appena terminato di leggere “Saper accompagnare” [Frank Ostaseski, Saper accompagnare. Aiutare gli altri e se stessi ad affrontare la morte, Oscar Mondadori 2006], e anche lì ho trovato contenuti che mi sono stati molto d’aiuto. Lo scorso novembre è morto mio padre, con cui avevo un rapporto un po’ controverso, ma che ho riscoperto proprio durante la sua malattia. Sulla tomba abbiamo scritto “Ameremo ciò che ebbe valore per te”, tratta dal suo articolo sulla lettera del soldato caduto in guerra [«Amerai ciò che ho amato, e io vivrò in te». Dalla lettera di un caduto alla madre]. Ciononostante, la sua fine mi ha lasciato dentro una grande inquietudine e angoscia, e da allora il pensiero della morte ricorre un po’ in tutte le mie giornate. Evidentemente non sono ancora nella fase della distensione... Mi è piaciuto molto ciò che si dice in “Saper accompagnare” su questa parte, e cioè che il lutto è presente nella nostra vita quotidiana più di quello che pensiamo. Quanto è vero! A volte faccio davvero fatica a districarmi in così tante domande che alla fine non hanno risposta: però, per fortuna, ci sono persone o fatti o musiche o film che qualche risposta la danno. In “Invictus”, il film che racconta la storia di Nelson Mandela, c’è per esempio una poesia [del poeta inglese William Ernest Henley (1849-1903) – N.d.R.] che lui leggeva mentre era in carcere, e che dice così:
Dalla notte che mi avvolge,
nera come la fossa dell’inferno,
rendo grazie a qualunque dio possa esistere
per la mia anima invincibile.
Nella morsa feroce degli eventi
Non mi sono tirato indietro né ho gridato
Sotto i colpi avversi della fortuna
Il mio capo sanguina, ma non si china.
Oltre questo luogo di rabbia e lacrime
Incombe solo l'orrore delle ombre,
Eppure la minaccia degli anni
Mi trova, e mi troverà, senza paura.
Non importa quanto angusta sia la porta,
quanto impietosa la sentenza,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.
Che messaggio, eh? E infine che sorpresa quando ho letto il suo articolo sulla splendida Irène Némirovsky! [I nostri genitori non ritorneranno] Mi sono subito presa il libro di sua figlia, “Mirador” [Élisabeth Gille, "Mirador. Irène Némirovsky, mia madre", Fazi Editore, Roma 2011]. E’ una delle mie scrittrici preferite, con il suo “David Golder” o “Suite francese”. Per me è stata davvero una gioia sapere che anche lei la conosceva! Mi piacciono tanto le letture su quel periodo storico, ma non è facile trovare qualcuno con cui condividerle.
Per questi motivi e per tanti altri ancora volevo ringraziarla, per essere una delle figure che mi aiutano giorno dopo giorno a tracciare la strada di questa meravigliosa avventura.
Un abbraccio,
Monica

Invictus, testo originale

Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.
In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.
Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.
It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.

La vita di William Ernest Henley

Invictus è una poesia scritta dal poeta inglese William Ernest Henley (1849-1903). Fu composta nel 1875, durante un ricovero in ospedale. Il poeta era infatti ammalato di spondilite tubercolare, una forma di tubercolosi in cui i batteri attaccano innanzitutto le vertebre, e che all'età di 25 anni lo costrinse all’amputazione di una gamba. Henley però non si diede per vinto e, con l’ausilio di una protesi, riuscì a sopravvivere sino all’età di 53 anni, dedicandosi alla scrittura e al giornalismo.

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